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Il giornalino di Gian Burrasca - Vamba, Capitolo 21

Capitolo 21

22 gennaio

Ho appena due minuti di tempo per scrivere due righe. Sono a Montaguzzo, nel collegio Pierpaoli, e approfitto di questo momento in cui mi trovo solo, in camerata, con la scusa di prendere dal mio baule la biancheria che mi è necessaria per la mia toilette. Proprio così. Ieri mattina il Maralli mi riaccompagnò dal babbo al quale raccontò tutto quello che gli era successo per causa mia, e allora il babbo - a racconto finito - non disse altro che queste parole: - Me l'aspettavo: tant'è vero che il suo baule con tutto il corredo richiesto dal collegio Pierpaoli è su bell'e pronto. Partiremo subito, con la corsa delle nove e quarantacinque! - Giornalino mio, non ho coraggio di descrivere qui la scena della separazione dalla mamma, dall'Ada, dalla Caterina... Si piangeva tutti come tante fontane, e anche ora nel ripensarci mi vengon giù, su queste pagine, i goccioloni a quattro a quattro... Povera mamma! In quel momento ho capito quanto bene mi vuole, e ora che sono così lontano da lei capisco quanto bene le voglio io... Basta: il fatto è che, dopo due ore di treno e quattro dì diligenza, sono arrivato qui, dove il babbo mi ha consegnato al signor direttore e mi ha detto lasciandomi: - Speriamo che quando ritornerò a prenderti possa trovare un ragazzo diverso da quello che lascio! Mi riescirà di diventare diverso da quel che sono? Sento la voce della direttrice...

Mi hanno messo la divisa del collegio che è bigia, col berrettino da soldato, la tunica con una doppia fila di bei bottoni d'argento e i calzoni lunghi con le bande rosso-scure. I calzoni lunghi mi stanno benissimo; ma però la divisa del collegio Pierpaoli non ha sciabola e anche per questo stato un bel dispiacere!

29 gennaio

È una settimana, giornalino mio, che non ho scritto più un rigo in queste tue pagine, nelle quali in questi giorni avrei avuto pur tante cose tristi e comiche da confidare e anche tante lacrime da versare!... Ma qui, in questo stabilimento carcerario che chiamano collegio, non siamo mai soli, neppure quando si dorme, e la libertà non penetra mai per nessuno, neppure per un minuto secondo... Il direttore si chiama il signor Stanislao ed è un uomo secco secco e lungo lungo, con due gran baffoni brizzolati che quando s'arrabbia gli treman tutti, e con una zazzera di capelli nerissimi che gli vengono in avanti appiccicati sulle tempie e che gli dànno l'aria di un grand'uomo, ma dei tempi passati. È un tipo militare, che parla sempre a forza di comandi e facendo gli occhi terribili. - Stoppani, - mi ha detto un paio di giorni fa - stasera starete a pane e acqua! Per fianco destro... March! - E questo, perché? Perché mi aveva sorpreso nel corridoio che conduce alla sala di ginnastica mentre scrivevo col carbone sul muro: Abbasso i tiranni! Più tardi la direttrice mi disse: - Sei un sudicione e un malvagio. Sudicione perché hai sporcato il muro, e malvagio perché offendi le persone che cercano di farti del bene correggendoti. Chi hai voluto indicare come tiranni? Sentiamo... - Uno è Federigo Barbarossa, - risposi subito - un altro è Galeazzo Visconti, un altro è il generale Radeschi, e un altro è... - Siete anche un impertinente, ecco tutto! Andate in classe subito! - Questa direttrice non capisce nulla; invece d'aver piacere chi io mi appassioni contro i peggiori personaggi della storia patria, s'è messa in testa, da quella volta, che io la canzoni, e non mi leva mai gli occhi di dosso. La direttrice si chiama la signora Geltrude ed è la moglie del signor Stanislao, ma è un tipo tutto diverso da lui. È bassa bassa e grassa grassa, con un naso rosso rosso, e declama sempre, e fa dei grandi discorsi per delle cose da nulla, e non si cheta mai un minuto, corre per tutto e discorre con tutti e su tutto e su tutti trova a ridire. Gli insegnanti che fanno lezione alle diverse classi sono tutti dipendenti dal direttore e dalla direttrice e paion loro servitori. Il professore di francese arriva perfino a baciare la mano alla signora Geltrude tutte le mattine quando le dà il buon giorno e tutte le sere quando le dà la buona sera; e il professore di matematiche dice sempre al Signor Stanislao quando va via: "Servo suo, signor direttore!" Noi collegiali siamo ventisei in tutti: otto grandi, dodici mezzani e sei piccoli. Io sono il più piccino di tutti. Si dorme in tre camerate, una accanto all'altra, si mangia tutti in un gran salone, due pasti al giorno e la mattina il caffè e latte col pane inzuppato, ma senza burro e sempre con poco zucchero. Il primo giorno a desinare vedendo venir la minestra di riso esclamai: - Meno male! Il riso mi piace moltissimo... - Un ragazzo di quelli grandi che sta di posto accanto a me (perché a tavola ci mettono sempre alternati, uno piccino e uno più grande) e che si chiama Tito Barozzo ed è napoletano, dette in una gran risata e disse: - Tra una settimana non dirai più così! - Io allora non capii niente, ma ora ho compreso benissimo il significato dì quelle parole. Sono sette giorni che sono qui e, meno l'altro ieri che era venerdì, si è sempre mangiato la minestra di riso due volte al giorno... Mi è venuta così a noia, che l'idea di una minestra di capellini, che prima mi era così antipatica, ora mi manda tutto in solluchero!... Oh mamma mia, cara mammina che mi facevi fare spesso da Caterina gli spaghetti con l'acciugata che mi piacciono tanto, chi sa come ti dispiacerebbe se tu sapessi che il tuo Giannino in collegio è obbligato a mangiare dodici minestre di riso in una settimana! 1° febbraio.

È appena giorno e io che mi sono svegliato presto ne profitto per continuare a registrare le mie memorie nel mio caro giornalino, mentre i miei cinque compagni dormono della grossa. In questi due giorni passati ho due fatti notevoli da narrare: una condanna alla prigione e la scoperta della ricetta per fare un'eccellente minestra di magro. Ieri l'altro dunque, cioè il 30 Gennaio, dopo colazione, mentre stavo chiacchierando con Tito Barozzo, un altro collegiale grande, un certo Carlo Pezzi, gli si accostò e gli disse sottovoce: - Nello stanzino ci son le nuvole... - Ho capito! - rispose il Barozzo strizzando un occhio. E poco dopo mi disse: - Addio, Stoppani, vo a studiare - e se n'andò dalla parte dove era andato il Pezzi. Io che avevo capito che quella d'andare a studiare era una scusa bella e buona e che invece il Barozzo era andato nello stanzino accennato prima dal Pezzi, fui preso da una grande curiosità e, senza parere, lo seguii pensando: - Voglio vedere le nuvole anch'io. - E arrivato a una porticina dove avevo visto sparire il mio compagno di tavola, la spinsi e... capii ogni cosa. In una piccola stanzetta che serviva per pulire e assettare i lumi a petrolio (ve n'erano due file da una parte, e in un angolo una gran cassetta di zinco piena di petrolio e cenci e spazzoloni su una panca) stavano quattro collegiali grandi che nel vedermi, si rimescolarono tutti, e vidi che uno, un certo Mario Michelozzi, cercava di nascondere qualcosa... Ma c'era poco da nascondere, perché le nuvole dicevano tutto; la stanza era piena di fumo e il fumo si sentiva subito che era di sigaro toscano. - Perché sei venuto qui? - disse il Pezzi con aria minacciosa. - Oh bella! Son venuto a fumare anch'io. - No, no! - saltò a dire il Barozzo. - Egli non è avvezzo... gli farebbe male, e così tutto sarebbe scoperto. - Va bene: allora starò a veder fumare. - Bada bene però, - disse un certo Maurizio Del Ponte. - Guai se... - Io, per tua regola - lo interruppi con alterezza, avendo capito quel che voleva dire - la spia non l'ho mai fatta e spero bene! - Allora il Michelozzi che era rimasto sempre prudentemente con le mani didietro, tirò fuori un sigaro toscano ancora acceso, se lo cacciò avidamente tra le labbra, tirò due o tre boccate e lo passò al Pezzi che fece lo stesso passandolo poi al Barozzo che ripeté la medesima funzione passandolo al Del Ponte che, dopo le tre boccate di regola, lo rese al Michelozzi... e così si ripeté il passaggio parecchie volte, finché il sigaro fu ridotto a una misera cicca e la stanza era così piena di fumo che ci si asfissiava... - Apri il finestrino! - disse il Pezzi al Michelozzi. E questi si era mosso per eseguire il saggio consiglio quando il Del Ponte esclamò: - Calpurnio! - E si precipitò fuori della stanza seguito dagli altri tre. Io, sorpreso da quella parola ignorata, indugiai un po' nella istintiva ricerca del suo misterioso significato, pur comprendendo ch'era un segnale di pericolo; e quando a brevissima distanza dagli altri feci per uscir dalla porticina, mi trovai a faccia a faccia col signor Stanislao in persona che mi afferrò per il petto con la destra e mi ricacciò indietro esclamando: - Che cosa succede qua? - Ma non ebbe bisogno di nessuna risposta; appena dentro la stanza comprese perfettamente quel che era successo e con due occhi da spiritato, mentre gli tremavano i baffi scompigliati dall'ira, tonò: - Ah, si fuma! Si fuma, e dove si fuma? Nella stanza del petrolio, a rischio di far saltar l'istituto! Sangue d'un drago! E chi ha fumato? Hai fumato tu? Fa' sentire il fiato... march! - E si chinò giù mettendomi il viso contro il viso in modo che i suoi baffoni grigi mi facevano il pizzicorino nelle gote. Io eseguii l'ordine facendogli un gran sospiro sul naso ed egli si rialzò dicendo: - Tu no... difatti sei troppo piccolo. Hanno fumato i grandi... quelli che sono scappati di qui quando io imboccavo il corridoio. E chi erano? Svelto... march! - Io non lo so. - Non lo sai? Come! Ma se erano qui con te! - Sì, erano con me... ma io non li ho visti... Sa, con questo fumo!... - A queste parole i baffi del signor Stanislao incominciarono a ballare una ridda infernale. - Ah! Sangue di un drago! Tu ardisci rispondere così al direttore? In prigione! In prigione! March! - E afferratomi per un braccio mi portò via, chiamò un bidello e gli disse: - In prigione fino a nuov'ordine! La prigione è una stanzetta su per giù come quella dei lumi a petrolio, ma più alta della metà, e c'è una finestra lassù per aria, con una barra di ferro che le dà proprio l'aspetto triste di una prigione. Fui serrato lì dentro a catenaccio, e vi rimasi solo con i miei pensieri finché non venne a farmi visita la signora Geltrude la quale mi fece una lunga predica sul pericolo dell'incendio che avrebbe potuto succedere se il foco del sigaro si fosse appiccato al petrolio, e seguitò a declamare per un bel pezzo per finire poi, con voce patetica, a scongiurarmi di dire a lei la verità, assicurandomi che non era per dare delle punizioni ai colpevoli, ma per prendere delle precauzioni nell'interesse di tutti... Io naturalmente seguitai a dire che non sapevo niente e che non avrei detto niente mai, anche se mi avessero tenuto in prigione per una settimana, che dopo tutto era meglio stare a pane e acqua che essere obbligati a mangiar la minestra di riso due volte al giorno... La direttrice se ne andò tutta invelenita dicendomi con voce drammatica: - Vuoi essere trattato con tutto il rigore? Tal sia di te! - Rimasto solo daccapo, mi sdraiai sul lettuccio che era in un canto della prigione e non tardai ad addormentarmi perché era già tardi e io ero stanco da tante emozioni. La mattina dopo, cioè iermattina, mi svegliai di lietissimo umore. Il mio pensiero, considerando i miei casi, corse ai tempi delle cospirazioni, quando i patriotti italiani marcivano nelle prigioni piuttosto che dire i nomi dei congiurati ai tedeschi, e mi sentivo pieno d'allegria, e avrei voluto magari che la prigione fosse stata più stretta e magari anche umida, e con qualche topo. Però, in mancanza di topi, c'era qualche ragno, e io mi misi in testa di ammaestrarne uno, come Silvio Pellico, e mi misi all'opera con tutto l'impegno, ma dovetti smettere. Non so se dipenda perché i ragni d'allora fossero più intelligenti di quelli d'ora o perché i ragni di collegio siano più zucconi degli altri, ma il fatto è che quel maledetto ragno faceva tutto il contrario di quel che gli dicevo dì fare, e mi fece tanto arabbiare che da ultimo lo schiacciai con un piede. Allora mi venne in mente che, se avessi potuto chiamare dalla finestra qualche passerotto, sarebbe stato molto più facile di ammaestrarlo; ma la finestra era così alta!... Non so che cosa avrei dato per potere arrampicarmi su quella finestrina; e a furia di pensarci mi era venuto come una frenesia e non potevo più star fermo, né mi riusciva di levarmi dal cervello quell'idea... Cominciai dal trascinare il lettuccio sotto la finestra per diminuirne la distanza; poi presi un pezzo di corda che avevo in tasca, levai la cinghia dei calzoni e l'aggiunsi a quella... Ma con tutt'e due si arrivava appena alla metà dell'altezza cui era posta la finestra. Allora mi cavai la camicia, la strappai a strisce, che attorcigliai a uso fune e che aggiunsi alla corda che avevo già; ne venne una corda assai lunga che lanciai mirando alla finestra. Ora ci arrivava, ma occorreva una lunghezza maggiore per farne ritornar giù una parte dopo averla fatta passare sulla sbarra che era nel mezzo alla finestra. Mi cavai anche le mutande delle quali feci altre strisce che aggiunsi alle altre. Cosi ottenni una corda sufficiente a tentare la scalata che mi ero prefisso di dare alla finestra. Da un capo di essa attaccai una scarpa; e incominciai i miei esercizi di tiro a segno lanciando con la destra la scarpa contro la barra di ferro e tenendo nella sinistra l'altro capo della corda. Quanti vani tentativi! Non avevo orologio per calcolare quanto tempo occupassi in questo lavoro, ma potevo giudicarne la durata dal sudore che mi bagnava tutto per la fatica. Finalmente mi riuscì di fare in modo che la scarpa lanciata al disopra della sbarra girasse al di sotto, ritornando dentro la stanza; e dopo, piano piano, a forza di piccole e prudenti scosse date con la parte di corda che avevo in mano mi riuscì di far calare giù l'altro capo tanto da arrivare ad acchiapparlo. Che felicità! Su quella doppia corda mi arrampicai su fino alla finestra, dove mi riescì di accoccolarmi, alla meglio, e salutai il cielo che mai mi era parso così limpido e così bello come in quel momento. Ma oltre alla bellezza del cielo che scorgevo al disopra di me mi commosse l'animo un grato odorino di soffritto che veniva dal di sotto... La finestrina, infatti, dava sul cortiletto della cucina in un angolo del quale era una enorme caldaia piena d'acqua bollente. Allora mi ricordai che era venerdì, il giorno sacro alla famosa minestra di magro che in mezzo a tutte le minestre di riso della settimana veniva ad allietare i nostri stomachi, a quella eccellente minestra di magro così saporita e che pareva riunire in sé le fragranze più care dell'umano palato... Mi sentivo venir l'acquolina in bocca e una grande malinconia mi scendeva giù nella desolata solitudine delle mie povere budella... Fortunatamente questo atroce supplizio durò poco, perché ogni desiderio mi sparì come per incanto dallo stomaco quando scoprii la ricetta con la quale il cuoco del collegio faceva la sua ottima minestra di magro.

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Capitolo 21 Chapter 21

22 gennaio

Ho appena due minuti di tempo per scrivere due righe. Sono a Montaguzzo, nel collegio Pierpaoli, e approfitto di questo momento in cui mi trovo solo, in camerata, con la scusa di prendere dal mio baule la biancheria che mi è necessaria per la mia toilette. Proprio così. Ieri mattina il Maralli mi riaccompagnò dal babbo al quale raccontò tutto quello che gli era successo per causa mia, e allora il babbo - a racconto finito - non disse altro che queste parole: - Me l'aspettavo: tant'è vero che il suo baule con tutto il corredo richiesto dal collegio Pierpaoli è su bell'e pronto. Partiremo subito, con la corsa delle nove e quarantacinque! - Giornalino mio, non ho coraggio di descrivere qui la scena della separazione dalla mamma, dall'Ada, dalla Caterina... Si piangeva tutti come tante fontane, e anche ora nel ripensarci mi vengon giù, su queste pagine, i goccioloni a quattro a quattro... Povera mamma! In quel momento ho capito quanto bene mi vuole, e ora che sono così lontano da lei capisco quanto bene le voglio io... Basta: il fatto è che, dopo due ore di treno e quattro dì diligenza, sono arrivato qui, dove il babbo mi ha consegnato al signor direttore e mi ha detto lasciandomi: - Speriamo che quando ritornerò a prenderti possa trovare un ragazzo diverso da quello che lascio! Mi riescirà di diventare diverso da quel che sono? Sento la voce della direttrice...

Mi hanno messo la divisa del collegio che è bigia, col berrettino da soldato, la tunica con una doppia fila di bei bottoni d'argento e i calzoni lunghi con le bande rosso-scure. I calzoni lunghi mi stanno benissimo; ma però la divisa del collegio Pierpaoli non ha sciabola e anche per questo stato un bel dispiacere!

29 gennaio

È una settimana, giornalino mio, che non ho scritto più un rigo in queste tue pagine, nelle quali in questi giorni avrei avuto pur tante cose tristi e comiche da confidare e anche tante lacrime da versare!... Ma qui, in questo stabilimento carcerario che chiamano collegio, non siamo mai soli, neppure quando si dorme, e la libertà non penetra mai per nessuno, neppure per un minuto secondo... Il direttore si chiama il signor Stanislao ed è un uomo secco secco e lungo lungo, con due gran baffoni brizzolati che quando s'arrabbia gli treman tutti, e con una zazzera di capelli nerissimi che gli vengono in avanti appiccicati sulle tempie e che gli dànno l'aria di un grand'uomo, ma dei tempi passati. È un tipo militare, che parla sempre a forza di comandi e facendo gli occhi terribili. - Stoppani, - mi ha detto un paio di giorni fa - stasera starete a pane e acqua! Per fianco destro... March! - E questo, perché? Perché mi aveva sorpreso nel corridoio che conduce alla sala di ginnastica mentre scrivevo col carbone sul muro: Abbasso i tiranni! Più tardi la direttrice mi disse: - Sei un sudicione e un malvagio. Sudicione perché hai sporcato il muro, e malvagio perché offendi le persone che cercano di farti del bene correggendoti. Chi hai voluto indicare come tiranni? Sentiamo... - Uno è Federigo Barbarossa, - risposi subito - un altro è Galeazzo Visconti, un altro è il generale Radeschi, e un altro è... - Siete anche un impertinente, ecco tutto! Andate in classe subito! - Questa direttrice non capisce nulla; invece d'aver piacere chi io mi appassioni contro i peggiori personaggi della storia patria, s'è messa in testa, da quella volta, che io la canzoni, e non mi leva mai gli occhi di dosso. La direttrice si chiama la signora Geltrude ed è la moglie del signor Stanislao, ma è un tipo tutto diverso da lui. È bassa bassa e grassa grassa, con un naso rosso rosso, e declama sempre, e fa dei grandi discorsi per delle cose da nulla, e non si cheta mai un minuto, corre per tutto e discorre con tutti e su tutto e su tutti trova a ridire. Gli insegnanti che fanno lezione alle diverse classi sono tutti dipendenti dal direttore e dalla direttrice e paion loro servitori. Il professore di francese arriva perfino a baciare la mano alla signora Geltrude tutte le mattine quando le dà il buon giorno e tutte le sere quando le dà la buona sera; e il professore di matematiche dice sempre al Signor Stanislao quando va via: "Servo suo, signor direttore!" Noi collegiali siamo ventisei in tutti: otto grandi, dodici mezzani e sei piccoli. Io sono il più piccino di tutti. Si dorme in tre camerate, una accanto all'altra, si mangia tutti in un gran salone, due pasti al giorno e la mattina il caffè e latte col pane inzuppato, ma senza burro e sempre con poco zucchero. Il primo giorno a desinare vedendo venir la minestra di riso esclamai: - Meno male! Il riso mi piace moltissimo... - Un ragazzo di quelli grandi che sta di posto accanto a me (perché a tavola ci mettono sempre alternati, uno piccino e uno più grande) e che si chiama Tito Barozzo ed è napoletano, dette in una gran risata e disse: - Tra una settimana non dirai più così! - Io allora non capii niente, ma ora ho compreso benissimo il significato dì quelle parole. Sono sette giorni che sono qui e, meno l'altro ieri che era venerdì, si è sempre mangiato la minestra di riso due volte al giorno... Mi è venuta così a noia, che l'idea di una minestra di capellini, che prima mi era così antipatica, ora mi manda tutto in solluchero!... Oh mamma mia, cara mammina che mi facevi fare spesso da Caterina gli spaghetti con l'acciugata che mi piacciono tanto, chi sa come ti dispiacerebbe se tu sapessi che il tuo Giannino in collegio è obbligato a mangiare dodici minestre di riso in una settimana! 1° febbraio.

È appena giorno e io che mi sono svegliato presto ne profitto per continuare a registrare le mie memorie nel mio caro giornalino, mentre i miei cinque compagni dormono della grossa. In questi due giorni passati ho due fatti notevoli da narrare: una condanna alla prigione e la scoperta della ricetta per fare un'eccellente minestra di magro. Ieri l'altro dunque, cioè il 30 Gennaio, dopo colazione, mentre stavo chiacchierando con Tito Barozzo, un altro collegiale grande, un certo Carlo Pezzi, gli si accostò e gli disse sottovoce: - Nello stanzino ci son le nuvole... - Ho capito! - rispose il Barozzo strizzando un occhio. E poco dopo mi disse: - Addio, Stoppani, vo a studiare - e se n'andò dalla parte dove era andato il Pezzi. Io che avevo capito che quella d'andare a studiare era una scusa bella e buona e che invece il Barozzo era andato nello stanzino accennato prima dal Pezzi, fui preso da una grande curiosità e, senza parere, lo seguii pensando: - Voglio vedere le nuvole anch'io. - E arrivato a una porticina dove avevo visto sparire il mio compagno di tavola, la spinsi e... capii ogni cosa. In una piccola stanzetta che serviva per pulire e assettare i lumi a petrolio (ve n'erano due file da una parte, e in un angolo una gran cassetta di zinco piena di petrolio e cenci e spazzoloni su una panca) stavano quattro collegiali grandi che nel vedermi, si rimescolarono tutti, e vidi che uno, un certo Mario Michelozzi, cercava di nascondere qualcosa... Ma c'era poco da nascondere, perché le nuvole dicevano tutto; la stanza era piena di fumo e il fumo si sentiva subito che era di sigaro toscano. - Perché sei venuto qui? - disse il Pezzi con aria minacciosa. - Oh bella! Son venuto a fumare anch'io. - No, no! - saltò a dire il Barozzo. - Egli non è avvezzo... gli farebbe male, e così tutto sarebbe scoperto. - Va bene: allora starò a veder fumare. - Bada bene però, - disse un certo Maurizio Del Ponte. - Guai se... - Io, per tua regola - lo interruppi con alterezza, avendo capito quel che voleva dire - la spia non l'ho mai fatta e spero bene! - Allora il Michelozzi che era rimasto sempre prudentemente con le mani didietro, tirò fuori un sigaro toscano ancora acceso, se lo cacciò avidamente tra le labbra, tirò due o tre boccate e lo passò al Pezzi che fece lo stesso passandolo poi al Barozzo che ripeté la medesima funzione passandolo al Del Ponte che, dopo le tre boccate di regola, lo rese al Michelozzi... e così si ripeté il passaggio parecchie volte, finché il sigaro fu ridotto a una misera cicca e la stanza era così piena di fumo che ci si asfissiava... - Apri il finestrino! - disse il Pezzi al Michelozzi. E questi si era mosso per eseguire il saggio consiglio quando il Del Ponte esclamò: - Calpurnio! - E si precipitò fuori della stanza seguito dagli altri tre. Io, sorpreso da quella parola ignorata, indugiai un po' nella istintiva ricerca del suo misterioso significato, pur comprendendo ch'era un segnale di pericolo; e quando a brevissima distanza dagli altri feci per uscir dalla porticina, mi trovai a faccia a faccia col signor Stanislao in persona che mi afferrò per il petto con la destra e mi ricacciò indietro esclamando: - Che cosa succede qua? - Ma non ebbe bisogno di nessuna risposta; appena dentro la stanza comprese perfettamente quel che era successo e con due occhi da spiritato, mentre gli tremavano i baffi scompigliati dall'ira, tonò: - Ah, si fuma! Si fuma, e dove si fuma? Nella stanza del petrolio, a rischio di far saltar l'istituto! Sangue d'un drago! E chi ha fumato? Hai fumato tu? Fa' sentire il fiato... march! - E si chinò giù mettendomi il viso contro il viso in modo che i suoi baffoni grigi mi facevano il pizzicorino nelle gote. Io eseguii l'ordine facendogli un gran sospiro sul naso ed egli si rialzò dicendo: - Tu no... difatti sei troppo piccolo. Hanno fumato i grandi... quelli che sono scappati di qui quando io imboccavo il corridoio. E chi erano? Svelto... march! - Io non lo so. - Non lo sai? Come! Ma se erano qui con te! - Sì, erano con me... ma io non li ho visti... Sa, con questo fumo!... - A queste parole i baffi del signor Stanislao incominciarono a ballare una ridda infernale. - Ah! Sangue di un drago! Tu ardisci rispondere così al direttore? In prigione! In prigione! March! - E afferratomi per un braccio mi portò via, chiamò un bidello e gli disse: - In prigione fino a nuov'ordine! La prigione è una stanzetta su per giù come quella dei lumi a petrolio, ma più alta della metà, e c'è una finestra lassù per aria, con una barra di ferro che le dà proprio l'aspetto triste di una prigione. Fui serrato lì dentro a catenaccio, e vi rimasi solo con i miei pensieri finché non venne a farmi visita la signora Geltrude la quale mi fece una lunga predica sul pericolo dell'incendio che avrebbe potuto succedere se il foco del sigaro si fosse appiccato al petrolio, e seguitò a declamare per un bel pezzo per finire poi, con voce patetica, a scongiurarmi di dire a lei la verità, assicurandomi che non era per dare delle punizioni ai colpevoli, ma per prendere delle precauzioni nell'interesse di tutti... Io naturalmente seguitai a dire che non sapevo niente e che non avrei detto niente mai, anche se mi avessero tenuto in prigione per una settimana, che dopo tutto era meglio stare a pane e acqua che essere obbligati a mangiar la minestra di riso due volte al giorno... La direttrice se ne andò tutta invelenita dicendomi con voce drammatica: - Vuoi essere trattato con tutto il rigore? Tal sia di te! - Rimasto solo daccapo, mi sdraiai sul lettuccio che era in un canto della prigione e non tardai ad addormentarmi perché era già tardi e io ero stanco da tante emozioni. La mattina dopo, cioè iermattina, mi svegliai di lietissimo umore. Il mio pensiero, considerando i miei casi, corse ai tempi delle cospirazioni, quando i patriotti italiani marcivano nelle prigioni piuttosto che dire i nomi dei congiurati ai tedeschi, e mi sentivo pieno d'allegria, e avrei voluto magari che la prigione fosse stata più stretta e magari anche umida, e con qualche topo. Però, in mancanza di topi, c'era qualche ragno, e io mi misi in testa di ammaestrarne uno, come Silvio Pellico, e mi misi all'opera con tutto l'impegno, ma dovetti smettere. Non so se dipenda perché i ragni d'allora fossero più intelligenti di quelli d'ora o perché i ragni di collegio siano più zucconi degli altri, ma il fatto è che quel maledetto ragno faceva tutto il contrario di quel che gli dicevo dì fare, e mi fece tanto arabbiare che da ultimo lo schiacciai con un piede. Allora mi venne in mente che, se avessi potuto chiamare dalla finestra qualche passerotto, sarebbe stato molto più facile di ammaestrarlo; ma la finestra era così alta!... Non so che cosa avrei dato per potere arrampicarmi su quella finestrina; e a furia di pensarci mi era venuto come una frenesia e non potevo più star fermo, né mi riusciva di levarmi dal cervello quell'idea... Cominciai dal trascinare il lettuccio sotto la finestra per diminuirne la distanza; poi presi un pezzo di corda che avevo in tasca, levai la cinghia dei calzoni e l'aggiunsi a quella... Ma con tutt'e due si arrivava appena alla metà dell'altezza cui era posta la finestra. Allora mi cavai la camicia, la strappai a strisce, che attorcigliai a uso fune e che aggiunsi alla corda che avevo già; ne venne una corda assai lunga che lanciai mirando alla finestra. Ora ci arrivava, ma occorreva una lunghezza maggiore per farne ritornar giù una parte dopo averla fatta passare sulla sbarra che era nel mezzo alla finestra. Mi cavai anche le mutande delle quali feci altre strisce che aggiunsi alle altre. Cosi ottenni una corda sufficiente a tentare la scalata che mi ero prefisso di dare alla finestra. Da un capo di essa attaccai una scarpa; e incominciai i miei esercizi di tiro a segno lanciando con la destra la scarpa contro la barra di ferro e tenendo nella sinistra l'altro capo della corda. Quanti vani tentativi! Non avevo orologio per calcolare quanto tempo occupassi in questo lavoro, ma potevo giudicarne la durata dal sudore che mi bagnava tutto per la fatica. Finalmente mi riuscì di fare in modo che la scarpa lanciata al disopra della sbarra girasse al di sotto, ritornando dentro la stanza; e dopo, piano piano, a forza di piccole e prudenti scosse date con la parte di corda che avevo in mano mi riuscì di far calare giù l'altro capo tanto da arrivare ad acchiapparlo. Che felicità! Su quella doppia corda mi arrampicai su fino alla finestra, dove mi riescì di accoccolarmi, alla meglio, e salutai il cielo che mai mi era parso così limpido e così bello come in quel momento. Ma oltre alla bellezza del cielo che scorgevo al disopra di me mi commosse l'animo un grato odorino di soffritto che veniva dal di sotto... La finestrina, infatti, dava sul cortiletto della cucina in un angolo del quale era una enorme caldaia piena d'acqua bollente. Allora mi ricordai che era venerdì, il giorno sacro alla famosa minestra di magro che in mezzo a tutte le minestre di riso della settimana veniva ad allietare i nostri stomachi, a quella eccellente minestra di magro così saporita e che pareva riunire in sé le fragranze più care dell'umano palato... Mi sentivo venir l'acquolina in bocca e una grande malinconia mi scendeva giù nella desolata solitudine delle mie povere budella... Fortunatamente questo atroce supplizio durò poco, perché ogni desiderio mi sparì come per incanto dallo stomaco quando scoprii la ricetta con la quale il cuoco del collegio faceva la sua ottima minestra di magro.