4.6 La Moglie e l'Amante
Nell'anticamera trovammo il dottor Paoli che usciva dalla stanza da letto di mio suocero. Era un medico giovine che aveva però già saputo conquistarsi una buona clientela. Era biondissimo e bianco e rosso come un ragazzone. Nel potente organismo il suo occhio era però tanto importante da rendere seria ed imponente tutta la sua persona. Gli occhiali lo facevano apparire più grande e il suo sguardo s'attaccava alle cose come una carezza. Ora che conosco bene tanto lui che il Dottor S. - quello della psico-analisi - mi pare che l'occhio di questi sia indagatore per intenzione, mentre nel dottor Paoli lo è per una sua instancabile curiosità. Il Paoli vede esattamente il suo cliente, ma anche la moglie di questi e la sedia su cui poggia. Dio sa quale dei due conci meglio i suoi clienti! Durante la malattia di mio suocero io andai spesso dal Paoli per indurlo a non fare intendere alla famiglia che la catastrofe che la minacciava era imminente, e ricordo che un giorno, guardandomi più a lungo di quanto mi fosse piaciuto, mi disse sorridendo:
— Ma Lei adora sua moglie!
Egli era un buon osservatore perché infatti io in quel momento adoravo mia moglie che soffriva tanto per la malattia del padre e che io giornalmente tradivo.
Ci disse che Giovanni stava anche meglio del giorno prima. Adesso egli non aveva altre preoccupazioni perché la stagione era molto favorevole, e riteneva che gli sposi serenamente potessero mettersi in viaggio. - Naturalmente - aggiunse cautamente - salvo complicazioni imprevedibili. - La sua prognosi s'avverò perché intervennero le complicazioni imprevedibili.
Al momento di congedarsi si ricordò che noi conoscevamo certo Copler al cui letto egli era stato chiamato quel giorno stesso a consulto. Lo aveva trovato colpito da una paralisi renale. Raccontò che la paralisi s'era annunciata con un orrendo male di denti. Qui fece una prognosi grave, ma, secondo il solito, attenuata da un dubbio:
— La sua vita può anche prolungarsi a patto ch'egli arrivi a vedere il sole di domani.
Augusta, dalla compassione, ebbe le lagrime agli occhi e mi pregò di correre subito dal nostro povero amico. Dopo un'esitazione, ottemperai al suo desiderio, e volentieri, perché la mia anima improvvisamente si riempì di Carla. Com'ero stato duro con la povera fanciulla! Ecco che, sparito il Copler, essa rimaneva là, solitaria su quel pianerottolo, nient'affatto compromettente perché tagliata da ogni comunicazione col mio mondo. Era necessario correre da lei per cancellare l'impressione che doveva averle fatto il mio duro contegno della mattina.
Ma, prudentemente, andai prima di tutto dal Copler. Dovevo pur poter dire ad Augusta che lo avevo visto.
Conoscevo già il modesto ma comodo e decente quartiere che il Copler abitava in Corsia Stadion. Un vecchio pensionato gli aveva cedute tre delle sue cinque stanze. Fui ricevuto da questi, un grosso uomo, ansante, dagli occhi rossi, che camminava inquieto su e giù per un breve corridoio oscuro. Mi raccontò che il medico curante se ne era andato da poco, dopo di aver constatato che il Copler si trovava in agonia. Il vecchio parlava a bassa voce, sempre ansando, come se avesse temuto di turbare la quiete del moribondo. Anch'io abbassai la mia. È una forma di rispetto come lo sentiamo noi uomini, mentre non è ben certo se al moribondo non piacerebbe di più di venir accompagnato per l'ultimo tratto di via da voci chiare e forti che gli ricorderebbero la vita.
Il vecchio mi disse che il moribondo era assistito da una suora. Pieno di rispetto mi fermai per qualche tempo dinanzi alla porta di quella camera nella quale il povero Copler col suo rantolo, dal ritmo tanto esatto, misurava il suo ultimo tempo. La sua respirazione rumorosa era composta da due suoni: esitante pareva quello prodotto dall'aria ch'egli ispirava, precipitoso quello che nasceva dall'aria espulsa. Fretta di morire? Una pausa seguiva ai due suoni ed io pensai che quando quella pausa si fosse allungata, allora si sarebbe iniziata la nuova vita.
Il vecchio voleva ch'io entrassi in quella stanza, ma io non volli. Troppi moribondi m'avevano guatato con un'espressione di rimprovero.
Non attesi che quella pausa s'allungasse e corsi da Carla. Bussai alla porta del suo studio ch'era chiusa a chiave, ma nessuno rispose. Impazientito presi la porta a calci e allora dietro di me si aperse la porta del quartiere. La voce della madre di Carla domandò:
— Ma chi è? - Poi la vecchia timorosa si sporse e, quando alla luce gialla che veniva dalla sua cucina m'ebbe riconosciuto, m'accorsi che la sua faccia si era coperta di un intenso rossore rilevato dalla nitida bianchezza dei suoi capelli. Carla non c'era, ed essa si profferse di andar a prendere la chiave dello studio per ricevermi in quella stanza ch'essa riteneva fosse la sola degna di ricevermi. Ma io le dissi di non scomodarsi, entrai nella sua cucina e sedetti senz'altro su una sedia di legno. Sul focolare, sotto ad una pentola, ardeva un modesto mucchio di carbone. Le dissi di non trascurare per causa mia la cucinatura della cena. Essa mi rassicurò. Cucinava dei fagiuoli, che non erano mai troppo cotti. La povertà del cibo che si preparava nella casa le cui spese dovevo oramai sostenere io solo, m'ammorbidì e smorzò la stizza che provavo per non aver trovata pronta la mia amante.
La signora rimase in piedi ad onta ch'io ripetutamente l'avessi invitata di sedere. Bruscamente le raccontai ch'ero venuto a portare alla signorina Carla una bruttissima notizia: il Copler era moribondo.
Alla vecchia caddero le braccia e subito sentì il bisogno di sedere. - Dio mio! - mormorò - che cosa faremo ora noi?
Poi si ricordò che quello che toccava al Copler era peggio di quello che toccava a lei e aggiunse un compianto:
— Il povero signore! Tanto buono!
Aveva già la faccia irrorata dalle lagrime. Essa, evidentemente, non sapeva che se il pover'uomo non fosse morto a tempo, sarebbe stato buttato fuori di quella casa. Anche questo mi rassicurò. Com'ero circondato dalla più assoluta discrezione!
Volli tranquillarla e le dissi che quello che il Copler aveva fatto per loro fino ad allora, avrei continuato a farlo io. Essa protestò che non era per sé stessa ch'essa piangeva, visto che sapeva ch'esse erano circondate da tanta buona gente, ma per il destino del loro grande benefattore.
Volle sapere di quale malattia morisse. Raccontandole come la catastrofe s'era annunciata, ricordai quella discussione ch'io tempo prima avevo avuta col Copler sull'utilità del dolore. Ecco che da lui i nervi dei denti s'erano agitati e s'erano messi a chiamare aiuto perché, ad un metro di distanza da loro, i reni avevano cessato di funzionare. Ero tanto indifferente al fato del mio amico di cui avevo sentito poco prima il rantolo, che continuavo a giocherellare con le sue idee. Se fosse stato ancora a sentirmi, gli avrei detto che si capiva così come dall'ammalato immaginario i nervi potessero legittimamente dolere per una malattia scoppiata a qualche chilometro di distanza.
Fra la vecchia e me c'era ben poco ancora da discorrere ed accettai di andar ad aspettare Carla nel suo studio. Presi in mano il Garcia e tentai di leggerne qualche pagina. Ma l'arte del canto mi toccava poco.
La vecchia mi raggiunse di nuovo. Era inquieta perché non vedeva giungere Carla. Mi raccontò ch'era andata a comperare dei piatti di cui avevano urgente bisogno.
La mia pazienza stava proprio per esaurirsi. Irosamente le domandai:
— Avete rotti dei piatti? Non potreste usare maggior attenzione?
Così mi liberai della vecchia che borbottò andandosene:
— Due soli... li ho rotti io...
Ciò mi procurò un momento d'ilarità perché io sapevo ch'erano stati distrutti tutti quelli che c'erano in casa e non dalla vecchia, ma proprio da Carla. Poi seppi che Carla era tutt'altro che dolce con la madre che perciò aveva una paura folle di parlare troppo dei fatti della figlia coi suoi protettori. Pare che una volta, ingenuamente, avesse raccontato al Copler del fastidio che risultava a Carla dalle lezioni di canto. Il Copler se ne adirò con Carla e questa se la prese con la madre.
Ed è così che quando la mia deliziosa amante finalmente mi raggiunse, io l'amai violentemente e irosamente. Essa, incantata, balbettava:
— E io che dubitavo del tuo amore! Il giorno intero fui perseguitata dal desiderio di uccidermi per essermi abbandonata ad un uomo che subito dopo mi trattò così male!
Le spiegai che spesso io venivo preso da gravi mali di testa e, quando mi ritrovai nello stato che, se non avessi valorosamente resistito, m'avrebbe ricondotto di corsa da Augusta, riparlai di quei mali e seppi domarmi. Andavo facendomi. Intanto piangemmo insieme il povero Copler; proprio assieme!
Del resto Carla non era indifferente all'atroce fine del suo benefattore. Parlandone si scolorì:
— Io so come son fatta! - disse. - Per lungo tempo avrò paura di restare sola. Da vivo già mi faceva tanta paura!
E per la prima volta, timidamente, mi propose di restare con lei la notte intera. Io non ci pensavo neppure e non avrei saputo prolungare nemmeno di mezz'ora il mio soggiorno in quella stanza. Ma, sempre attento di non rivelare alla povera fanciulla il mio animo di cui ero il primo io a dolermi, feci delle obbiezioni dicendole che una cosa simile non era possibile perché in quella casa c'era anche sua madre. Con vero disdegno essa arcuò le labbra:
— Avremmo trasportato qui il letto; la mamma non s'arrischia di spiarmi.
Allora le raccontai del banchetto di nozze che m'aspettava a casa, ma poi sentii il bisogno di dirle che mai mi sarebbe stato possibile di passare una notte con lei. Nel proposito di bontà che avevo fatto poco prima, arrivavo a domare ogni mio accento che perciò restò sempre affettuoso, ma mi pareva che ogni altra concessione che le avessi fatta od anche soltanto fatta sperare, sarebbe equivaluta ad un nuovo tradimento ad Augusta che io non volevo commettere.
In quel momento sentivo quali erano i miei più forti legami con Carla: il mio proposito d'affettuosità eppoi le menzogne dette da me sui miei rapporti con Augusta e che pian pianino, nel corso del tempo, bisognava attenuare ed anzi cancellare. Perciò iniziai quella stessa sera tale opera, naturalmente con la debita prudenza perché era tuttavia troppo facile di ricordare il frutto che aveva avuto la mia bugia. Le dissi che io sentivo fortemente i miei obblighi verso mia moglie ch'era una donna tanto stimabile che certamente avrebbe meritato di essere amata meglio e cui mai avrei voluto far sapere come la tradivo.
Carla m'abbracciò:
— Così ti amo: buono e dolce come ti sentii subito la prima volta. Non tenterò mai di fare del male a quella poverina.
A me spiaceva sentir dare della poverina ad Augusta, ma ero riconoscente alla povera Carla della sua mitezza. Era una buona cosa ch'essa non odiasse mia moglie.
Volli dimostrarle la mia riconoscenza e mi guardai d'attorno alla ricerca di un segno di affetto. Finii col trovarlo. Regalai anche a lei la sua lavanderia: le permisi di non richiamare il maestro di canto.
Carla ebbe un impeto di affetto che mi seccò abbastanza, ma che sopportai valorosamente. Poi mi raccontò ch'essa non avrebbe mai abbandonato il canto. Cantava tutto il giorno, ma a modo suo. Voleva anzi farmi sentire subito una sua canzone. Ma io non ne volli sapere e alquanto villanamente corsi via. Perciò penso che anche quella notte essa abbia meditato il suicidio, ma io non le lasciai mai il tempo di dirmelo.
Ritornai dal Copler perché dovevo portare ad Augusta le ultime notizie dell'ammalato per farle credere che io avessi passate con lui tutte quelle ore. Il Copler era morto da due ore circa, subito dopo ch'io me n'ero andato. Accompagnato dal vecchio pensionato che aveva continuato a misurare col suo passo il piccolo corridoio, entrai nella stanza mortuaria. Il cadavere, già vestito, giaceva sul nudo materazzo del letto. Teneva nelle mani il crocifisso. A bassa voce il pensionato mi raccontò che tutte le formalità erano state compiute e che una nipote dell'estinto sarebbe venuta a passare la notte presso il cadavere.
Così avrei potuto andarmene sapendo che al mio povero amico si dava tutto quel poco che ancora poteva occorrergli, ma restai per qualche minuto a guardarlo. Avrei amato di sentirmi sgorgare dagli occhi una lacrima sincera di compianto per il poverino che tanto aveva lottato con la malattia fino a tentar di trovare un accordo con essa. - È doloroso! - dissi. La malattia per la quale esistevano tanti farmachi, l'aveva brutalmente ucciso. Pareva un'irrisione. Ma la mia lacrima mancò. La faccia emaciata del Copler non era mai apparsa tanto forte come nella rigidezza della morte. Pareva prodotta dallo scalpello in un marmo colorato e nessuno avrebbe potuto prevedere che vi sovrastasse imminente la putrefazione. Era tuttavia una vera vita che quella faccia manifestava: disapprovava sdegnosamente forse me, l'ammalato immaginario, o fors'anche Carla, che non voleva cantare. Trasalii un momento sembrandomi che il morto ricominciasse a rantolare. Subito ritornai alla mia calma di critico quando m'accorsi che quello che m'era sembrato un rantolo non era che l'ansare, aumentato dall'emozione, del pensionato.
Il quale poi m'accompagnò alla porta e mi pregò di raccomandarlo se avessi conosciuto chi avrebbe potuto aver bisogno di un quartierino come quello:
— Vede che anche in una circostanza simile ho saputo fare il mio dovere e anche più, molto di più!
Alzò per la prima volta la voce in cui echeggiò un risentimento ch'era senza dubbio destinato al povero Copler che gli aveva lasciato libero il quartiere senza il debito preavviso. Corsi via promettendo tutto quello che voleva.
Da mio suocero trovai che la compagnia s'era messa in quel momento a tavola. Mi domandarono delle notizie ed io, per non compromettere la gaiezza di quel convitto, dissi che il Copler viveva tuttavia e che c'era dunque ancora qualche speranza.
A me parve che quell'adunanza fosse ben triste. Forse tale impressione si fece in me alla vista di mio suocero condannato ad una minestrina e ad un bicchiere di latte, mentre attorno a lui tutti si caricavano dei cibi più prelibati. Aveva tutto il suo tempo libero, lui, e lo impiegava per guardare in bocca agli altri. Vedendo che il signor Francesco si dedicava attivamente all'antipasto, mormorò:
— E pensare che ha due anni più di me!
Poi, quando il signor Francesco giunse al terzo bicchierino di vino bianco, brontolò sottovoce:
— È il terzo! Che gli andasse in tanto fiele!
L'augurio non m'avrebbe disturbato se non avessi mangiato e bevuto anch'io a quel tavolo, e non avessi saputo che la medesima metamorfosi sarebbe stata augurata anche al vino che passava per la mia bocca. Perciò mi misi a mangiare e a bere di nascosto. Approfittavo di qualche momento in cui mio suocero ficcava il grosso naso nella tazza del latte o rispondeva a qualche parola che gli era stata rivolta, per inghiottire dei grossi bocconi o per tracannare dei grandi bicchieri di vino. Alberta, solo per il desiderio di far ridere la gente, avvisò Augusta ch'io bevevo troppo. Mia moglie, scherzosamente, mi minacciò coll'indice. Questo non fu male ma fu male perché così non valeva più la pena di mangiare di nascosto. Giovanni, che fino ad allora non s'era quasi ricordato di me, mi guardò sopra gli occhiali con un'occhiataccia di vero odio. Disse:
— Io non ho mai abusato di vino o di cibo. Chi ne abusa non è un vero uomo ma un... - e ripeté più volte l'ultima parola che non significava proprio un complimento.
Per l'effetto del vino, quella parola offensiva accompagnata da una risata generale, mi cacciò nell'animo un desiderio veramente irragionevole di vendetta. Attaccai mio suocero dal suo lato più debole: la sua malattia. Gridai che non era un vero uomo non chi abusava dei cibi ma colui che supinamente s'adattava alle prescrizioni del medico. Io, nel caso suo, sarei stato ben altrimenti indipendente. Alle nozze di mia figlia - se non altro per affetto - non avrei mica permesso che mi si impedisse di mangiare e di bere.
Giovanni osservò con ira:
— Vorrei vederti nei miei panni!
— E non ti basta di vedermi nei miei? lascio io forse di fumare?
Era la prima volta che mi riusciva di vantarmi della mia debolezza, e accesi subito una sigaretta per illustrare le mie parole. Tutti ridevano e raccontavano al signor Francesco come la mia vita fosse piena di ultime sigarette. Ma quella non era l'ultima e mi sentivo forte e combattivo. Però perdetti subito l'appoggio degli altri quando versai del vino a Giovanni nel suo grande bicchiere d'acqua. Avevano paura che Giovanni bevesse e urlavano per impedirglielo finché la signora Malfenti non poté afferrare e allontanare quel bicchiere.
— Proprio, vorresti uccidermi? - domandò mitemente Giovanni guardandomi con curiosità. - Hai il vino cattivo, tu! - Egli non aveva fatto un solo gesto per approfittare del vino che gli avevo offerto.
Mi sentii veramente avvilito e vinto. Mi sarei quasi gettato ai piedi di mio suocero per chiedergli perdono. Ma anche quello mi parve un suggerimento del vino e lo respinsi. Domandando perdono avrei confessata la mia colpa, mentre il banchetto continuava e sarebbe durato abbastanza per offrirmi l'opportunità di riparare a quel primo scherzo tanto mal riuscito. C'è tempo a tutto a questo mondo. Non tutti gli ubriachi sono preda immediata di ogni suggerimento del vino. Quando ho bevuto troppo, io analizzo i miei conati come quando sono sereno e probabilmente con lo stesso risultato. Continuai ad osservarmi per intendere come fossi arrivato a quel pensiero malvagio di danneggiare mio suocero. E m'accorsi d'essere stanco, mortalmente stanco. Se tutti avessero saputo quale giornata io avevo trascorsa, m'avrebbero scusato. Avevo presa e violentemente abbandonata per ben due volte una donna ed ero ritornato due volte a mia moglie per rinnegare anche lei per due volte. La mia fortuna fu che allora, per associazione, nel mio ricordo fece capolino quel cadavere su cui invano avevo tentato di piangere, e il pensiero alle due donne sparve; altrimenti avrei finito col parlare di Carla. Non avevo sempre il desiderio di confessarmi anche quando non ero reso più magnanimo dall'azione del vino? Finii col parlare del Copler. Volevo che tutti sapessero che quel giorno avevo perduto il mio grande amico. Avrebbero scusato il mio contegno.
Gridai che il Copler era morto, veramente morto e che fino ad allora ne avevo taciuto per non rattristarli. Guarda! Guarda! Ecco che finalmente sentii salirmi le lacrime agli occhi e dovetti volgere altrove lo sguardo per celarle.
Tutti risero perché non mi credettero e allora intervenne l'ostinazione ch'è proprio il carattere più evidente del vino. Descrissi il morto:
— Pareva scolpito da Michelangelo, così rigido, nella pietra più incorruttibile.
Ci fu un silenzio generale interrotto da Guido che esclamò:
— E adesso non senti più il bisogno di non rattristarci?
L'osservazione era giusta. Avevo mancato ad un proponimento che ricordavo! Non ci sarebbe stato il verso di riparare? Mi misi a ridere sgangheratamente:
— Ve l'ho fatta! È vivo e sta meglio.
Tutti mi guardavano per raccapezzarsi.
— Sta meglio, - soggiunsi seriamente - mi riconobbe e mi sorrise persino.
Tutti mi credettero, ma l'indignazione fu generale. Giovanni proclamò che se non avesse temuto di farsi del male sottoponendosi ad uno sforzo, m'avrebbe gettato un piatto sulla testa. Era infatti imperdonabile ch'io avessi turbata la festa con una simile notizia inventata. Se fosse stata vera non ci sarebbe stata colpa. Non avrei fatto meglio di dire loro di nuovo la verità? Il Copler era morto, e non appena fossi stato solo, avrei trovate le lacrime pronte per piangerlo, spontanee e abbondanti. Cercai le parole, ma la signora Malfenti, con quella sua gravità di gran signora m'interruppe:
— Lasciamo stare per ora quel povero malato. Ci penseremo domani!
Obbedii subito persino col pensiero che si staccò definitivamente dal morto: «Addio! Aspettami! Ritornerò a te subito dopo!».
Era venuta l'ora del brindisi. Giovanni aveva ottenuta la concessione dal medico di sorbire a quell'ora un bicchiere di champagne. Gravemente sorvegliò come gli versarono il vino, e rifiutò di portare il bicchiere alle labbra finché non fosse stato colmo. Dopo di aver fatto un augurio serio e disadorno ad Ada e a Guido, lo vuotò lentamente fino all'ultima goccia. Guardandomi biecamente mi disse che l'ultimo sorso l'aveva votato proprio alla mia salute. Per annullare l'augurio, che io sapevo non buono, con ambe le mani sotto la tovaglia feci le corna.
Il ricordo del resto della serata è per me un poco confuso. So che per iniziativa di Augusta, a quel tavolo, poco dopo si disse un mondo di bene di me citandomi quale un modello di marito. Mi fu perdonato tutto e persino mio suocero si fece più gentile. Soggiunse però che sperava che il marito di Ada si dimostrasse buono come me, ma anche nello stesso tempo un miglior negoziante e soprattutto una persona... e cercava la parola. Non la trovò e nessuno intorno a noi la reclamò; neppure il signor Francesco che per avermi visto per la prima volta quella stessa mattina, poco poteva conoscermi. Dal canto mio non mi offesi. Come mitiga il proprio animo il sentimento di avere dei grossi torti da riparare! Accettavo con grato animo tutte le insolenze a patto fossero accompagnate da quell'affetto che non meritavo. E nella mia mente, confusa dalla stanchezza e dal vino, sereno del tutto, accarezzai la mia immagine di buon marito che non diviene meno buono per essere adultero. Bisognava essere buoni, buoni, buoni, e il resto non importava. Mandai con la mano un bacio ad Augusta che lo accolse con un sorriso riconoscente.
Poi vi fu a quel tavolo chi volle approfittare della mia ebbrezza per ridere e fui costretto di dire un brindisi. Avevo finito con l'accettare perché in quel momento mi pareva che sarebbe stata una cosa decisiva di poter fare così in pubblico dei buoni propositi. Non che io dubitassi in quel momento di me, perché mi sentivo proprio quale ero stato descritto, ma sarei divenuto anche migliore quando avessi affermato un proposito dinanzi a tante persone che in certo modo l'avrebbero sottoscritto.
Ed è così che nel brindisi parlai solo di me e di Augusta. Feci per la seconda volta in quei giorni la storia del mio matrimonio. L'avevo falsificata per Carla tacendo del mio innamoramento per mia moglie; qui la falsificai altrimenti perché non parlai delle due persone tanto importanti nella storia del mio matrimonio, cioè Ada e Alberta. Raccontai le mie esitazioni di cui non sapevo consolarmi perché m'avevano derubato di tanto tempo di felicità. Poi, per cavalleria, attribuii anche ad Augusta delle esitazioni. Ma essa negò ridendo vivacemente.
Ritrovai il filo del discorso con qualche difficoltà. Raccontai come finalmente fossimo arrivati al viaggio di nozze e come avessimo fatto all'amore in tutti i musei d'Italia. Ero tanto bene immerso fino al collo nella menzogna che vi cacciai dentro anche quel dettaglio bugiardo che non serviva ad alcuno scopo. Eppoi si dice che nel vino ci sia la verità.