Perché il caso Snowden ha cambiato internet
Dalla redazione di Internazionale, io sono Giulia Zoli.
Io sono Claudio Rossi Marcelli.
E questo è Il Mondo, il podcast quotidiano di Internazionale.
Oggi vi parleremo di cosa è cambiato a dieci anni
dal caso Snowden e dell'Everest.
E poi di perché mettiamo il broncio e di un podcast.
È lunedì 12 giugno 2023.
L'intelligenza americana ha scoperto che la privacy non è una cosa che si può scegliere.
Senza privacy non hai niente per te stesso.
Quindi quando le persone mi dicono questo,
mi ricordo che argomentare che non ti interessa la privacy
perché non hai niente da nascoste,
è come argomentare che non ti interessa la parola gratis
perché non hai niente da dire.
Nel giugno del 2013, esattamente dieci anni fa,
l'ex analista dell'intelligenza americana Edward Snowden
rivelò alla stampa i programmi di sorvedianza segreti della NSA,
l'Agenzia per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti.
L'audio che avete appena ascoltato è l'intervista in cui Snowden spiegava
perché aveva deciso di pubblicare migliaia di documenti segreti del governo.
Fu l'inizio di un caso che ebbe ripercussioni in tutto il mondo
e che ha segnato una svolta nella nostra percezione della privacy su Internet.
Ne parliamo con Pierfrancesco Romano, caporedattore di Internazionale.
Edward Snowden è un informatico statunitense
che nel 2013 lavora per un'azienda
che fornisce servizi alla National Security Agency, la NSA.
Un'agenzia con compiti di controspionaggio
e in particolare incaricata della sicurezza delle reti di comunicazione.
Snowden si accorge che nell'agenzia c'è una certa disinvoltura
nell'uso degli strumenti di sorveglianza
e soprattutto nell'uso dei dati raccolti dagli agenti.
E così lui, che da ragazzo è stato un hacker
e ha hackerato il laboratorio nucleare di Los Alamos,
si convince che questi agenti
stanno hackerando la Costituzione statunitense.
E l'agenzia, invece di proteggere il paese dal terrorismo,
è diventata una minaccia alla libertà dei cittadini.
Quindi decide di contattare segretamente un piccolo numero di giornalisti
a cui vuole fornire le prove della condotta,
che secondo lui è illegale e in ogni caso è discutibile, della NSA.
Si rifugia a Hong Kong e a Hong Kong, nella sua stanza d'albergo,
fa arrivare due giornalisti del Guardian,
Ewan McCaskill e Glenn Greenwald,
e una documentarista, Laura Poitras,
che da questo incontro trarrà poi un documentario molto famoso,
intitolato Citizenfour.
Quando scoppia esattamente lo scandalo?
Il primo articolo del Guardian sulla vicenda, firmato da Greenwald,
esce il 6 giugno del 2013
e racconta che l'operatore telefonico Verizon
passa alla NSA i dati sulle conversazioni telefoniche
di milioni di cittadini statunitensi.
Che l'agenzia raccogliesse informazioni simili
era già stato ammesso dall'amministrazione Bush,
che l'aveva giustificato come un'attività necessaria
per la lotta al terrorismo dopo gli attentati dell'11 settembre 2001.
Questa volta i documenti raccolti da Snowden
rivelano che sotto l'amministrazione Obama
l'attività di spionaggio interno dell'NSA non solo è continuata,
ma si è allargata, sia per quantità di dati raccolti,
sia per il tipo di dati, i tabulati telefonici,
le e-mail, le attività sui social network,
e sia anche per il numero delle aziende coinvolte.
Praticamente tutte le grandi aziende tecnologiche statunitensi,
Apple, Google, Facebook, Microsoft,
erano obbligate a fornire dati sui propri utenti e clienti.
Il 9 giugno Snowden decide di far conoscere la propria identità
all'opinione pubblica, visto che non è lui ad avere qualcosa da nascondere,
e di spiegare le sue ragioni,
che sono appunto la difesa della privacy dei cittadini
e della Costituzione statunitense.
In autunno dello stesso anno si viene a sapere
che l'NSA ha spiegato anche la presidente brasiliana Dilma Rousseff,
la cancelliera tedesca Angela Merkel, vari presidenti francesi,
poi che ha intercettato milioni di comunicazioni in Italia e in Spagna,
e che i dati sono stati consultati anche dai servizi segreti britannici.
Lo scandalo a quel punto ha proporzioni internazionali mai viste
e sembra segnare una svolta nel rapporto tra cittadini, istituzioni
e aziende tecnologiche in tutto il mondo.
Cosa succede dopo la pubblicazione di questi documenti segreti?
Intanto bisogna aspettare il 2015,
prima che un tribunale statunitense stabilisca finalmente
che in effetti le intercettazioni della NSA erano illegali.
A quel punto gli Stati Uniti cambiano le leggi sulla sorveglianza interna,
mettendo qualche limitazione in più.
Per Snowden invece la vita cambia radicalmente.
Come racconta David Smith, corrispondente da Washington, del Guardian,
dopo l'incontro con i giornalisti a Hong Kong,
Snowden pensava di chiedere asilo politico in Ecuador
e di raggiungere il paese sudamericano passando dalla Russia.
Quando atterra a Mosca, però, scopre che il suo passaporto statunitense è stato ritirato.
Quindi passa 40 giorni in aeroporto
cercando un paese raggiungibile senza il passaporto americano
e disposto a concedergli protezione.
27 paesi gli dicono di no.
Alla fine rimane in Russia,
dove viene raggiunto poi dalla sua compagna, con cui ha due figli,
e dove rimane ancora oggi.
Pur essendo apertamente critico con i regimi di Putin,
ha ottenuto poi la cittadinanza russa
proprio dopo lo scoppio della guerra tra Russia e Ucraina,
probabilmente anche per convenienze di propaganda di Mosca.
Oggi, oltre a essere una voce importante per i movimenti in difesa della privacy,
si occupa di mettere a punto strumenti digitali sicuri per i giornalisti
e in particolare per quelli che lavorano in regime autoritari.
Negli Stati Uniti è ancora ricercato.
Sulla sua testa pendono varie accuse di questioni legate allo spionaggio
e gli potrebbero costare, sempre se mai rientrasse nel paese d'origine,
30 anni di prigione.
Non si è mai pentito di quello che ha fatto
e anzi, dice semmai di rimpiangere di non averlo fatto prima.
C'è da dire che Snowden,
nonostante tutte le traversie che ha dovuto affrontare,
è stato comunque più fortunato di Julian Assange, di Wikileaks,
protagonista di altre rivelazioni sui segreti del governo statunitense
proprio in quegli anni.
Assange è oggi in carcere nel Regno Unito
e rischia l'estradizione negli Stati Uniti,
dove lo aspettano con danne pesantissime.
Perché il caso Snowden è considerato così importante oggi?
È come lui stesso ha detto nell'intervista che abbiamo sentito all'inizio.
Dire che la questione della privacy non ci interessa
perché non abbiamo niente da nascondere
è come dire che non ci interessa la libertà di espressione
perché non abbiamo niente da dire.
Per molti attivisti dei movimenti di difesa del diritto alla privacy,
le rivoluzioni dell'epoca di quello che poi è stato chiamato il DataGate,
non erano tanto una scoperta quanto una conferma
di quello che questi movimenti denunciavano da anni.
Ma per i comuni e i cittadini di tutto il mondo
è forse la prima volta che c'è la consapevolezza, l'evidenza
di quanto tutto ciò che li riguarda privatamente
è soggetto a un tipo di sorveglianza di cui non avevano alcuna idea.
Questo alimenta una certa diffidenza che forse è rimasta,
anche se piuttosto grezza,
e anche se è una diffidenza che non ha portato a comportamenti
né collettivi né individuali conseguenti.
L'unica cosa che forse si può dire con certezza
è che quantomeno ha ampliato la platea del dibattito intorno a questi temi
e non è poco.
Rispetto a dieci anni fa, quanto è cambiata secondo te
la nostra percezione che la nostra attività online
è così esposta alla sorveglianza e al controllo da parte di agenti esterni?
Come dicevamo prima, sicuramente la consapevolezza è molto più diffusa.
Quanto questo incida nel modo in cui funziona il sistema tecnologico
in cui ci continuiamo a muovere, è difficile da dire.
David Smith, il giornalista del Guardian che abbiamo già citato,
ha cercato di fare un bilancio a dieci anni, appunto,
dalle rivelazioni di Snodo,
chiedendo un parere a vari attivisti per la difesa della libertà d'espressione,
uno dei quali gli ha risposto che la vicenda ha fatto un'enorme differenza
sulla consapevolezza dell'opinione pubblica.
Però, come se questo non avesse cambiato molto poi dall'altra parte,
cioè dalla parte delle aziende e dei governi.
L'avvocato di Snoden, Ben Wisner,
che è anche uno dei responsabili dell'American Civil Liberties Union,
una delle associazioni più attive per la difesa dei diritti civili negli Stati Uniti,
sostiene che quello scandalo ha avuto il merito
di rendere molto più coraggiosi i giornalisti
e di cancellare la soggezione al potere
che invece aveva caratterizzato la stampa, soprattutto statunitense,
negli anni, per esempio, della guerra in Iraq.
E che anche i politici e le istituzioni statunitensi
sarebbero diventati in seguito più consapevoli
della necessità di trasparenza e di rispetto delle regole.
Uno dei giornalisti contattati da Snoden, Glenn Greenwald,
non è invece così ottimista.
Lui sostiene che il governo statunitense continua le sue attività di spionaggio
in modi perfino più estremi di quanto era riuscito a documentare il DataGate,
anche perché nel frattempo la tecnologia è migliorata.
Non ci dobbiamo dimenticare,
anche se questo non ha direttamente a che fare con il caso Snoden,
che nel 2019 è uscito Il capitalismo della sorveglianza,
un libro della sociologa Shoshana Zuboff,
secondo cui la raccolta sistematica di dati personali attraverso le tecnologie
è diventata addirittura l'elemento centrale
del sistema capitalistico contemporaneo.
È difficile capire quindi quanto sia stato utile
e quanto invece è semplicemente frustrante
scoprire tutto quello che Snoden ha rivelato.
Forse si può tenere presente quello che lui stesso ha detto
a distanza di tempo dai fatti.
Lui dice che ci fidavamo che il governo non ci avrebbe fregato
e invece l'ha fatto.
Ci fidavamo che le aziende tecnologiche non si sarebbero approfittate di noi
e invece l'hanno fatto.
E succederà ancora, perché questa è la natura del potere.
Grazie a Pierfrancesco Romano.
Grazie a voi.
NON COMPRENDERE I FATTI
La notizia di Scienza della settimana raccontata da Elena Boille,
vice-direttrice di Internazionale.
Rebecca Roach è una filosofa della University of London,
dove si occupa di filosofia applicata, filosofia della mente
e filosofia del linguaggio.
Lavora in particolare sul modo in cui comunichiamo con gli altri
e sulle forme indirette di comunicazione.
Nell'articolo che abbiamo ripreso dalla rivista ION,
in questo numero di internazionale,
Roach si sofferma sul broncio, il muso lungo,
quello che mettono i bambini e spesso anche gli adulti
per esprimere il loro malcontento.
Si tratta di una forma di comunicazione
che paradossalmente usa proprio il rifiuto di parlare per comunicare.
Quando gli si chiede cosa c'è che non va,
il cupo, niente, dell'imbronciato,
lo contrasta con il suo linguaggio del corpo
e con il suo comportamento, che dicono l'esatto opposto.
Certo, per comunicare il proprio turbamento in modo non verbale,
è importante che la persona a cui si fa il muso
sia nella condizione di intuire che qualcosa non va.
Per questo di solito mettiamo il broncio a chi ci conosce bene
e che generalmente è interessato a comunicare con noi.
Perché se la prima funzione del broncio è punire l'altro
e l'altro invece ci ignora, la nostra strategia fallisce.
Il muso lungo è pieno di regole implicite e paradossi
ed è usato generalmente da chi vorrebbe vedere soddisfatti i propri bisogni
ma si sente impotente.
Ma cos'è esattamente il broncio? Come funziona?
E cosa distingue un broncio salutare da uno fastidioso
o addirittura manipolatorio e violento?
Ora, finalmente, salita, un luogo di spazio pericoloso del mondo.
29.000 metri sopra il mare,
Hillary e Norky hanno messo il piede dove nessuno è mai stato.
Sono i più grandi avventurieri della storia.
Hanno conquistato la montagna Everest inconquerebile.
La prima scesa documentata sulla vetta della montagna più alta del mondo,
l'Everest, la raggiunsero 70 anni fa, il 29 maggio 1953,
il neozelandese Edwin Dillery e la guida Sherpa Tenzing Norgay.
Fu una grande impresa alpinistica
e con grandi conseguenze e implicazioni politiche, storiche, ambientali e culturali.
Che ha raccontata in Everest, il nuovo volume di internazionale storia,
in edicola e in libreria online dal 6 giugno.
Ne parliamo oggi insieme a Daniele Cassandro,
editor dei numeri speciali di Internazionale,
che ha curato questo volume con Andrea Pipino.
Dopo gli speciali storici dedicati alla caduta del muro di Berlino,
all'emigrazione italiana nel mondo, alla decolonizzazione,
alla marcia su Roma e alla figura di Stalin,
siamo arrivati, in occasione del 70° anniversario,
a parlare dell'ascesa degli 8849 metri del monte Everest.
Abbiamo ancora una volta diviso il volume in sezioni.
Abbiamo una parte iniziale con i primi tentativi
di esplorazione inglese e britannica di quella zona dell'Himalaya.
Abbiamo una parte centrale dedicata all'impresa del 1953,
che era documentatissima dalla stampa inglese dell'epoca.
E poi abbiamo una parte finale
in cui parliamo delle conseguenze attuali di quella scalata, di quell'impresa.
Cosa ne è adesso dell'Everest?
Che implicazioni ha avuto quella impresa sulle questioni ambientali,
sulla nostra percezione postcoloniale di quella parte del mondo?
A chi appartengono le voci di questo volume?
Chi ha raccontato quell'impresa nelle sue varie fasi?
Le prime due parti del volume, le voci che sentiamo,
sono soprattutto quelli della stampa britannica,
che seguiva con molta attenzione l'impresa dell'Everest.
Il primo pezzo che pubblichiamo nel libro è datato 1858,
quindi siamo parecchio prima dei veri e propri tentativi di scalata.
È un pezzo pubblicato
nella Proceedings of the Royal Geographical Society of London,
firmato dal geografo Andrew Scott Woeh.
Abbiamo scelto questo pezzo perché fa capire
proprio com'è stato scelto il nome Everest.
Woeh ha identificato la cosiddetta cima numero 15
della catena dell'Himalaya, che non aveva ancora un nome,
come la più alta del mondo, dopo i vari rilievi che erano stati fatti,
e decide di chiamarla col nome di Sir George Everest, che era il suo maestro.
Quindi il primo atto di conquista della vetta
è un atto di appropriazione del nome.
I quotidiani e i periodici britannici
hanno seguito con attenzione i vari tentativi di scalata dell'Everest,
fin dalla prima spedizione, che era quella del 1921.
Nella terza, quella del 1924,
in cui sparirono gli alpinisti George Mallory e Andrew Irvine,
il Manchester Guardian, per esempio, era lì sul posto
e ha descritto i momenti tragici
del non-ritorno di questi due alpinisti.
Nel 1953, a seguire giorno per giorno
la scalata dell'Everest di Tenzing e Hillary, era il Times.
Il Times aveva mandato un giornalista specializzato in alpinismo,
che era James Morris,
a seguire dai campi base le varie fasi della scalata.
Il racconto è avvincente, fresco, è raccontato proprio giorno dopo giorno.
James Morris è una figura particolarmente interessante,
perché è rimasto legato al racconto della montagna per tutta la vita,
anche dopo gli anni Sessanta,
quando deciderà di sottoporsi a un'operazione di transizione di genere.
E da allora diventerà John Morris,
ma continuerà comunque sempre a seguire,
fino all'anno della sua morte, nel 2020,
le vicende dell'Everest e le conseguenze di questa grande scoperta.
Anzi, uno degli ultimi pezzi che pubblichiamo nel giornale
è proprio una sua riflessione, 60 anni dopo la scalata,
in cui racconta il suo rapporto ambivalente
con la scalata e la scoperta dell'Everest.
Il linguaggio che parlano questi pezzi
è un linguaggio che oggi ci colpisce abbastanza.
Più che un linguaggio legato alla natura
e all'ammirazione della natura, è un linguaggio guerresco.
Proprio nell'ottica coloniale,
queste vette sono qualcosa da conquistare, qualcosa da espugnare.
Molto spesso il linguaggio è militaresco,
molto spesso si parla di conquista, di avanguardie.
È proprio anche interessante linguisticamente
seguire come venivano trattati sui giornali questo tipo di imprese.
Nella terza parte del giornale vedremo che il linguaggio cambierà molto.
Era un'epoca in cui l'ascesa dell'Everest
non era solo un'impresa sportiva, alpinistica.
Per 30 anni i britannici inseguirono questo sogno di conquistare l'Everest.
Perché era così importante in quel momento?
Era una prova di soft power molto forte.
Comunicare che la Gran Bretagna era lì, in quella zona del mondo,
e faceva un'opera di scoperta.
C'era ancora l'idea della grande avventura
e della grande scoperta naturalistica,
sempre legata al concetto di conquista.
Era un momento in cui l'impero britannico era particolarmente fragile
e serviva comunicare in maniera assertiva
che loro erano lì e stavano facendo queste grandi imprese.
Fin dall'inizio, dagli primi dell'Ottocento,
che era l'epoca della Great Trigonometrical Survey of India,
cioè queste campagne lunghissime di rilievi orografici
per capire come fosse fatta fisicamente
questo enorme continente che la Gran Bretagna aveva conquistato,
c'era appunto questa fissazione di, anzitutto, conquistare questi luoghi,
capendoli e riducendoli a numeri, altezze.
Anche lì era cominciata l'ossessione del picco più alto del mondo,
che probabilmente poi si è rivelato era proprio lì.
Le prime spedizioni avevano questo obiettivo di conquista degli spazi.
Non è un caso che la conquista della vetta dell'Everest del 1953
fu comunicata al pubblico esattamente il 2 giugno del 1953,
che era il giorno dell'incoronazione della regina Elisabetta II d'Inghilterra.
Era un momento, ripeto, in cui l'impero britannico era particolarmente fragile,
era praticamente in via di dissoluzione.
Saliva al trono questa giovane regina
e è stato utilissimo per lei dal punto di vista comunicativo
avere questo tipo di copertura sulla stampa nazionale.
C'è un pezzo che noi pubblichiamo, dell'Evening Standard,
proprio del 2 giugno 1953,
in cui il giornalista, in maniera molto encomiastica, molto enfatica,
dice che la conquista dell'Everest è simbolicamente
la rappresentazione del grande impero britannico
che riesce a far convivere in armonia e in letizia popoli diversi
sotto il comune obiettivo delle grandi conquiste e avventure.
Tra le tante storie che percorrono questo volume
c'è anche quella di un luogo che da mitico, meraviglioso, esotico
diventa sovraffollato, inquinato, minacciato.
Qui sono altre voci invece a parlare.
Nella terza parte del volume
le voci non sono più esclusivamente quelle della stampa inglese,
ma c'è anche la stampa indiana e nepalese
che finalmente si riappropria della storia della conquista dell'Everest
e si riappropria anche della narrazione intorno a questa montagna sacra,
anche così ingombrante a questo punto
nella storia coloniale e postcoloniale di quella parte di mondo.
Per esempio, abbiamo diverse fonti nepalesi,
i Mal South Asian, per esempio,
che proprio decostruisce il mito esotico del misticismo himalaiano
e proprio spiega come il primo danno che è stato fatto alla montagna,
prima ancora che fosse affollata di turisti,
era un danno di tipo culturale,
cioè è stata raccontata agli occidentali
come meta mistica in maniera abbastanza fumosa
e senza tenere conto assolutamente di come era percepita dagli abitanti.
E in più abbiamo anche fonti indiane
che parlano di un approccio diverso alla montagna,
un approccio non occidentale
basato proprio su una filosofia diversa dell'alpinismo e dello scalare.
L'ultima parte del giornale
è proprio la parte in cui ascoltiamo voci diverse,
per esempio anche le voci delle prime donne che hanno scalato l'Everest.
In fondo la narrazione classica della grande avventura è molto maschile.
Dagli anni 70 in poi ci sono state in particolare tre donne che noi raccontiamo
che sono state le prime pioniere a scalare la montagna.
E poi ci sono le immagini, le fotografie, non solo d'epoca, e i disegni.
Se dovessi indicare tre immagini rappresentative
del percorso che avete tracciato in questa internazionale storia,
quali potrebbero essere?
Le immagini del fumetto che pubblichiamo alla fine del volume,
che è firmato dal grande fumettista giapponese Jiro Taniguchi,
che ha dedicato un'opera di cinque volumi al tema dell'Everest in particolare.
Noi abbiamo scelto le tavole molto drammatiche
in cui si descrive il ritrovamento del corpo di Mallory,
cioè di uno dei due alpinisti dispersi nel 1924.
Pensate, il corpo fu trovato nel 1999,
praticamente mummificato nel gelo, circondato dalle sue oggetti.
E proprio le tavole di Taniguchi,
con un realismo abbastanza impressionante,
questi onomatopei per cui lui è famoso,
descrivono questo incredibile e anche un po' macabro ritrovamento.
Altre immagini interessanti che abbiamo nel volume
sono quelle verso la fine, in cui il fotografo Fabiano Ventura
riesce a mettere a confronto immagini che lui stesso ha scatato nel 2018
con quelle scatate nel 1924.
Sono immagini impressionanti perché fanno vedere
e fanno proprio toccare con mano e vedere in modo chiarissimo
come è cambiato il clima, è cambiato l'aspetto di queste montagne.
Personalmente ho trovato particolarmente belle
delle foto che noi pubblichiamo all'inizio del volume
di un pezzo del Times del 1876,
che era la recensione di un libro
su quelle che venivano chiamate Alpi malaiane all'epoca,
quindi la zona del Darjeeling e del Sikkim,
scritto da una viaggiatrice dell'epoca, questa Lady Pioneer,
che era un pseudonimo di Elisabeth Sara Mazzucchelli,
che aveva esplorato da viaggiatrice di fine Ottocento queste zone.
Le fotografie che corredano questo articolo sono del 1860
e sono particolarmente interessanti
perché proprio si vede l'estetica del paesaggio inglese romantico
applicato al Darjeeling, applicato alle montagne indiane
ed è proprio, secondo me, anche visivamente il punto d'inizio
dell'esotizzazione britannica di questa parte del mondo.
Grazie a Daniele Cassandro.
Grazie a voi.
Il podcast della settimana è consigliato da Giona Tanzenti,
autore e produttore di podcast che collabora con Internazionale.
Quando Sara e Sofia si conoscono, scoprono di avere una cosa in comune.
Entrambe hanno perso la madre quando erano molto giovani.
La mamma di Sara è morta per una malattia
quando lei era ancora un adolescente,
mentre quella di Sofia era stata rapita,
quando Sofia era ancora molto piccola,
dai militari del generale Ior Ghevidelli in Argentina,
diventando una delle migliaia di donne desaparecide,
sparite quindi durante la dittatura.
Il loro incontro è l'occasione per tutte e due
di ripercorrere il loro rapporto con le loro madri,
anche se poi è la storia di Sofia prendersi giustamente quasi tutto lo spazio,
con un viaggio in Argentina che la riporta a ricostruire il ricordo della madre
attraverso i racconti e le testimonianze di chi l'aveva conosciuta
e i luoghi in cui aveva abitato e che aveva anche costruito.
La madre di Sofia infatti era un'architetta.
Con questo lavoro, Sara Poma, dopo l'indipendente Carla
e l'originale Spotify Prima,
chiude una trilogia sulla trasmissione matriarcale
e femminile della memoria,
un concetto che suona completamente nuovo alle nostre orecchie,
abituate ad una storia e ad una memoria
che passa dalle guerre, dalle conquiste
e da altri principi storicamente molto maschili.
Il podcast soffre un po' di un eccesso di produzione
e di un'abbondanza di musica per una storia che è già forte di per sé,
che non avrebbe bisogno di commenti aggiuntivi.
Ma Sara Poma si conferma comunque un'autrice,
una delle poche persone in Italia
a realizzare prodotti di livello internazionale.
Preparatevi i fazzoletti, perché si piange ascoltando figlie.
Si piange molto.
Figlie, di Sara Poma per Cora Media,
ascoltabile sull'applicazione RaiPlay Sound.
Dalla redazione di Internazionale, per oggi è tutto.
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