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Pasolini - Ragazzi di Vita, II. IL RICCETTO (4)

II. IL RICCETTO (4)

Al Riccetto erano rimasti giusto un po' di spicci per comprarsi due tre nazionali e per prendere il tram. Si fece a fette la strada fino ai Cerchi, tutto solo come un cane, e lì aspettò il tredici, ch'era mezzo vuoto, perché era ancora presto e c'era luce e caldo come in pieno pomeriggio, mentre non dovevano essere neppure le sei. Il Riccetto s'andò a mettere in fondo alla vettura, mezzo fuori dal finestrino, per poter starsene solo coi suoi tristi pensieri, e il venticello, nella corsa del tram pei lungoteveri quasi deserti e per viale del Re, gli scapigliava i riccetti in ciuffo sulla fronte e appiccicati intorno agli orecchi, e gli faceva sbattere la camicetta tirata fuori dai calzoni. Lui guardava fisso, senza vedere, le facciate delle case che passavano davanti, tutto accorato, con la faccia bruciata dal sole e gli occhi ch'erano lì lì per luccicare di pianto. Scendette giù come un ladro al Ponte Bianco, ma come scendette, restò fermo, colpito da una scena inaspettata. Intorno alle gugliette del Ponte Bianco, sulle aree erbose, tra i cantieri del viale dei Quattro Venti in costruzione, dove di solito non c'era mai nessuno, e per la stradetta che andava su al Ferrobedò e ai Grattacieli, per dove passavano solo quelli che ci abitavano e che non avevano i calli ai piedi o le scarpe strette, era tutto pieno di gente. - Che è successo? -chiese il Riccetto a uno che gli stava accanto. - Boh, - fece quello squadrando intorno per vedere di capirci qualcosa. Il Riccetto si spinse di corsa avanti, in mezzo alla gente giù per la scarpata che prima discendeva fino a un passaggio a livello e poi risaliva ripida, svoltando verso il Ferrobedò. Ma proprio in quel momento si sentirono in fondo al viale della Circonvallazione Gianicolense, verso la stazione di Trastevere, gli urli delle sirene. Il Riccetto si voltò, si riaprì il passo tra la folla ondeggiante e rifù sul Ponte Bianco giusto in tempo per veder passare a tutta velocità verso Monteverde Nuovo le macchine dei pompieri e una autoambulanza. Il loro urlo si disperse piano piano tra i palazzoni e i cantieri.

Il Riccetto risvoltò di corsa giù verso il passaggio a livello, ma incontrò Agnoletto con la bicicletta per mano. Si misero insieme a farsi strada tra la folla. - Che d'è? - chiese il Riccetto a un altro, perché non resisteva dalla curiosità - Sarà n'incendio alla Ferrobedò, - fece l'interrogato con una smorfia alzando le spalle. Ma come arrivarono a spallate al passaggio a livello trovarono una fila di agenti che impediva il passaggio. Agnolo e il Riccetto cercarono di farsi ascoltare e di far valere il privilegio di abitare a Donna Olimpia, ma quelli avevano l'ordine di non lasciar passare nessuno, e pure Agnolo e il Riccetto dovettero tornare indietro. Tentarono di scendere giù dal viale dei Quattro Venti, per la scarpata, attraverso un sentierino scavato dagli operai che scendeva oltre il passaggio a livello. Ma anche lì ci stavano i poliziotti. Non restava che andare a Donna Olimpia facendo il giro di Monteverde Nuovo. Agnoletto e il Riccetto ritornarono al Ponte Bianco, dove c'era sempre più gente, e partirono su per la scesa della Circonvallazione Gianicolense, portandosi sulla canna un po' peruno, e facendosi dei lunghi pezzi a piedi, quando la scesa era troppo ripida. C'erano almeno due chilometri di strada da fare per arrivare alla piazza di Monteverde Nuovo, e poi un altro mezzo chilometro in discesa, attraverso i prati, le casermette degli sfrattati e i cantieri, per arrivare giù a Donna Olimpia, dall'altra parte. Il Riccetto e Agnolo ci arrivarono che cominciava a scendere la sera. Andarono giù di corsa, per il primo pezzo di strada, poi, anche lì, si dovettero fermare. Poco prima dei Grattacieli, cominciava una gran folla, che si muoveva sulla strada, sotto il Monte di Splendore, nei cortili interni dei palazzoni. Si sentivano grida, richiami, e le voci della gente che parlava ammassata a quel modo, erano come smorzate e soffocate. Il Riccetto e Agnolo, scesi dalla bicicletta, s'infilarono senza aprir bocca in mezzo alla ressa. - Ch'è successo, ch'è successo? - chiese il Riccetto a dei conoscenti. Quelli lo guardarono e non risposero niente, sbandando in mezzo alla confusione. Poi uno, mentre il Riccetto andava avanti bianco come un cencio, prese per la manica Agnolo e gli disse: - Che nun ce lo sai che so' crollate 'e Scole? - In quel momento si risentì da Monteverde Nuovo l'urlo delle sirene, e dopo un attimo altre macchine dei pompieri scesero giù di corsa, facendo il vuoto tra la folla, e vennero a fermarsi di fianco alle altre in mezzo al largo dell'incrocio di Donna Olimpia. Quando cessò l'ultimo urlo della sirena si sentirono più forte i discorsi e le grida della gente. Al posto dove c'era l'edificio dell'angolo destro delle scuole si vedeva un grande rudere che ancora fumava, e sotto, sulla strada, un monte di calcinacci bianchi e di massi, che impedivano il passaggio e coprivano del tutto alla vista la fila delle colonne bianche, ancora in piedi, al centro della facciata. Sopra le macerie già stava lavorando una gru dei pompieri, e due o tre dozzine d'uomini stavano scavando coi picconi, nell'aria che si stava facendo sempre più buia, gridandosi ordini e chiamandosi. Tutt'intorno c'era un cordone di guardie e la folla, a distanza, stava a guardare con attenzione il lavoro dei pompieri; le donne del palazzo di fronte, dalle finestre con le luci già accese, gridavano e piangevano.

Marcello era stato portato all'ospedale in autoambulanza, ancora tutto bianco di polvere come un pesce infarinato, e lì gli avevano trovato due costole rotte. L'avevano portato in una corsia che dava verso dei giardinetti coi convalescenti che prendevano il sole, l'avevano sistemato in un lettino tra un vecchio malato di fegato, che chiacchierava, rideva e brontolava sempre contro le monache, come se fosse sempre ubbriaco, e un altro uomo di mezza età che due o tre giorni dopo, senza aver mai detto niente, fu portato a spirare in una cameretta apposita, dall'altra parte del corridoio. Al posto del morto, la mattina dopo portarono un altro vecchio, che si lamentava notte e giorno, facendo venire le fregne all'altro, che, come un ragazzino, gli rifaceva il verso con delle boccacce. Marcello non ci si trovava male. Passava le giornate specialmente aspettando l'ora dei pasti: non perché aveva molta fame, che anzi quasi sempre avanzava la sua parte, ma per golosità: la sua faccia si rischiarava quando sentiva in fondo al corridoio il rumore di ferraglie dei bidoni pieni di minestra, spinti dalla monaca su una specie di carrettino. Subito voltava la testa da quella parte, e con uno sguardo da intenditore, guardava che cosa c'era quel giorno, osservando il mestolo, che usciva pieno dal bidone empiendo i piatti di metallo degli ammalati dei primi letti. Quelli cominciavano meticolosamente a mangiare, facendo tintinnare i comodini bianchi di ferro pieni di boccette. Si vedevano le loro ganasce che si muovevano e i loro occhi che si restringevano luccicando di malcelata soddisfazione. La maggior parte, però, brontolavano per il cibo, facevano i delicati e trovavano sempre qualcosa da ridire ingollando quei quattro bocconi con aria di rassegnazione. Marcello era tra questi ultimi, e l'argomento principale dei suoi discorsi con i suoi, all'ora della visita, era appunto il mangiare dell'ospedale, come se i suoi non sapessero quello che mangiava a casa. Lui avanzava quasi tutto quello che gli portavano: e, appunto, giustificava questa mancanza d'appetito dicendo che il mangiare era cattivo, ch'era cotto male, che le monache lo facevano apposta a dargli le parti più scarte per fargli dispetto, mentre, invece, l'avanzava un poco perché ogni più piccolo movimento gli procurava dei gran dolori alle costole rotte, e un poco perché proprio non c'aveva fame, e gli sarebbe ripugnato qualsiasi cibo pure quello dei ristoranti, che aveva tante volte sognato.

Col passare dei giorni, anziché passargli, il male alle costole e la mancanza d'appetito aumentavano. Diventava ogni giorno più pallido e magretto, e quasi non si poteva più muovere tra le lenzuola. Soltanto a voltare gli occhi si sentiva mancare. Ma lui non ci pensava, e sopportava senza tante lagne sia i dolori che la debolezza.

Nel frattempo a Donna Olimpia bene o male avevano ammassato le macerie contro le scuole, liberando il passaggio, ai morti erano stati fatti i funerali, e, per intervento del sindaco, erano stati sistemati i senza tetto: sistemati per modo di dire, perché avevano ammassato una decina di famiglie in un solo stanzone in un convento di frati al Casaletto, e le altre chi qua chi là nelle borgate, a Tormarancio o a Tiburtino, nelle casette degli sfrattati o nelle caserme. A Donna Olimpia, un due domeniche dopo, la vita era tornata come sempre. I giovani uscivano a divertirsi dentro Roma, gli anziani si facevano, un chirichetto per volta, il loro litro all'osteria, e l'esercito dei ragazzini invadeva prati e cortili. Il padre e la madre di Marcello, con gli altri sei o sette figli, erano usciti per andare a trovare Marcello all'ospedale di San Camillo, a piedi, perché tanto non c'era più di una mezzoretta di strada, andando su per Monteverde Nuovo e ridiscendendo per la Circonvallazione Gianicolense: piano piano sotto il sole, andavano su per via Ozanam, il marito e la moglie, con le figlie più grandi, tutti in silenzio, e con la testa bassa, e i più piccoletti intorno che correvano e si facevano i dispetti litigando a bassa voce. Passarono così in fila, dietro i Grattacieli, davanti al Monte di Splendore, dove, sul piccolo spiazzo tra l'immondezza, i ragazzi cominciavano a giocare al pallone. C'erano anche Agnolo e Oberdan, tutti acchittati, che stavano a guardare gli altri, e già se n'erano stufati, standosene seduti, attenti a non sporcarsi i calzoni, s'una toppa con un po' d'erba. Come vide passare la famiglia di Marcello, Agnolo urtò il gomito a Oberdan, e preso da un sentimento di cui già si gonfiava, disse: - Aòh, perché nun c'annamo pure noi a trovà Marcello? - Nàmoce, - fece pronto Oberdan, che tanto là non sapevano che fare, alzandosi subito da terra e facendo una faccia d'occasione, tutto infervorato per la buona intenzione. I due spesarono senza meno, dal campetto, attraverso le buche e le gobbe che lo circondavano: ma degli amici loro, che venivano da Monteverde Nuovo li fermarono: - Addò ite? - gli chiesero, con l'idea di farli andare con loro da qualche parte. La tentazione era forte. Ma Agnolo, ormai, rispose con aria seria: - Annamo all'ospedale a trovà Marcello. - Chi Marcello? - fece Lupetto che non lo conosceva. - Marcello, er fijo de 'a pantalonara, - spiegò un altro. - Ce lo sai che se sta a morì? - disse allora Agnolo. - Come sarebbe a morì, -chiese l'altro incredulo, - ma si s'è rotto na costola, che, se more pe na costola rotta? - Ma vaffan..., - disse Agnolo, - ma si me l'ha detto 'a sorella che na costola jè entrata dentro ar fegato, boh, ne' a mirza, che ne so... - Daje, a Agnolè, - fece frettoloso Oberdan, - che restamo indietro. -Se vedemo, - salutarono allora Lupetto e gli altri, sciamando giù verso Donna Olimpia. Agnolo e Oberdan con una corsa raggiunsero la famiglia di Marcello, che stava imboccando il sentiero sul prato che portava al piazzale di Monteverde Nuovo, e senza dir niente gli andarono appresso per le strade deserte della domenica pomeriggio, battute dal sole, fino davanti ai cancelli dell'ospedale.

Marcello fu tutto contento di vederli. - Nun ce volevano fà entrà, - gli comunicò subito Agnolo, ancora tutto sdegnato contro i custodi. Marcello non si lasciò scappare l'occasione per esprimere il suo parere al riguardo: -Qqua, - fece, - so' tutti da naso! E le mòniche peggio dell'artri, che ve credete...

Lo sforzo che aveva fatto a parlare lo aveva fatto venire bianco più del lenzuolo, ma lui non ci faceva caso.

- Avete visto Zambuia, che? - s'informò subito guardando Agnoletto e Oberdan con gli occhi che gli luccicavano di curiosità.

- E chi 'o vede mai, - fece con un certo disprezzo Agnolo, che non sapeva del cagnoletto.

- Si è che 'o vedi, - insistette Marcello un pochetto dispiaciuto, - dije che me tratti bbene er cagnoletto mio, che poi je do un'antra piotta. Lui ce lo sa de che se tratta.

- Va bbene, - fece Agnolo.

- E azzittete un pochetto, no, - disse la madre di Marcello, inquieta, vedendo che il figlio a parlare s'allaccava e impallidiva- Marcello alzò le spalle, quasi ridendo.

- Che ce 'o sapete, - disse invece, con ancora più foga, tutto soddisfatto, ai compagni, senza dar retta al padre e alla madre che se lo guardavano ai piedi del letto, - che me danno 'a assicurazione?

- Quale assicurazione? - chiese ignaro Agnolo.

- 'A assicurazione de' e costole rotte, che non ce lo sai che ce sta 'a assicurazione? - spiegò Marcello tutto allegro.

La sua faccia s'era quasi colorita al pensiero di quello che avrebbe fatto coi soldi dell'assicurazione: già era d'accordo coi suoi. Lo comunicò cogli occhi che gli brillavano: - Me fo na bicicletta mejo de 'a tua, - disse a Agnolo.

- Ammazza, - fece Agnolo, tirando su le sopracciglia.

In quel momento il vecchio di destra cominciò a fare la sua lagna, con dei piccoli lamenti uno uguale all'altro, tenendosi la mano sulla pancia. Il vecchio dall'altra parte che, caso strano, era stato buono buono fino a quel momento, si risvegliò tutt'a un botto, si voltò facendo una smorfia colla bocca sdentata, e cominciò a fare come lui: - Uheeee, uheeee, uheeee, - un po' per ridere e un po' incazzato sul serio. Poi riprese certi suoi impiccetti che stava facendo seduto sul letto. Marcello lanciò un'occhiata allegra ai suoi amici come per dirgli: - Li vedi? - poi fece a voce bassa: - Stanno a ffà sempre così.

Ma nel dire queste parole gli venne forse una specie di capogiro, perché gli sfuggì quasi di bocca anche a lui come un piccolo gemito. La madre gli s'accostò, rimboccando le lenzuola: - Ma te vòi stà zitto? - disse. Anche le sorelle che s'erano un po' distratte gli si fecero intorno, e i fratellini che s'erano già stufati di star lì dentro, smisero di farsi dispetti fra loro, e s'attaccarono alla spalliera del letto.

- E er Riccetto, che fà? - chiese Marcello, appena si riprese dal suo capogiro.

- Boh, - disse Agnolo, - sarà na quindicina de ggiorni che nun se vede!

- Addò è ito a stà, adesso? - s'informò Marcello.

- Me pare a Tibburtino a Pietralata da que' e parti, - disse Agnolo.

- Marcello restò un po' sopra pensiero. - E che ha detto quanno ha saputo ch'era morta su' madre? - chiese.

- Che ha detto, - fece Agnolo, - è sbottato a piagne, che vvòi.

- Ahioddio, - fece con una smorfia di dolore Marcello sentendo una fitta più forte al fianco. La madre si spaventò, e lo prese per una mano, asciugandogli col fazzoletto il sudore sulla fronte e sul collo.

Marcello s'era quasi sturbato per la debolezza e il male; e i suoi lo sapevano che ormai i medici non gli avevano dato più di due o tre giorni. Vedendolo così bianco, il padre andò a chiamare una suora, e sua madre si lasciò andare in ginocchio contro la sponda del letto, stringendo sempre il figlio per una mano e mettendosi a piangere in silenzio. Tornò il padre con la suora, che lo guardò, gli passò una mano sulla fronte, e con uno sguardo spento, andandosene, disse: - Bisogna avere pazienza -. A quelle parole la madre alzò un po' la testa, si guardò intorno e cominciò a piangere più forte: - Fijo mio, fijo mio, - diceva tra i singhiozzi, - povero fijo mio...

Marcello riaprì gli occhi, e vide la madre che piangeva e gridava a quel modo, con tutti gli altri intorno che chi piangeva, chi lo guardava con degli occhi diversi dal solito. Agnolo e Oberdan stavano adesso in disparte, in fondo al letto, perché avevano lasciato il posto più vicino a Marcello ai suoi famigliari.

- Ma che c'avete? - disse Marcello con un filo di voce

La madre continuò a piangere ancora più disperata, senza sapersi trattenere, e cercando di soffocare i singhiozzi contro le lenzuola.

Marcello si guardò intorno meglio, come se stesse pensando intensamente a qualcosa.

- Ah, ma allora, - disse dopo un poco, - me ne devo proprio annà!

Nessuno gli disse niente. - Ma allora, - riprese Marcello, guardando

fisso quelli che gli stavano intorno, - devo proprio morì...

Agnolo e l'altro se ne stavano zitti e accigliati. Dopo qualche minuto di silenzio, Agnolo si fece coraggio, s'accostò al letto e toccò Marcello s'una spalla: - Noi te salutamo, a Marcè, - disse, - se ne dovemo annà, mo, che c'avemo 'a puntata coll'amici.

- Ve saluto, a Agnolè! - disse con voce debole ma ferma Marcello. Poi dopo aver pensato un momento, aggiunse ancora: - E salutateme tutti giù a Donna Olimpia, si è proprio ch'io non ce ritorno ppiù... E dìteje che nun s'accorassero tanto!

Agnolo spinse Oberdan per una spalla, e se ne andarono giù per la corsia ormai quasi buia, senza dire una parola.

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II. IL RICCETTO (4) II. THE URCHIN (4) II. EL ERIZO (4) II. DE EGEL (4) 二.里切托 (4)

Al Riccetto erano rimasti giusto un po' di spicci per comprarsi due tre nazionali e per prendere il tram. Si fece a fette la strada fino ai Cerchi, tutto solo come un cane, e lì aspettò il tredici, ch'era mezzo vuoto, perché era ancora presto e c'era luce e caldo come in pieno pomeriggio, mentre non dovevano essere neppure le sei. Il Riccetto s'andò a mettere in fondo alla vettura, mezzo fuori dal finestrino, per poter starsene solo coi suoi tristi pensieri, e il venticello, nella corsa del tram pei lungoteveri quasi deserti e per viale del Re, gli scapigliava i riccetti in ciuffo sulla fronte e appiccicati intorno agli orecchi, e gli faceva sbattere la camicetta tirata fuori dai calzoni. Lui guardava fisso, senza vedere, le facciate delle case che passavano davanti, tutto accorato, con la faccia bruciata dal sole e gli occhi ch'erano lì lì per luccicare di pianto. Scendette giù come un ladro al Ponte Bianco, ma come scendette, restò fermo, colpito da una scena inaspettata. Intorno alle gugliette del Ponte Bianco, sulle aree erbose, tra i cantieri del viale dei Quattro Venti in costruzione, dove di solito non c'era mai nessuno, e per la stradetta che andava su al Ferrobedò e ai Grattacieli, per dove passavano solo quelli che ci abitavano e che non avevano i calli ai piedi o le scarpe strette, era tutto pieno di gente. - Che è successo? -chiese il Riccetto a uno che gli stava accanto. - Boh, - fece quello squadrando intorno per vedere di capirci qualcosa. Il Riccetto si spinse di corsa avanti, in mezzo alla gente giù per la scarpata che prima discendeva fino a un passaggio a livello e poi risaliva ripida, svoltando verso il Ferrobedò. Ma proprio in quel momento si sentirono in fondo al viale della Circonvallazione Gianicolense, verso la stazione di Trastevere, gli urli delle sirene. Il Riccetto si voltò, si riaprì il passo tra la folla ondeggiante e rifù sul Ponte Bianco giusto in tempo per veder passare a tutta velocità verso Monteverde Nuovo le macchine dei pompieri e una autoambulanza. Il loro urlo si disperse piano piano tra i palazzoni e i cantieri.

Il Riccetto risvoltò di corsa giù verso il passaggio a livello, ma incontrò Agnoletto con la bicicletta per mano. Si misero insieme a farsi strada tra la folla. - Che d'è? - chiese il Riccetto a un altro, perché non resisteva dalla curiosità - Sarà n'incendio alla Ferrobedò, - fece l'interrogato con una smorfia alzando le spalle. Ma come arrivarono a spallate al passaggio a livello trovarono una fila di agenti che impediva il passaggio. Agnolo e il Riccetto cercarono di farsi ascoltare e di far valere il privilegio di abitare a Donna Olimpia, ma quelli avevano l'ordine di non lasciar passare nessuno, e pure Agnolo e il Riccetto dovettero tornare indietro. Tentarono di scendere giù dal viale dei Quattro Venti, per la scarpata, attraverso un sentierino scavato dagli operai che scendeva oltre il passaggio a livello. Ma anche lì ci stavano i poliziotti. Non restava che andare a Donna Olimpia facendo il giro di Monteverde Nuovo. Agnoletto e il Riccetto ritornarono al Ponte Bianco, dove c'era sempre più gente, e partirono su per la scesa della Circonvallazione Gianicolense, portandosi sulla canna un po' peruno, e facendosi dei lunghi pezzi a piedi, quando la scesa era troppo ripida. C'erano almeno due chilometri di strada da fare per arrivare alla piazza di Monteverde Nuovo, e poi un altro mezzo chilometro in discesa, attraverso i prati, le casermette degli sfrattati e i cantieri, per arrivare giù a Donna Olimpia, dall'altra parte. Il Riccetto e Agnolo ci arrivarono che cominciava a scendere la sera. Andarono giù di corsa, per il primo pezzo di strada, poi, anche lì, si dovettero fermare. Poco prima dei Grattacieli, cominciava una gran folla, che si muoveva sulla strada, sotto il Monte di Splendore, nei cortili interni dei palazzoni. Si sentivano grida, richiami, e le voci della gente che parlava ammassata a quel modo, erano come smorzate e soffocate. Il Riccetto e Agnolo, scesi dalla bicicletta, s'infilarono senza aprir bocca in mezzo alla ressa. - Ch'è successo, ch'è successo? - chiese il Riccetto a dei conoscenti. Quelli lo guardarono e non risposero niente, sbandando in mezzo alla confusione. Poi uno, mentre il Riccetto andava avanti bianco come un cencio, prese per la manica Agnolo e gli disse: - Che nun ce lo sai che so' crollate 'e Scole? - In quel momento si risentì da Monteverde Nuovo l'urlo delle sirene, e dopo un attimo altre macchine dei pompieri scesero giù di corsa, facendo il vuoto tra la folla, e vennero a fermarsi di fianco alle altre in mezzo al largo dell'incrocio di Donna Olimpia. Quando cessò l'ultimo urlo della sirena si sentirono più forte i discorsi e le grida della gente. Al posto dove c'era l'edificio dell'angolo destro delle scuole si vedeva un grande rudere che ancora fumava, e sotto, sulla strada, un monte di calcinacci bianchi e di massi, che impedivano il passaggio e coprivano del tutto alla vista la fila delle colonne bianche, ancora in piedi, al centro della facciata. Sopra le macerie già stava lavorando una gru dei pompieri, e due o tre dozzine d'uomini stavano scavando coi picconi, nell'aria che si stava facendo sempre più buia, gridandosi ordini e chiamandosi. Tutt'intorno c'era un cordone di guardie e la folla, a distanza, stava a guardare con attenzione il lavoro dei pompieri; le donne del palazzo di fronte, dalle finestre con le luci già accese, gridavano e piangevano.

Marcello era stato portato all'ospedale in autoambulanza, ancora tutto bianco di polvere come un pesce infarinato, e lì gli avevano trovato due costole rotte. L'avevano portato in una corsia che dava verso dei giardinetti coi convalescenti che prendevano il sole, l'avevano sistemato in un lettino tra un vecchio malato di fegato, che chiacchierava, rideva e brontolava sempre contro le monache, come se fosse sempre ubbriaco, e un altro uomo di mezza età che due o tre giorni dopo, senza aver mai detto niente, fu portato a spirare in una cameretta apposita, dall'altra parte del corridoio. Al posto del morto, la mattina dopo portarono un altro vecchio, che si lamentava notte e giorno, facendo venire le fregne all'altro, che, come un ragazzino, gli rifaceva il verso con delle boccacce. Marcello non ci si trovava male. Passava le giornate specialmente aspettando l'ora dei pasti: non perché aveva molta fame, che anzi quasi sempre avanzava la sua parte, ma per golosità: la sua faccia si rischiarava quando sentiva in fondo al corridoio il rumore di ferraglie dei bidoni pieni di minestra, spinti dalla monaca su una specie di carrettino. Subito voltava la testa da quella parte, e con uno sguardo da intenditore, guardava che cosa c'era quel giorno, osservando il mestolo, che usciva pieno dal bidone empiendo i piatti di metallo degli ammalati dei primi letti. Quelli cominciavano meticolosamente a mangiare, facendo tintinnare i comodini bianchi di ferro pieni di boccette. Si vedevano le loro ganasce che si muovevano e i loro occhi che si restringevano luccicando di malcelata soddisfazione. La maggior parte, però, brontolavano per il cibo, facevano i delicati e trovavano sempre qualcosa da ridire ingollando quei quattro bocconi con aria di rassegnazione. Marcello era tra questi ultimi, e l'argomento principale dei suoi discorsi con i suoi, all'ora della visita, era appunto il mangiare dell'ospedale, come se i suoi non sapessero quello che mangiava a casa. Lui avanzava quasi tutto quello che gli portavano: e, appunto, giustificava questa mancanza d'appetito dicendo che il mangiare era cattivo, ch'era cotto male, che le monache lo facevano apposta a dargli le parti più scarte per fargli dispetto, mentre, invece, l'avanzava un poco perché ogni più piccolo movimento gli procurava dei gran dolori alle costole rotte, e un poco perché proprio non c'aveva fame, e gli sarebbe ripugnato qualsiasi cibo pure quello dei ristoranti, che aveva tante volte sognato.

Col passare dei giorni, anziché passargli, il male alle costole e la mancanza d'appetito aumentavano. Diventava ogni giorno più pallido e magretto, e quasi non si poteva più muovere tra le lenzuola. Soltanto a voltare gli occhi si sentiva mancare. Ma lui non ci pensava, e sopportava senza tante lagne sia i dolori che la debolezza.

Nel frattempo a Donna Olimpia bene o male avevano ammassato le macerie contro le scuole, liberando il passaggio, ai morti erano stati fatti i funerali, e, per intervento del sindaco, erano stati sistemati i senza tetto: sistemati per modo di dire, perché avevano ammassato una decina di famiglie in un solo stanzone in un convento di frati al Casaletto, e le altre chi qua chi là nelle borgate, a Tormarancio o a Tiburtino, nelle casette degli sfrattati o nelle caserme. A Donna Olimpia, un due domeniche dopo, la vita era tornata come sempre. I giovani uscivano a divertirsi dentro Roma, gli anziani si facevano, un chirichetto per volta, il loro litro all'osteria, e l'esercito dei ragazzini invadeva prati e cortili. Il padre e la madre di Marcello, con gli altri sei o sette figli, erano usciti per andare a trovare Marcello all'ospedale di San Camillo, a piedi, perché tanto non c'era più di una mezzoretta di strada, andando su per Monteverde Nuovo e ridiscendendo per la Circonvallazione Gianicolense: piano piano sotto il sole, andavano su per via Ozanam, il marito e la moglie, con le figlie più grandi, tutti in silenzio, e con la testa bassa, e i più piccoletti intorno che correvano e si facevano i dispetti litigando a bassa voce. Passarono così in fila, dietro i Grattacieli, davanti al Monte di Splendore, dove, sul piccolo spiazzo tra l'immondezza, i ragazzi cominciavano a giocare al pallone. C'erano anche Agnolo e Oberdan, tutti acchittati, che stavano a guardare gli altri, e già se n'erano stufati, standosene seduti, attenti a non sporcarsi i calzoni, s'una toppa con un po' d'erba. Come vide passare la famiglia di Marcello, Agnolo urtò il gomito a Oberdan, e preso da un sentimento di cui già si gonfiava, disse: - Aòh, perché nun c'annamo pure noi a trovà Marcello? - Nàmoce, - fece pronto Oberdan, che tanto là non sapevano che fare, alzandosi subito da terra e facendo una faccia d'occasione, tutto infervorato per la buona intenzione. I due spesarono senza meno, dal campetto, attraverso le buche e le gobbe che lo circondavano: ma degli amici loro, che venivano da Monteverde Nuovo li fermarono: - Addò ite? - gli chiesero, con l'idea di farli andare con loro da qualche parte. La tentazione era forte. Ma Agnolo, ormai, rispose con aria seria: - Annamo all'ospedale a trovà Marcello. - Chi Marcello? - fece Lupetto che non lo conosceva. - Marcello, er fijo de 'a pantalonara, - spiegò un altro. - Ce lo sai che se sta a morì? - disse allora Agnolo. - Come sarebbe a morì, -chiese l'altro incredulo, - ma si s'è rotto na costola, che, se more pe na costola rotta? - Ma vaffan..., - disse Agnolo, - ma si me l'ha detto 'a sorella che na costola jè entrata dentro ar fegato, boh, ne' a mirza, che ne so... - Daje, a Agnolè, - fece frettoloso Oberdan, - che restamo indietro. -Se vedemo, - salutarono allora Lupetto e gli altri, sciamando giù verso Donna Olimpia. Agnolo e Oberdan con una corsa raggiunsero la famiglia di Marcello, che stava imboccando il sentiero sul prato che portava al piazzale di Monteverde Nuovo, e senza dir niente gli andarono appresso per le strade deserte della domenica pomeriggio, battute dal sole, fino davanti ai cancelli dell'ospedale.

Marcello fu tutto contento di vederli. - Nun ce volevano fà entrà, - gli comunicò subito Agnolo, ancora tutto sdegnato contro i custodi. Marcello non si lasciò scappare l'occasione per esprimere il suo parere al riguardo: -Qqua, - fece, - so' tutti da naso! E le mòniche peggio dell'artri, che ve credete...

Lo sforzo che aveva fatto a parlare lo aveva fatto venire bianco più del lenzuolo, ma lui non ci faceva caso.

- Avete visto Zambuia, che? - s'informò subito guardando Agnoletto e Oberdan con gli occhi che gli luccicavano di curiosità.

- E chi 'o vede mai, - fece con un certo disprezzo Agnolo, che non sapeva del cagnoletto.

- Si è che 'o vedi, - insistette Marcello un pochetto dispiaciuto, - dije che me tratti bbene er cagnoletto mio, che poi je do un'antra piotta. Lui ce lo sa de che se tratta.

- Va bbene, - fece Agnolo.

- E azzittete un pochetto, no, - disse la madre di Marcello, inquieta, vedendo che il figlio a parlare s'allaccava e impallidiva- Marcello alzò le spalle, quasi ridendo.

- Che ce 'o sapete, - disse invece, con ancora più foga, tutto soddisfatto, ai compagni, senza dar retta al padre e alla madre che se lo guardavano ai piedi del letto, - che me danno 'a assicurazione?

- Quale assicurazione? - chiese ignaro Agnolo.

- 'A assicurazione de' e costole rotte, che non ce lo sai che ce sta 'a assicurazione? - spiegò Marcello tutto allegro.

La sua faccia s'era quasi colorita al pensiero di quello che avrebbe fatto coi soldi dell'assicurazione: già era d'accordo coi suoi. Lo comunicò cogli occhi che gli brillavano: - Me fo na bicicletta mejo de 'a tua, - disse a Agnolo.

- Ammazza, - fece Agnolo, tirando su le sopracciglia.

In quel momento il vecchio di destra cominciò a fare la sua lagna, con dei piccoli lamenti uno uguale all'altro, tenendosi la mano sulla pancia. Il vecchio dall'altra parte che, caso strano, era stato buono buono fino a quel momento, si risvegliò tutt'a un botto, si voltò facendo una smorfia colla bocca sdentata, e cominciò a fare come lui: - Uheeee, uheeee, uheeee, - un po' per ridere e un po' incazzato sul serio. Poi riprese certi suoi impiccetti che stava facendo seduto sul letto. Marcello lanciò un'occhiata allegra ai suoi amici come per dirgli: - Li vedi? - poi fece a voce bassa: - Stanno a ffà sempre così.

Ma nel dire queste parole gli venne forse una specie di capogiro, perché gli sfuggì quasi di bocca anche a lui come un piccolo gemito. La madre gli s'accostò, rimboccando le lenzuola: - Ma te vòi stà zitto? - disse. Anche le sorelle che s'erano un po' distratte gli si fecero intorno, e i fratellini che s'erano già stufati di star lì dentro, smisero di farsi dispetti fra loro, e s'attaccarono alla spalliera del letto.

- E er Riccetto, che fà? - chiese Marcello, appena si riprese dal suo capogiro.

- Boh, - disse Agnolo, - sarà na quindicina de ggiorni che nun se vede!

- Addò è ito a stà, adesso? - s'informò Marcello.

- Me pare a Tibburtino a Pietralata da que' e parti, - disse Agnolo.

- Marcello restò un po' sopra pensiero. - E che ha detto quanno ha saputo ch'era morta su' madre? - chiese.

- Che ha detto, - fece Agnolo, - è sbottato a piagne, che vvòi.

- Ahioddio, - fece con una smorfia di dolore Marcello sentendo una fitta più forte al fianco. La madre si spaventò, e lo prese per una mano, asciugandogli col fazzoletto il sudore sulla fronte e sul collo.

Marcello s'era quasi sturbato per la debolezza e il male; e i suoi lo sapevano che ormai i medici non gli avevano dato più di due o tre giorni. Vedendolo così bianco, il padre andò a chiamare una suora, e sua madre si lasciò andare in ginocchio contro la sponda del letto, stringendo sempre il figlio per una mano e mettendosi a piangere in silenzio. Tornò il padre con la suora, che lo guardò, gli passò una mano sulla fronte, e con uno sguardo spento, andandosene, disse: - Bisogna avere pazienza -. A quelle parole la madre alzò un po' la testa, si guardò intorno e cominciò a piangere più forte: - Fijo mio, fijo mio, - diceva tra i singhiozzi, - povero fijo mio...

Marcello riaprì gli occhi, e vide la madre che piangeva e gridava a quel modo, con tutti gli altri intorno che chi piangeva, chi lo guardava con degli occhi diversi dal solito. Agnolo e Oberdan stavano adesso in disparte, in fondo al letto, perché avevano lasciato il posto più vicino a Marcello ai suoi famigliari.

- Ma che c'avete? - disse Marcello con un filo di voce

La madre continuò a piangere ancora più disperata, senza sapersi trattenere, e cercando di soffocare i singhiozzi contro le lenzuola.

Marcello si guardò intorno meglio, come se stesse pensando intensamente a qualcosa.

- Ah, ma allora, - disse dopo un poco, - me ne devo proprio annà!

Nessuno gli disse niente. - Ma allora, - riprese Marcello, guardando

fisso quelli che gli stavano intorno, - devo proprio morì...

Agnolo e l'altro se ne stavano zitti e accigliati. Dopo qualche minuto di silenzio, Agnolo si fece coraggio, s'accostò al letto e toccò Marcello s'una spalla: - Noi te salutamo, a Marcè, - disse, - se ne dovemo annà, mo, che c'avemo 'a puntata coll'amici.

- Ve saluto, a Agnolè! - disse con voce debole ma ferma Marcello. Poi dopo aver pensato un momento, aggiunse ancora: - E salutateme tutti giù a Donna Olimpia, si è proprio ch'io non ce ritorno ppiù... E dìteje che nun s'accorassero tanto! |||||||||cumprimentem-me|||||||||||||mais||diga-lhes|||não se preocupem|

Agnolo spinse Oberdan per una spalla, e se ne andarono giù per la corsia ormai quasi buia, senza dire una parola.