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Piccolo mondo antico di Antonio Fogazzaro, PARTE SECONDA - 8. Ore amare (parte 1)

PARTE SECONDA - 8. Ore amare (parte 1)

L'ultimo dì dell'anno, mentre Franco stava scrivendo le minutissime istruzioni che intendeva lasciare a sua moglie per il governo del giardinetto e dell'orto, mentre lo zio rileggeva per la decima volta la sua favorita Storia della diocesi di Como , Luisa uscì a passeggio con Maria. Splendeva un tepido sole. Non v'era neve che sul Bisgnago e sulla Galbiga. Maria trovò una viola presso il cimitero e un'altra la trovò in fondo alla Calcinera. Lì faceva veramente caldo, l'aria aveva un lieve aroma di alloro. Luisa sedette con le spalle al monte, permise che Maria si divertisse ad arrampicarsi e sdrucciolar sull'erba secca dietro a lei, e pensò. Non aveva riveduto il professor Gilardoni dopo la notte di Natale e desiderava parlargli, non per udir da capo la storia del testamento Maironi, ma per farsi raccontare il suo colloquio con Franco quando gliel'aveva mostrato, per conoscere le prime impressioni di Franco e l'opinione del professore. Poiché il testamento era stato distrutto, ciò aveva solamente un'importanza psicologica. La curiosità di Luisa non era però una fredda curiosità di osservatrice. La condotta di suo marito l'aveva gravemente offesa. Pensandoci e ripensandoci, come aveva fatto dalla notte di Natale in poi, s'era persuasa che anche il silenzio serbato con lei fosse un peccato grave contro il diritto e l'affetto. Ora le riusciva amaro il sentirsi diminuir la stima per suo marito, tanto più amaro alla vigilia della sua partenza e in un momento in cui egli meritava lode. Avrebbe voluto almeno sapere che quando il Gilardoni gli aveva mostrato quelle carte vi era stata in lui una lotta, che il sentimento più giusto si era sollevato almeno un momento nell'anima sua. Si alzò, prese Maria per mano e si avviò verso Casarico.

Trovò il professore nell'orto, col Pinella, disse a Maria di andar a correre, a giuocare insieme al Pinella, ma la bambina, sempre avida di ascoltar i discorsi delle persone grandi, non volle assolutamente saperne. Allora entrò nell'argomento senza pronunciar nomi. Voleva parlare al professore di quelle tali carte, di quelle vecchie lettere. Il professore, rosso, rosso, protestò che non capiva. Per fortuna il Pinella chiamò Maria mostrandole un libro d'immagini e Maria, vinta dal libro, corse a lui. Allora Luisa levò al professore gli scrupoli, gli disse che sapeva tutto da Franco stesso, gli confessò di aver disapprovato suo marito, di aver provato e di provare ancora un gran dolore...

«Perché perché perché?», interruppe il buon Beniamino. Ma perché Franco non aveva voluto far nulla! «Ho fatto io, ho fatto io, ho fatto io!», disse il Gilardoni, tutto acceso e trepidante, «ma per amor del cielo non dica niente a Suo marito!». Luisa restò sbalordita. Ma cosa aveva fatto il professore? Ma quando? Ma come? Ma il testamento non era stato distrutto?

Allora il professore, rosso come una bragia, facendo degli occhi spiritati, intercalando il suo dire di «ma per carità, neh? - ma zitto, neh?», mise fuori tutti i suoi segreti, la conservazione del testamento, il viaggio a Lodi. Luisa lo ascoltò sino alla fine, poi fece «ah!» e si strinse forte forte il viso fra le mani.

«Ho fatto male?», esclamò il professore, spaventato. «Ho fatto male, signora Luisina?» «Altro che male! Malissimo! Mi scusi, sa, Lei ha avuto l'aria di andare a proporre una transazione, un mercato! E la marchesa crederà che siamo d'accordo! Ah!» Ella strinse e scosse le mani congiunte come se avesse voluto rimaneggiarvi, rimpastarvi dentro una testa professorale più quadra. Il povero professore, costernato, andava ripetendo: «Oh Signore! Oh povero me! Oh che asino!», senza tuttavia comprender bene quale asinata avesse commesso. Luisa si buttò sul parapetto verso il lago, a guardare nell'acqua. Balzò su a un tratto, batté il dorso della destra sul palmo della sinistra, il suo viso s'illuminò. «Mi conduca nel Suo studio», diss'ella. «Posso lasciar qui Maria?». Il professore accennò di sì e l'accompagnò, tutto palpitante, nello studio. Luisa prese un foglio di carta e scrisse rapidamente: «Luisa Maironi Rigey fa sapere alla marchesa Maironi Scremin che il professore Beniamino Gilardoni è un ottimo amico di suo marito e suo, ma che ne fu disapprovato per l'uso inopportuno di un documento destinato a sorte diversa: che perciò nessuna comunicazione si attende né si desidera da parte della signora marchesa». Com'ebbe scritto, tese silenziosamente la lettera al professore. «Oh no!», esclamò il professore dopo aver letto. «Per amor del cielo, non mandi questa lettera! Se Suo marito lo sa! Pensi che dispiacere immenso, per me, per Lei! E come Suo marito non lo avrebbe a sapere?». Luisa non rispose, lo guardo a lungo, non pensando a lui, pensando a Franco, pensando che forse la marchesa potrebbe prendere quella lettera per un artificio, per uno spauracchio. La riprese e la stracciò sospirando. Il professore, raggiante, le voleva baciar la mano. Ella protestò: non lo aveva fatto né per lui né per Franco, lo aveva fatto per altre ragioni! Il sacrificio del suo sfogo la esacerbò, anzi, contro Franco. «Ha torto! Ha torto!», ripeteva col cuore amaro. E né lei né il professore si accorsero che Maria era nella stanza. Vista partir sua madre, la piccina non aveva più voluto restar col Pinella e il Pinella l'aveva condotta fino all'uscio dello studio, gliel'aveva aperto senza far rumore. La piccina, colpita dall'aspetto di sua madre, si fermò a fissarla con una espressione di sgomento. La vide stracciar la lettera, la udì esclamare «ha torto!» e si mise a piangere. Luisa accorse, la prese tra le braccia, la consolò e partì subito. Le ultime parole del professore nel congedarsi, furono: «Per carità, silenzio!».

«Cosa, silenzio?», domandò subito Maria. Sua madre non le badò; tutti i suoi pensieri erano altrove. Maria ripeté tre o quattro volte: «Cosa, silenzio?». Quando finalmente si udì rispondere «zitto, basta» tacque un poco e poi ricominciò rovesciando all'indietro la sua testolina ridente, proprio per stuzzicar la mamma: «Cosa, silenzio?». Ne fu sgridata forte, tacque ancora, ma passando sotto il cimitero, a pochi passi da casa, ricominciò da capo, con lo stesso riso malizioso. Allora Luisa, tutta raccolta nello sforzo di comporsi una maschera indifferente, le diede solo una strappata, che però bastò a farla tacere.

Maria era molto allegra, quel giorno. A pranzo, scherzando con la mamma, si ricordò dei rimproveri toccati a passeggio, la guardò sottecchi col solito risolino timido e provocatore, mise ancora fuori il suo «cosa, silenzio?». La mamma finse di non udire ed ella insistette. Luisa la fermò allora con un «basta!» così insolitamente vibrato che la boccuccia di Maria si aperse piano piano e le lagrime scoppiarono. Lo zio fece «oh povero me!» e Franco diventò scuro, si capì che disapprovava sua moglie. Poiché Maria piangeva e piangeva, si sfogò addosso a lei; la prese tra le braccia, la portò via che strillava come un'aquila. «Meglio ancora!», esclamò lo zio. «Bravissimi!» «Lasci un po' fare, Lei», gli disse la Cia mentre Luisa taceva. «I genitori devono farsi ubbidire, già.» «Ma sì, così mi piace», le rispose il padrone, «mettete fuori anche voi la vostra sapienza.» Ella si azzittì tutta ingrugnata.

Intanto Franco, piantata Maria in un angolo dell'alcova, ritornò e brontolò qualche parola sul voler far piangere i bambini per forza, per cui Luisa s'imbronciò alla sua volta, andò in cerca di Maria, la ricondusse lagrimosa ma silenziosa. Il breve desinare finì male perché Maria non volle più mangiare e tutti erano imbronciati per una ragione o per l'altra, meno lo zio Piero il quale si mise ad arringar Maria con dei predicozzi mezzo serii mezzo scherzosi, tanto che le fece tornare un po' di sole in viso. Dopo pranzo Franco andò a vedere di certi vasi che teneva nel sotterraneo sotto il giardinetto pensile e prese Maria con sé, la interrogò benignamente, vedendola ormai allegra, sull'origine di tanti guai. «Che significava questo cosa, silenzio ?» «Non lo so.» «Ma perché la mamma non voleva che tu dicessi così?» «Non lo so. Io dicevo sempre così e la mamma mi sgridava sempre.» «Quando?» «A passeggio.» «Dove sei stata, a passeggio?» «Dal signor Ladroni.» (Lo zio le aveva facilitato il nome del professore così.) «E hai cominciato in casa del signor Ladroni a dire questa cosa?» «No, è stato il signor Ladroni che ha detto così alla mamma.» «Cosa ha detto?» «Ma, papà, non capisci niente! Ha detto: per carità, silenzio! ».

Franco non parlò più. «La mamma ha stracciato una carta, anche, dal signor Ladroni», soggiunse Maria, stimando, adesso, far tanto maggior piacere a suo padre quante più cose gli raccontava di questa visita. Suo padre le impose di tacere. Ritornato in casa, domandò a Luisa, con un viso poco benevolo, perché avesse fatto piangere la bambina. Luisa lo guardò, le parve che sospettasse, gli domandò risentita se dovesse giustificarsi di queste cose. «Oh no!», fece suo marito, freddo; e se ne andò in giardinetto a veder se le foglie secche al piede degli aranci e la paglia intorno al tronco fossero in ordine perché la notte si annunziava rigida. Lavorando intorno alle piante si disse amaramente che se avessero avuto senso e parola, gli si sarebbero mostrate più riconoscenti, più affettuose del solito per la sua prossima partenza, mentre Luisa aveva cuore di essergli aspra. D'essere stato aspro egli stesso non gli venne in mente. Luisa, dal canto suo, si dolse subito d'avergli risposto così, ma non poteva trattenerlo, gittarglisi al collo e finirla con due baci; troppo le pesava sul cuore l'altra cosa! Franco finì di accomodar le fasciature a' suoi aranci e rientrò a pigliarsi il mantello per andar in chiesa ad Albogasio. Luisa che stava in cucina sbucciando delle castagne, lo udì passare pel corridoio, stette un momento in forse, lottando con se stessa, poi balzò fuori, lo raggiunse mentre stava per scender le scale. «Franco!», diss'ella. Franco non rispose, parve respingerla. Ella lo afferrò allora per un braccio, lo trasse nella vicina camera dell'alcova. «Cosa vuoi?», diss'egli, scosso ma desideroso di tenersi il suo rancore. Luisa non gli rispose, gli cinse con le braccia il collo riluttante, gli piegò il viso sul petto e disse sottovoce:

«Non dobbiamo esser in collera, sai, in questi giorni». Egli, che aveva aspettato parole di scusa, si staccò dal collo le braccia di sua moglie e rispose asciutto: «Io non sono in collera. Mi racconterai poi», soggiunse, «cosa ti ha confidato il signor professore Gilardoni di tanto segreto da doverti raccomandare il silenzio». Luisa lo guardò attonita, addolorata. «Tu hai sospettato di me», diss'ella, «e hai interrogato la bambina? Hai fatto questo?» «Ebbene», diss'egli, «e se avessi fatto questo? Del resto tu pensi sempre il peggio di me, si sa. Bene, guarda, non voglio saper niente.» Ella lo interruppe, «ma te lo dirò, ma te lo dirò», ed egli allora cui la coscienza rimordeva un poco per l'interrogatorio di Maria, vedendo poi anche Luisa disposta a parlare, non volle assolutamente udirla, le proibì di spiegarsi. Ma il suo cuore traboccava di amarezza e gli occorreva pure uno sfogo. Si dolse che dopo la notte di Natale ella non fosse più stata con lui la solita Luisa. A che valevano le proteste? Lo aveva capito bene. Del resto era tanto tempo ch'egli aveva capito una cosa! Che cosa? Oh, una cosa naturale! Naturalissima! Meritava egli di essere amato da lei? No certo; egli era un povero disutile e niente altro. Non era naturale che dopo averlo conosciuto bene, ella lo amasse meno? Perché certo certo lo amava meno di una volta. Luisa tremò che questo fosse vero, disse «no, Franco, no» e lo sgomento di non saperlo dire con energia bastante le paralizzò la voce. Egli che aveva sperato una smentita violenta, sussurrò atterrito: «Dio mio!». Allora fu lei che si atterrì, fu lei che lo strinse disperatamente fra le braccia singhiozzando «ma no! ma no! ma no!». S'intesero sino al fondo con una comunicazione magnetica e stettero a lungo abbracciati, parlandosi in un muto sforzo spasmodico di tutto l'esser loro, dolendosi l'uno dell'altro, rimproverandosi, volendosi appassionatamente riprendere, gustando il piacere acuto e amaro di unirsi per un momento con la volontà e con l'amore malgrado la intima disunione delle loro idee e della loro natura; tutto senza una parola, senza una sola voce. Franco partì per andare in chiesa. Non volle invitar Luisa ad accompagnarlo, sperando ch'ella lo facesse spontaneamente; ed ella non lo fece dubitando che gli fosse gradito. La mattina del sette gennaio, dopo le dieci, lo zio Piero fece chiamare Franco. Lo zio stava ancora a letto. Si alzava tardi, non potendo riscaldare la stanza e non volendo, per economia, accendere il fuoco nel salottino troppo per tempo. Però il freddo non gl'impediva di tirarsi su a leggere, con mezzo il petto e ambedue le braccia fuori delle coperte. «Ciao», diss'egli quando Franco entrò. Dal tono del saluto, dalla bella faccia seria nella sua bontà, Franco intese che lo zio aveva pronte parole insolite. Lo zio gl'indicò infatti la sedia presso il letto, e disse il più solenne dei suoi esordi: «Sètet giò». Franco sedette. «Dunque parti domani?» «Sì, zio.» «Bene.» Parve che nel metter fuori quel «bene» il cuore dello zio gli fosse venuto in bocca, tanto la parola gli gonfiò le guance, gli uscì piena e sonora. «Tu», riprese il vecchio, «non mi hai udito fino ad ora, dirò così, approvare né disapprovare il tuo progetto. Forse avrò dubitato un poco che lo effettuassi. Adesso...»

Franco gli stese ambedue le mani. «Adesso», continuò lo zio, tenendogliele strette fra le proprie, «visto che sei fermo nella tua idea, ti dico: l'idea è buona, il bisogno c'è, va, lavora, il lavoro è una gran cosa. Dio ti faccia incominciar bene e poi ti faccia perseverare, ch'è il più difficile. Ecco.» Franco gli voleva baciar le mani, ma lo zio fu pronto a ritirarle. «Lassa stà, lassa stà!». E riprese a parlare.

«Adesso senti. È possibile che non ci vediamo più.» Proteste di Franco. «Sì sì sì», rispose il vecchio ritirando l'anima dagli occhi e dalla voce, «tutte belle cose, cose che bisogna dire. Lascia stare.» Gli occhi ripresero la loro luce seria e buona, la voce il suo tono grave. «È possibile che non ci vediamo più. Del resto ti domando io cosa ci faccio, oramai, a questo mondo. E per voi sarebbe meglio che me ne andassi. Forse a tua nonna dispiace che io vi abbia raccolti, forse le sarà più facile, poi, di riconciliarsi con voi. Perciò, posto che non ci vediamo più, ti prego, appena morto io, se le cose non saranno ancora accomodate, di fare qualche passo.»

Franco si alzò, abbracciò lo zio con le lagrime agli occhi. «Testamento», riprese lo zio, «non ne ho fatto e non ne faccio. Il poco che ho è di Luisa; non occorre testamento. Vi raccomando la Cia; fate che non le manchi un letto e un tozzo di pane. Per i funerali bastano tre preti che mi cantino un requiem di cuore; il nostro, l'Introini e il prefetto della Caravina; c'è mica bisogno di farne cantare cinque o sei per amor del candirott e del vin bianch. Per il mio vestiario lasciamo fare a Luisa che saprà dove metterlo a posto. Il mio orologio a ripetizione lo prenderai tu per mia memoria. Vorrei lasciare un ricordo anche a Maria, ma come si fa? Potrai pigliar un pezzo della mia catena d'oro. Se hai una medaglietta, un crocifisso, glielo attacchi al collo con la mia catena. E amen.» Franco piangeva. Era una gran commozione di sentire lo zio parlar della sua morte così serenamente come di un affare qualsiasi da condur con giudizio e onestà; lo zio che discorrendo con gli amici pareva tanto attaccato alla vita, che diceva sempre: «Se se pò schivà quella tal crepada!». «Oh e adesso contami!», diss'egli. «Che lavoro speri di trovare?» «Per ora, nell'ufficio d'un giornale a Torino, mi scrive T. Forse in avvenire si troverà qualche cosa di meglio. Se poi al giornale non potessi vivere e se non trovassi altro, ritornerei. Per questo bisogna tener la cosa segretissima, almeno per il primo tempo.» Quanto al segreto, lo zio era incredulo. «E le lettere?», diss'egli. Per le lettere era combinato che Franco scriverebbe a Lugano fermo in posta, che Ismaele porterebbe alla posta di Lugano le lettere della famiglia e ritirerebbe quelle di Franco. E che si doveva dire ai conoscenti? Si era già detto che Franco andava a Milano il giorno otto per affari e che sarebbe stato assente forse un mese, forse anche più. «Questo dover infinocchiar la gente non è la più bella cosa del mondo», disse lo zio, «ma insomma! Io ti abbraccio adesso, neh, Franco, perché so che domani mattina parti per tempo e oggi difficilmente saremo soli. Dunque addio. Ti raccomando tutto da capo e non dimenticarti di me. Oh, un'altra cosa. Tu vai a Torino. Io, come impiegato, ho inteso servire il mio paese. Non ho cospirato, non vorrei cospirare neanche adesso, ma al mio paese ci ho sempre voluto bene. Insomma, salutami la bandiera tricolore. Ciao, neh!» Qui lo zio aperse le braccia. «Verrai anche tu, zio, in Piemonte», gli disse Franco alzandosi commosso da quell'abbraccio. «Se posso appena guadagnarmi quel che strettamente bisogna, vi faccio venire tutti.» «E no, caro. Son troppo vecchio, non mi muovo più.» «Ebbene, verrò io questa primavera con duecentomila miei amici.» «Eh sì! Düsent mila zücch! Belle idee, belle speranze! Oh, è qui, signorina Ombretta Pipì?» Ombretta Pipì, così Maria era chiamata in casa nei momenti di buon umore, entrò impettita e grave. «Buon giorno, zio. Mi dici l' Ombretta Pipì ?» Suo padre la prese e la posò sul letto dello zio che la raccolse a sé sorridendo, se la fece sedere sulle gambe. «Venga qua, signorina. Ha dormito bene? E la bambola, ha dormito bene? E il mulo, ha dormito bene? Ah non c'era? Tanto meglio. Sì, sì, adesso vengo con l'Ombretta. E un bacio, niente? E un altro, no? Allora bisogna proprio dire:

Ombretta sdegnosa Del Missipipì, Non far la ritrosa E baciami qui.»

Maria lo ascoltò come se udisse i versi per la prima volta; e poi, fuori a ridere, a saltare, a battere le mani. E lo zio rideva come lei. «Papà», diss'ella facendosi seria, «perché piangi? Sei in castigo?» Si aspettavano alquante visite, in quel giorno, di conoscenti che avevan promesso di venire a congedarsi da Franco prima della sua partenza per Milano. Luisa fece il miracolo di accender la stufa in Siberia, come lo zio chiamava la sala, e vi si trovarono insieme donna Ester, i due indivisibili Paoli di Loggio, il Paolin e il Paolon, il professor Gilardoni che vi sofferse di una trepidazione, di una inquietudine continua perché Luisa, non avendo ancora allestito il bagaglio di Franco, andava e veniva dalla camera dell'alcova, chiamava Ester ogni momento ed Ester era quindi sempre in moto, quando passava dietro al professore, quando gli passava davanti, quando a destra, quando a sinistra. Al pover'uomo pareva di stare in un turbine magnetico. Ecco capitare, molto inattesa perché dopo la perquisizione non s'era più veduta, anche la signora Peppina. «Oh cara la mia süra Lüisa! Oh car el me sür don Franco! L'è vera ch'el voeur propi andà via?» Adesso è il Paolin che si dimena un poco sulla sedia perché ha l'idea che la süra Peppina sia mandata dal marito per vedere chi c'è e chi non c'è intorno all'uomo sospetto, nella casa scomunicata. Vorrebbe andarsene subito col suo Paolon, ma il Paolon è più grosso. «Come se fa adèss con sto vioròn chì ch'el capiss nagott?», pensa il Paolin, e, senza guardare il Paolon, gli dice sottovoce: «Andèmm, Paol! Andèmm!» Il Paolon stenta infatti molto a capire ma finalmente si alza, se ne va col Paolin, piglia la sua sulle scale.

Franco ebbe lo stesso pensiero del Paolin e salutò la signora Peppina con mal garbo. La povera donna ne avrebbe pianto perché voleva tanto bene a sua moglie e teneva in gran concetto anche lui; ma capiva la sua avversione; la scusava in cuor suo. Appena osava guardarlo di tempo in tempo, umile, con un'aria di cane bastonato. Si tolse la Maria sulle ginocchia, le parlò del suo buon papà, del suo caro papà che andava via. «Chi sa che dispiasè, neh ti poera vèggia? Chi sa che magòn? Poer ratin. Andà via el papà! On papà de quella sort!» Franco discorreva col professore ma udiva e fremeva d'impazienza. Fu contentissimo che la Veronica venisse a chiamarlo.

Lo volevano nell'orto. Vi discese, trovò il signor Giacomo Puttini e don Giuseppe Costabarbieri ch'eran venuti per salutarlo ma, informati dal Paolin e dal Paolon, desideravano non farsi vedere dalla süra Peppina. Anche il suolo dell'orto scottava loro i piedi. Mentre il piccolo eroe magro si difendeva, soffiando, dagl'inviti di Franco a salire in casa, il piccolo eroe grasso girava vivacemente la testa e gli occhietti come un merlo di buon umore, a guardar ora il monte ora il lago, quasi per un'abitudine di sospetto. Scorse una barca che veniva da Porlezza. Chi sa? Non potrebb'essere l'I. R. Commissario? Benché la barca fosse ancora lontana, pensò subito di cavarsela, pensò di andar col Puttini a visitar il Ricevitore per aver la fortuna di non trovar la süra Peppina in casa.

Scambiati con Franco saluti sommessi e frettolosi, i due vecchi leproni trottarono via a testa bassa e Franco rimase nell'orto.


PARTE SECONDA - 8. Ore amare (parte 1) PART TWO - 8. Bitter Hours (part 1)

L'ultimo dì dell'anno, mentre Franco stava scrivendo le minutissime istruzioni che intendeva lasciare a sua moglie per il governo del giardinetto e dell'orto, mentre lo zio rileggeva per la decima volta la sua favorita Storia della diocesi di Como , Luisa uscì a passeggio con Maria. Splendeva un tepido sole. Non v'era neve che sul Bisgnago e sulla Galbiga. Maria trovò una viola presso il cimitero e un'altra la trovò in fondo alla Calcinera. Lì faceva veramente caldo, l'aria aveva un lieve aroma di alloro. Luisa sedette con le spalle al monte, permise che Maria si divertisse ad arrampicarsi e sdrucciolar sull'erba secca dietro a lei, e pensò. Non aveva riveduto il professor Gilardoni dopo la notte di Natale e desiderava parlargli, non per udir da capo la storia del testamento Maironi, ma per farsi raccontare il suo colloquio con Franco quando gliel'aveva mostrato, per conoscere le prime impressioni di Franco e l'opinione del professore. Poiché il testamento era stato distrutto, ciò aveva solamente un'importanza psicologica. La curiosità di Luisa non era però una fredda curiosità di osservatrice. La condotta di suo marito l'aveva gravemente offesa. Pensandoci e ripensandoci, come aveva fatto dalla notte di Natale in poi, s'era persuasa che anche il silenzio serbato con lei fosse un peccato grave contro il diritto e l'affetto. Ora le riusciva amaro il sentirsi diminuir la stima per suo marito, tanto più amaro alla vigilia della sua partenza e in un momento in cui egli meritava lode. Avrebbe voluto almeno sapere che quando il Gilardoni gli aveva mostrato quelle carte vi era stata in lui una lotta, che il sentimento più giusto si era sollevato almeno un momento nell'anima sua. Si alzò, prese Maria per mano e si avviò verso Casarico.

Trovò il professore nell'orto, col Pinella, disse a Maria di andar a correre, a giuocare insieme al Pinella, ma la bambina, sempre avida di ascoltar i discorsi delle persone grandi, non volle assolutamente saperne. Allora entrò nell'argomento senza pronunciar nomi. Voleva parlare al professore di quelle tali carte, di quelle vecchie lettere. Il professore, rosso, rosso, protestò che non capiva. Per fortuna il Pinella chiamò Maria mostrandole un libro d'immagini e Maria, vinta dal libro, corse a lui. Allora Luisa levò al professore gli scrupoli, gli disse che sapeva tutto da Franco stesso, gli confessò di aver disapprovato suo marito, di aver provato e di provare ancora un gran dolore...

«Perché perché perché?», interruppe il buon Beniamino. Ma perché Franco non aveva voluto far nulla! «Ho fatto io, ho fatto io, ho fatto io!», disse il Gilardoni, tutto acceso e trepidante, «ma per amor del cielo non dica niente a Suo marito!». Luisa restò sbalordita. Ma cosa aveva fatto il professore? Ma quando? Ma come? Ma il testamento non era stato distrutto?

Allora il professore, rosso come una bragia, facendo degli occhi spiritati, intercalando il suo dire di «ma per carità, neh? - ma zitto, neh?», mise fuori tutti i suoi segreti, la conservazione del testamento, il viaggio a Lodi. Luisa lo ascoltò sino alla fine, poi fece «ah!» e si strinse forte forte il viso fra le mani.

«Ho fatto male?», esclamò il professore, spaventato. «Ho fatto male, signora Luisina?» «Altro che male! Malissimo! Mi scusi, sa, Lei ha avuto l'aria di andare a proporre una transazione, un mercato! E la marchesa crederà che siamo d'accordo! Ah!» Ella strinse e scosse le mani congiunte come se avesse voluto rimaneggiarvi, rimpastarvi dentro una testa professorale più quadra. Il povero professore, costernato, andava ripetendo: «Oh Signore! Oh povero me! Oh che asino!», senza tuttavia comprender bene quale asinata avesse commesso. Luisa si buttò sul parapetto verso il lago, a guardare nell'acqua. Balzò su a un tratto, batté il dorso della destra sul palmo della sinistra, il suo viso s'illuminò. «Mi conduca nel Suo studio», diss'ella. «Posso lasciar qui Maria?». Il professore accennò di sì e l'accompagnò, tutto palpitante, nello studio. Luisa prese un foglio di carta e scrisse rapidamente: «Luisa Maironi Rigey fa sapere alla marchesa Maironi Scremin che il professore Beniamino Gilardoni è un ottimo amico di suo marito e suo, ma che ne fu disapprovato per l'uso inopportuno di un documento destinato a sorte diversa: che perciò nessuna comunicazione si attende né si desidera da parte della signora marchesa». Com'ebbe scritto, tese silenziosamente la lettera al professore. «Oh no!», esclamò il professore dopo aver letto. «Per amor del cielo, non mandi questa lettera! Se Suo marito lo sa! Pensi che dispiacere immenso, per me, per Lei! E come Suo marito non lo avrebbe a sapere?». Luisa non rispose, lo guardo a lungo, non pensando a lui, pensando a Franco, pensando che forse la marchesa potrebbe prendere quella lettera per un artificio, per uno spauracchio. La riprese e la stracciò sospirando. Il professore, raggiante, le voleva baciar la mano. Ella protestò: non lo aveva fatto né per lui né per Franco, lo aveva fatto per altre ragioni! Il sacrificio del suo sfogo la esacerbò, anzi, contro Franco. «Ha torto! Ha torto!», ripeteva col cuore amaro. E né lei né il professore si accorsero che Maria era nella stanza. Vista partir sua madre, la piccina non aveva più voluto restar col Pinella e il Pinella l'aveva condotta fino all'uscio dello studio, gliel'aveva aperto senza far rumore. La piccina, colpita dall'aspetto di sua madre, si fermò a fissarla con una espressione di sgomento. La vide stracciar la lettera, la udì esclamare «ha torto!» e si mise a piangere. Luisa accorse, la prese tra le braccia, la consolò e partì subito. Le ultime parole del professore nel congedarsi, furono: «Per carità, silenzio!».

«Cosa, silenzio?», domandò subito Maria. Sua madre non le badò; tutti i suoi pensieri erano altrove. Maria ripeté tre o quattro volte: «Cosa, silenzio?». Quando finalmente si udì rispondere «zitto, basta» tacque un poco e poi ricominciò rovesciando all'indietro la sua testolina ridente, proprio per stuzzicar la mamma: «Cosa, silenzio?». Ne fu sgridata forte, tacque ancora, ma passando sotto il cimitero, a pochi passi da casa, ricominciò da capo, con lo stesso riso malizioso. Allora Luisa, tutta raccolta nello sforzo di comporsi una maschera indifferente, le diede solo una strappata, che però bastò a farla tacere.

Maria era molto allegra, quel giorno. A pranzo, scherzando con la mamma, si ricordò dei rimproveri toccati a passeggio, la guardò sottecchi col solito risolino timido e provocatore, mise ancora fuori il suo «cosa, silenzio?». La mamma finse di non udire ed ella insistette. Luisa la fermò allora con un «basta!» così insolitamente vibrato che la boccuccia di Maria si aperse piano piano e le lagrime scoppiarono. Lo zio fece «oh povero me!» e Franco diventò scuro, si capì che disapprovava sua moglie. Poiché Maria piangeva e piangeva, si sfogò addosso a lei; la prese tra le braccia, la portò via che strillava come un'aquila. «Meglio ancora!», esclamò lo zio. «Bravissimi!» «Lasci un po' fare, Lei», gli disse la Cia mentre Luisa taceva. «I genitori devono farsi ubbidire, già.» «Ma sì, così mi piace», le rispose il padrone, «mettete fuori anche voi la vostra sapienza.» Ella si azzittì tutta ingrugnata.

Intanto Franco, piantata Maria in un angolo dell'alcova, ritornò e brontolò qualche parola sul voler far piangere i bambini per forza, per cui Luisa s'imbronciò alla sua volta, andò in cerca di Maria, la ricondusse lagrimosa ma silenziosa. Il breve desinare finì male perché Maria non volle più mangiare e tutti erano imbronciati per una ragione o per l'altra, meno lo zio Piero il quale si mise ad arringar Maria con dei predicozzi mezzo serii mezzo scherzosi, tanto che le fece tornare un po' di sole in viso. Dopo pranzo Franco andò a vedere di certi vasi che teneva nel sotterraneo sotto il giardinetto pensile e prese Maria con sé, la interrogò benignamente, vedendola ormai allegra, sull'origine di tanti guai. «Che significava questo cosa, silenzio ?» «Non lo so.» «Ma perché la mamma non voleva che tu dicessi così?» «Non lo so. Io dicevo sempre così e la mamma mi sgridava sempre.» «Quando?» «A passeggio.» «Dove sei stata, a passeggio?» «Dal signor Ladroni.» (Lo zio le aveva facilitato il nome del professore così.) «E hai cominciato in casa del signor Ladroni a dire questa cosa?» «No, è stato il signor Ladroni che ha detto così alla mamma.» «Cosa ha detto?» «Ma, papà, non capisci niente! Ha detto: per carità, silenzio! ».

Franco non parlò più. «La mamma ha stracciato una carta, anche, dal signor Ladroni», soggiunse Maria, stimando, adesso, far tanto maggior piacere a suo padre quante più cose gli raccontava di questa visita. Suo padre le impose di tacere. Ritornato in casa, domandò a Luisa, con un viso poco benevolo, perché avesse fatto piangere la bambina. Luisa lo guardò, le parve che sospettasse, gli domandò risentita se dovesse giustificarsi di queste cose. «Oh no!», fece suo marito, freddo; e se ne andò in giardinetto a veder se le foglie secche al piede degli aranci e la paglia intorno al tronco fossero in ordine perché la notte si annunziava rigida. Lavorando intorno alle piante si disse amaramente che se avessero avuto senso e parola, gli si sarebbero mostrate più riconoscenti, più affettuose del solito per la sua prossima partenza, mentre Luisa aveva cuore di essergli aspra. D'essere stato aspro egli stesso non gli venne in mente. Luisa, dal canto suo, si dolse subito d'avergli risposto così, ma non poteva trattenerlo, gittarglisi al collo e finirla con due baci; troppo le pesava sul cuore l'altra cosa! Franco finì di accomodar le fasciature a' suoi aranci e rientrò a pigliarsi il mantello per andar in chiesa ad Albogasio. Luisa che stava in cucina sbucciando delle castagne, lo udì passare pel corridoio, stette un momento in forse, lottando con se stessa, poi balzò fuori, lo raggiunse mentre stava per scender le scale. «Franco!», diss'ella. Franco non rispose, parve respingerla. Ella lo afferrò allora per un braccio, lo trasse nella vicina camera dell'alcova. «Cosa vuoi?», diss'egli, scosso ma desideroso di tenersi il suo rancore. Luisa non gli rispose, gli cinse con le braccia il collo riluttante, gli piegò il viso sul petto e disse sottovoce:

«Non dobbiamo esser in collera, sai, in questi giorni». Egli, che aveva aspettato parole di scusa, si staccò dal collo le braccia di sua moglie e rispose asciutto: «Io non sono in collera. Mi racconterai poi», soggiunse, «cosa ti ha confidato il signor professore Gilardoni di tanto segreto da doverti raccomandare il silenzio». Luisa lo guardò attonita, addolorata. «Tu hai sospettato di me», diss'ella, «e hai interrogato la bambina? Hai fatto questo?» «Ebbene», diss'egli, «e se avessi fatto questo? Del resto tu pensi sempre il peggio di me, si sa. Bene, guarda, non voglio saper niente.» Ella lo interruppe, «ma te lo dirò, ma te lo dirò», ed egli allora cui la coscienza rimordeva un poco per l'interrogatorio di Maria, vedendo poi anche Luisa disposta a parlare, non volle assolutamente udirla, le proibì di spiegarsi. Ma il suo cuore traboccava di amarezza e gli occorreva pure uno sfogo. Si dolse che dopo la notte di Natale ella non fosse più stata con lui la solita Luisa. A che valevano le proteste? Lo aveva capito bene. Del resto era tanto tempo ch'egli aveva capito una cosa! Che cosa? Oh, una cosa naturale! Naturalissima! Meritava egli di essere amato da lei? No certo; egli era un povero disutile e niente altro. Non era naturale che dopo averlo conosciuto bene, ella lo amasse meno? Perché certo certo lo amava meno di una volta. Luisa tremò che questo fosse vero, disse «no, Franco, no» e lo sgomento di non saperlo dire con energia bastante le paralizzò la voce. Egli che aveva sperato una smentita violenta, sussurrò atterrito: «Dio mio!». Allora fu lei che si atterrì, fu lei che lo strinse disperatamente fra le braccia singhiozzando «ma no! ma no! ma no!». S'intesero sino al fondo con una comunicazione magnetica e stettero a lungo abbracciati, parlandosi in un muto sforzo spasmodico di tutto l'esser loro, dolendosi l'uno dell'altro, rimproverandosi, volendosi appassionatamente riprendere, gustando il piacere acuto e amaro di unirsi per un momento con la volontà e con l'amore malgrado la intima disunione delle loro idee e della loro natura; tutto senza una parola, senza una sola voce. Franco partì per andare in chiesa. Non volle invitar Luisa ad accompagnarlo, sperando ch'ella lo facesse spontaneamente; ed ella non lo fece dubitando che gli fosse gradito. La mattina del sette gennaio, dopo le dieci, lo zio Piero fece chiamare Franco. Lo zio stava ancora a letto. Si alzava tardi, non potendo riscaldare la stanza e non volendo, per economia, accendere il fuoco nel salottino troppo per tempo. Però il freddo non gl'impediva di tirarsi su a leggere, con mezzo il petto e ambedue le braccia fuori delle coperte. «Ciao», diss'egli quando Franco entrò. Dal tono del saluto, dalla bella faccia seria nella sua bontà, Franco intese che lo zio aveva pronte parole insolite. Lo zio gl'indicò infatti la sedia presso il letto, e disse il più solenne dei suoi esordi: «Sètet giò». Franco sedette. «Dunque parti domani?» «Sì, zio.» «Bene.» Parve che nel metter fuori quel «bene» il cuore dello zio gli fosse venuto in bocca, tanto la parola gli gonfiò le guance, gli uscì piena e sonora. «Tu», riprese il vecchio, «non mi hai udito fino ad ora, dirò così, approvare né disapprovare il tuo progetto. Forse avrò dubitato un poco che lo effettuassi. Adesso...»

Franco gli stese ambedue le mani. «Adesso», continuò lo zio, tenendogliele strette fra le proprie, «visto che sei fermo nella tua idea, ti dico: l'idea è buona, il bisogno c'è, va, lavora, il lavoro è una gran cosa. Dio ti faccia incominciar bene e poi ti faccia perseverare, ch'è il più difficile. Ecco.» Franco gli voleva baciar le mani, ma lo zio fu pronto a ritirarle. «Lassa stà, lassa stà!». E riprese a parlare.

«Adesso senti. È possibile che non ci vediamo più.» Proteste di Franco. «Sì sì sì», rispose il vecchio ritirando l'anima dagli occhi e dalla voce, «tutte belle cose, cose che bisogna dire. Lascia stare.» Gli occhi ripresero la loro luce seria e buona, la voce il suo tono grave. «È possibile che non ci vediamo più. Del resto ti domando io cosa ci faccio, oramai, a questo mondo. E per voi sarebbe meglio che me ne andassi. Forse a tua nonna dispiace che io vi abbia raccolti, forse le sarà più facile, poi, di riconciliarsi con voi. Perciò, posto che non ci vediamo più, ti prego, appena morto io, se le cose non saranno ancora accomodate, di fare qualche passo.»

Franco si alzò, abbracciò lo zio con le lagrime agli occhi. «Testamento», riprese lo zio, «non ne ho fatto e non ne faccio. Il poco che ho è di Luisa; non occorre testamento. Vi raccomando la Cia; fate che non le manchi un letto e un tozzo di pane. Per i funerali bastano tre preti che mi cantino un requiem di cuore; il nostro, l'Introini e il prefetto della Caravina; c'è mica bisogno di farne cantare cinque o sei per amor del candirott e del vin bianch. Per il mio vestiario lasciamo fare a Luisa che saprà dove metterlo a posto. Il mio orologio a ripetizione lo prenderai tu per mia memoria. Vorrei lasciare un ricordo anche a Maria, ma come si fa? Potrai pigliar un pezzo della mia catena d'oro. Se hai una medaglietta, un crocifisso, glielo attacchi al collo con la mia catena. E amen.» Franco piangeva. Era una gran commozione di sentire lo zio parlar della sua morte così serenamente come di un affare qualsiasi da condur con giudizio e onestà; lo zio che discorrendo con gli amici pareva tanto attaccato alla vita, che diceva sempre: «Se se pò schivà quella tal crepada!». «Oh e adesso contami!», diss'egli. «Che lavoro speri di trovare?» «Per ora, nell'ufficio d'un giornale a Torino, mi scrive T. Forse in avvenire si troverà qualche cosa di meglio. Se poi al giornale non potessi vivere e se non trovassi altro, ritornerei. Per questo bisogna tener la cosa segretissima, almeno per il primo tempo.» Quanto al segreto, lo zio era incredulo. «E le lettere?», diss'egli. Per le lettere era combinato che Franco scriverebbe a Lugano fermo in posta, che Ismaele porterebbe alla posta di Lugano le lettere della famiglia e ritirerebbe quelle di Franco. E che si doveva dire ai conoscenti? Si era già detto che Franco andava a Milano il giorno otto per affari e che sarebbe stato assente forse un mese, forse anche più. «Questo dover infinocchiar la gente non è la più bella cosa del mondo», disse lo zio, «ma insomma! Io ti abbraccio adesso, neh, Franco, perché so che domani mattina parti per tempo e oggi difficilmente saremo soli. Dunque addio. Ti raccomando tutto da capo e non dimenticarti di me. Oh, un'altra cosa. Tu vai a Torino. Io, come impiegato, ho inteso servire il mio paese. Non ho cospirato, non vorrei cospirare neanche adesso, ma al mio paese ci ho sempre voluto bene. Insomma, salutami la bandiera tricolore. Ciao, neh!» Qui lo zio aperse le braccia. «Verrai anche tu, zio, in Piemonte», gli disse Franco alzandosi commosso da quell'abbraccio. «Se posso appena guadagnarmi quel che strettamente bisogna, vi faccio venire tutti.» «E no, caro. Son troppo vecchio, non mi muovo più.» «Ebbene, verrò io questa primavera con duecentomila miei amici.» «Eh sì! Düsent mila zücch! Belle idee, belle speranze! Oh, è qui, signorina Ombretta Pipì?» Ombretta Pipì, così Maria era chiamata in casa nei momenti di buon umore, entrò impettita e grave. «Buon giorno, zio. Mi dici l' Ombretta Pipì ?» Suo padre la prese e la posò sul letto dello zio che la raccolse a sé sorridendo, se la fece sedere sulle gambe. «Venga qua, signorina. Ha dormito bene? E la bambola, ha dormito bene? E il mulo, ha dormito bene? Ah non c'era? Tanto meglio. Sì, sì, adesso vengo con l'Ombretta. E un bacio, niente? E un altro, no? Allora bisogna proprio dire:

Ombretta sdegnosa Del Missipipì, Non far la ritrosa E baciami qui.»

Maria lo ascoltò come se udisse i versi per la prima volta; e poi, fuori a ridere, a saltare, a battere le mani. E lo zio rideva come lei. «Papà», diss'ella facendosi seria, «perché piangi? Sei in castigo?» Si aspettavano alquante visite, in quel giorno, di conoscenti che avevan promesso di venire a congedarsi da Franco prima della sua partenza per Milano. Luisa fece il miracolo di accender la stufa in Siberia, come lo zio chiamava la sala, e vi si trovarono insieme donna Ester, i due indivisibili Paoli di Loggio, il Paolin e il Paolon, il professor Gilardoni che vi sofferse di una trepidazione, di una inquietudine continua perché Luisa, non avendo ancora allestito il bagaglio di Franco, andava e veniva dalla camera dell'alcova, chiamava Ester ogni momento ed Ester era quindi sempre in moto, quando passava dietro al professore, quando gli passava davanti, quando a destra, quando a sinistra. Al pover'uomo pareva di stare in un turbine magnetico. Ecco capitare, molto inattesa perché dopo la perquisizione non s'era più veduta, anche la signora Peppina. «Oh cara la mia süra Lüisa! Oh car el me sür don Franco! L'è vera ch'el voeur propi andà via?» Adesso è il Paolin che si dimena un poco sulla sedia perché ha l'idea che la süra Peppina sia mandata dal marito per vedere chi c'è e chi non c'è intorno all'uomo sospetto, nella casa scomunicata. Vorrebbe andarsene subito col suo Paolon, ma il Paolon è più grosso. «Come se fa adèss con sto vioròn chì ch'el capiss nagott?», pensa il Paolin, e, senza guardare il Paolon, gli dice sottovoce: «Andèmm, Paol! Andèmm!» Il Paolon stenta infatti molto a capire ma finalmente si alza, se ne va col Paolin, piglia la sua sulle scale.

Franco ebbe lo stesso pensiero del Paolin e salutò la signora Peppina con mal garbo. La povera donna ne avrebbe pianto perché voleva tanto bene a sua moglie e teneva in gran concetto anche lui; ma capiva la sua avversione; la scusava in cuor suo. Appena osava guardarlo di tempo in tempo, umile, con un'aria di cane bastonato. Si tolse la Maria sulle ginocchia, le parlò del suo buon papà, del suo caro papà che andava via. «Chi sa che dispiasè, neh ti poera vèggia? Chi sa che magòn? Poer ratin. Andà via el papà! On papà de quella sort!» Franco discorreva col professore ma udiva e fremeva d'impazienza. Fu contentissimo che la Veronica venisse a chiamarlo.

Lo volevano nell'orto. Vi discese, trovò il signor Giacomo Puttini e don Giuseppe Costabarbieri ch'eran venuti per salutarlo ma, informati dal Paolin e dal Paolon, desideravano non farsi vedere dalla süra Peppina. Anche il suolo dell'orto scottava loro i piedi. Mentre il piccolo eroe magro si difendeva, soffiando, dagl'inviti di Franco a salire in casa, il piccolo eroe grasso girava vivacemente la testa e gli occhietti come un merlo di buon umore, a guardar ora il monte ora il lago, quasi per un'abitudine di sospetto. Scorse una barca che veniva da Porlezza. Chi sa? Non potrebb'essere l'I. R. Commissario? Benché la barca fosse ancora lontana, pensò subito di cavarsela, pensò di andar col Puttini a visitar il Ricevitore per aver la fortuna di non trovar la süra Peppina in casa.

Scambiati con Franco saluti sommessi e frettolosi, i due vecchi leproni trottarono via a testa bassa e Franco rimase nell'orto.