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Cristo si è fermato a Eboli - Carlo Levi, Parte 15

Parte 15

Di discorsi, in quei giorni, se ne sentivano molti, e don Luigino si affaccendava a convocare le sue adunate. Era ormai ottobre, le nostre truppe passavano il Mareb, la guerra d'Abissinia era cominciata. Popolo italiano, in piedi! e l'America si allontanava sempre più, nelle nebbie dell'Atlantico, come un'isola nel cielo, chissà per quanto tempo, forse per sempre.

Questa guerra non interessava i contadini. La radio tuonava, don Luigino adoperava tutte le ore di scuola che non passava a fumare sulla terrazza, concionando ad altissima voce (lo si sentiva dappertutto) ai ragazzi, e facendogli cantare «Faccetta nera, bella abissina», e raccontava a tutti, in piazza, che Marconi aveva scoperto dei raggi segreti, e che la flotta inglese sarebbe presto saltata tutta per aria. Dicevano anche, lui e l'altro maggiore maestro di scuola, il suo collega della radio, che quella guerra era fatta proprio per loro, per i contadini di Gagliano, che avrebbero avuto finalmente chissà quanta terra da coltivare, e una terra buona, che a seminarla la roba ci cresce da sola. Ahimè, i due maestri parlavano un po' troppo della grandezza di Roma perché i contadini potessero credere a tutto il resto. Scuotevano il capo diffidenti, silenziosi e rassegnati. Quelli di Roma volevano far la guerra, e l'avrebbero fatta fare a loro. Pazienza! Morire sopra un'amba abissina non è poi molto peggio che morire di malaria nel proprio campo, sulla riva del Sauro. Pare che gli studenti delle scuole, i ragazzi della Gil, i maestri e le maestre di scuola, le dame della Croce Rossa, le Madri e le Vedove dei caduti milanesi, le signore fiorentine, i droghieri, i negozianti, i pensionati, i giornalisti, i poliziotti, gli impiegati dei Ministeri di Roma, insomma tutto quello che si usa chiamare il Popolo italiano, fossero in quei giorni pervasi da un'onda beatificante di entusiasmo e di gloria. Io, a Gagliano, non ero in condizioni di constatarlo. I contadini erano più muti, tristi e cupi del solito. Di quella terra promessa, che bisognava prima togliere a quelli che l'avevano (e istintivamente pareva loro che questo non fosse giusto, e non dovesse portar bene) non si fidavano. Quelli di Roma non avevano l'abitudine di far qualcosa per loro. anche questa impresa, malgrado le chiacchiere, doveva avere qualche altro scopo, che non li riguardava. - Se quelli di Roma hanno denaro da spendere per la guerra, perché non aggiustano prima il ponte sull'Agri, che è caduto da quattro anni, e nessuno ci pensa a rifarlo? Potrebbero anche arginare il fiume, farci qualche nuova fontana, piantare degli alberi nei boschi invece di tagliare quei pochi che rimangono. Di terra ne abbiamo anche qui: è tutto il resto che ci manca -. Perciò pensavano alla guerra come a una delle solite disgrazie inevitabili, come alle imposte o alla tassa delle capre. Non avevano paura di dover partire soldati. - Vivere qui come cani, - dicevano, - o morire come cani laggiù, è la stessa cosa -. Ma nessuno, tranne il marito di donna Caterina, si presentò volontario. Del resto, si capì presto che non soltanto gli scopi, ma anche la condotta della guerra riguardava quell'altra Italia, di là dai monti, e aveva poco a che fare con i contadini. I richiamati erano pochi, due o tre in tutto il paese, più qualche soldato di leva, e un giovanotto, don Nicola, figlio di un prete, allevato dai frati di Melfi, e sottufficiale di carriera, che aveva dovuto partire tra i primi. Qualcuno dei più miserabili, dei contadini senza terra che non avevano nulla da mangiare, allettati dai discorsi di don Luigino e dalla promessa di alti salari, avevano chiesto di andare come operai: ma le loro domande rimasero sempre senza risposta. - Non sanno che farsene di noi, - mi dicevano questi poveri cafoni. - Non ci vogliono nemmeno a lavorare. La guerra è fatta per quelli del nord. Noi dobbiamo crepare di fame in casa nostra. E in America non ci si andrà mai più.

Il 3 ottobre fu dunque una giornata squallida. All'adunata in piazza, una ventina di contadini, racimolati a fatica dai carabinieri e dagli avanguardisti del podestà, ascoltavano imbambolati le parole storiche della radio. Don Luigino aveva fatto imbandierare il municipio, la scuola, le case dei signori: le bandiere tricolori ondeggiavano al vento, nel sole, frammischiate, coi loro colori stranamente vivaci, ai funebri stendardi neri delle case dei contadini. Fecero suonare anche le campane, che il campanaro intonò, al solito, sulla sua lugubre aria di morte. La guerra allegra incominciò, in quella indifferente tristezza. Don Luigino venne al balcone del municipio, e parlò. Disse della grandezza immortale di Roma, dei sette colli, della lupa, delle legioni romane, della civiltà di Roma, dell'Impero di Roma che si sarebbe rinnovato. Disse che tutti ci odiavano per la nostra grandezza, ma che i nemici di Roma avrebbero morso la polvere, e che noi avremmo ripercorso in trionfo le vie consolari di Roma, perché Roma era eterna, invincibile. Disse ancora, con la sua vocetta acuta, molte altre cose di Roma, che non ricordo: poi aprì la bocca e si mise a cantare «Giovinezza», facendo cenni imperiosi con le mani ai ragazzi della scuola, perché, dalla piazza, lo accompagnassero in coro. Attorno a lui, sul balcone, c'era il brigadiere e i signori, e cantavano tutti, tranne il dottor Milillo che non era d'accordo. In basso, contro il muro, quei pochi contadini ascoltavano in silenzio, parandosi il sole, che batteva loro negli occhi, con la mano, foschi e neri come uccelli notturni. Vicino al podestà, di fianco al balcone, sul muro della facciata del municipio, spiccava bianca la lapide di marmo con i nomi dei morti della grande guerra. Erano molti, per un paese così piccolo: quasi una cinquantina: c'erano tutti i nomi delle famiglie gaglianesi, i Rubilotto, i Carbone, i Guarini, i Bonelli, i Carnovale, i Racioppi, i Guerrini, non ne mancava nessuno. Di certo, o direttamente, o attraverso i fratel- cugini o i compari di San Giovanni, nessuna casa era stata senza un morto; e più erano i feriti, i malati, e quelli che avevano combattuto e se l'erano cavata senza danno. Perché, nelle mie conversazioni con i contadini, nessuno me ne parlava mai, né mai si faceva cenno a quella guerra, né alle imprese allora compiute, né ai paesi visti, né alle fatiche sofferte? Il solo che me ne aveva detto qualcosa era il barbiere-cavadenti; e ne aveva accennato soltanto per mostrarmi come e dove avesse imparato la sua arte, quando faceva il portaferiti sul Carso. Anche la grande guerra, così sanguinosa e ancora così vicina, non interessava i contadini: l'avevano subita, e ora era come l'avessero dimenticata. Nessuno usava vantare le proprie glorie, raccontare ai propri figli le battaglie combattute, mostrare le ferite o lagnarsi dei patimenti. Se io li interrogavo, rispondevano brevi e indifferenti. Era stata una grande disgrazia, si era sopportata come le altre. Anche quella era stata una guerra di Roma. Anche allora si seguivano i tre colori, che qui sembrano strani, i colori araldici di un'altra Italia, incomprensibile, volontaria e violenta, quel rosso allegramente sfacciato e quel verde così assurdo quaggiù, dove anche gli alberi sono grigi, e l'erba non cresce sulle argille. Quei colori, e tutti gli altri, sono imprese nobiliari, stanno bene sugli scudi dei signori, o sui gonfaloni delle città. Che cosa hanno a che fare con quelli i contadini? Il loro colore è uno solo, quello stesso dei loro occhi tristi e dei loro vestiti, e non è un colore, ma è l'oscurità della terra e della morte. Neri sono i loro stendardi, come la faccia della Madonna. Le altre bandiere sono i colori variopinti di quell'altra civiltà, spinta al moto e alla conquista, sulle vie della Storia; e di cui essi non fanno parte. Ma poiché essa è più forte, e organizzata, e potente, essi devono subirla: oggi si moriva, non per noi, in Abissinia, come ieri sull'Isonzo o sul Piave, come prima, per secoli e secoli, dietro i più vari colori, in tutte le terre del mondo. Andavo leggendo, in quei giorni, una vecchia storia di Melfi, del Del Zio, trovata frugando tra vecchi libri nella casa del dottor Milillo, dove andavo quasi ogni giorno a prendere il caffè, e a chiacchierare con Margherita e Maria, le due ragazze, sempre più baffute, ingenue e spiritate. Il libro è della seconda metà del secolo scorso, e vi si racconta, fra le glorie locali, che viveva ancora in quegli anni, a Melfi, un vecchio contadino con una gamba di legno. Era stato arruolato nell'esercito di Napoleone, e aveva perduta la sua gamba al passaggio della Beresina. Per più di mezzo secolo, il contadino zoppicò sui selciati di Melfi, portando su di sé, per i suoi concittadini, l'assurdo segno di una civiltà, che l'aveva marcato per sempre, e che egli ignorava. Che cosa importava a un contadino di Melfi della Russia e dell'imperatore dei francesi? La Storia, avrebbe detto baroccamente Victor Hugo, gli aveva preso una gamba, ed egli non sapeva neppure che cosa essa fosse. La Storia, del resto, questa Storia altrui a cui questi paesi si sono sempre dovuti rassegnare, aveva lasciato ai concittadini dello zoppo dei segni anche peggiori: poiché la rovina di Melfi, che era una città fiorente e popolosa, fu dovuta al fatto che un capitano francese, in guerra con gli spagnoli di Carlo V su per quelle montagne, decise a caso di serrarvicisi dentro con le sue soldatesche. Gli spagnoli di Pietro Navarro, agli ordini del Lautrec, assediarono Melfi, la presero, ammazzarono tutti i cittadini che trovarono, e che non sapevano neppure che cosa fossero Francia e Spagna, Francesco I e Carlo V, rasero al suolo le case, e regalarono quel poco che rimaneva a Filippo d'Orange, e poco dopo, in compenso delle sue vittorie marinare, al genovese Andrea Doria, che essi conoscevano ancora meno. Il genovese non si scomodò mai a visitare i suoi vassalli, e così fecero i suoi eredi, limitandosi a mandare degli esattori che ne cavassero tutto il denaro possibile. Così, per gli imperscrutabili voleri di una Storia che non li riguardava, i contadini di Melfi caddero, per tutti i secoli che seguirono, nella più nera miseria. Quanta gente, mossa da motivi ignoti, è passata, come i francesi e gli spagnoli, su queste terre? È ben naturale che i contadini dopo migliaia di anni di ripetute, uguali esperienze, non si entusiasmino delle guerre, diffidino di tutte le bandiere, lascino, in silenzio, che don Luigino canti, dal balcone, le glorie di Roma.

Gli Stati, le Teocrazie, gli Eserciti organizzati sono naturalmente più forti del popolo sparso dei contadini: questi devono perciò rassegnarsi ad essere dominati: ma non possono sentire come proprie le glorie e le imprese di quella civiltà, a loro radicalmente nemica. Le sole guerre che tocchino il loro cuore sono quelle che essi hanno combattuto per difendersi contro quella civiltà, contro la Storia, e gli Stati, e la Teocrazia e gli Eserciti. Sono le guerre combattute sotto i loro neri stendardi, senz'ordine militare, senz'arte e senza speranza: guerre infelici e destinate sempre ad essere perdute; feroci e disperate, e incomprensibili agli storici. 1 contadini di Gagliano non si appassionavano alla conquista dell'Abissinia, non si ricordavano più della guerra mondiale e non parlavano dei suoi morti: ma una guerra era in cima ai cuori di tutti, e su tutte le bocche, trasformata già in leggenda, in fiaba, in racconto epico, in mito: il brigantaggio. La guerra dei briganti è praticamente finita nel 1865; erano dunque passati settant'anni, e soltanto pochi vecchissimi potevano esserci stati, partecipi o testimoni, e in grado di ricordare personalmente quelle imprese. Ma tutti, vecchi e giovani, uomini e donne, ne parlavano come di cosa di ieri, con una passione presente e viva. Quando conversavo con i contadini, potevo esser certo che, qualunque fosse l'argomento del discorso, saremmo presto scivolati, in qualche modo, a parlare dei briganti. Tutto li ricorda: non c'è monte, burrone, bosco, pietra, fontana o grotta, che non sia legata a qualche loro impresa memorabile, o che non abbia servito di rifugio o di nascondiglio; non c'è luogo nascosto che non gli servisse di ritrovo; non c'è cappelletta in campagna dove non lasciassero le loro lettere minatorie e non aspettassero i riscatti. I luoghi, come la Fossa del Bersagliere, hanno preso nome da loro o dai loro fatti. Non c'è famiglia che non abbia parteggiato, allora, per i briganti o contro i briganti; che non abbia avuto qualcuno, con loro, alla macchia, che non ne abbia ospitato o nascosto, o che non abbia avuto qualche parente massacrato o qualche raccolto incendiato da loro. A quel tempo risalgono gli odi che dividono il paese, tramandati per le generazioni, e sempre attuali. Ma, salvo poche eccezioni, i contadini erano tutti dalla parte dei briganti, e, col passare del tempo, quelle gesta che avevano così vivamente colpito le loro fantasie, si sono indissolubilmente legate agli aspetti familiari del paese, sono entrate nel discorso quotidiano, con la stessa naturalezza degli animali e degli spiriti, sono cresciute nella leggenda e hanno assunto la verità certa del mito. Non intendo, qui, fare un elogio del brigantaggio, come pare che sia diventato di moda, da qualche tempo, da parte di letterati estetizzanti, o di politici in malafede. Giudicato da un punto di vista storico, nel complesso del Risorgimento italiano, il brigantaggio non può essere difeso. Da un punto di vista liberale e «progressista», quello appare l'ultimo sussulto del passato, che andava spietatamente stroncato, un movimento funesto e feroce, nemico dell'unità, della libertà e della vita civile. E lo fu realmente, nella sua realtà di guerra fomentata e alimentata dai Borboni, dalla Spagna, e dal Papa, per i loro particolari motivi. Ma il brigantaggio dei contadini è un altro: a guardarlo da quel punto di vista non solo non si può giustificarlo, ma non si riesce nemmeno ad intenderlo. Del resto, neanche i contadini lo giudicano e lo difendono, e quando ne parlano con tanta passione, non se ne gloriano. I suoi motivi storici, e gli interessi dei Borboni e del Papa o dei feudatari, essi non li conoscono. Anche per loro, quella è una storia triste, desolata e raccapricciante. Soltanto, sta ad essi nel cuore; fa parte della loro vita, è il fondo poetico della loro fantasia, è la loro cupa, disperata, nera epopea. Anche il loro aspetto, oggi, richiama l'immagine antica del brigante: oscuri, chiusi, solitari, aggrondati, col cappello nero e il vestito nero, e, d'inverno, il mantello; sempre armati, quando vanno nei campi, con il fucile e la scure. Il loro cuore è mite, e l'animo paziente. Secoli di rassegnazione pesano sulle loro schiene, e il senso della vanità delle cose, e della potenza del destino. Ma quando, dopo infinite sopportazioni, si tocca il fondo del loro essere, e si muove un senso elementare di giustizia e di difesa, allora la loro rivolta è senza limiti, e non può conoscere misura. È una rivolta disumana, che parte dalla morte e non conosce che la morte, dove la ferocia nasce dalla disperazione. I briganti difendevano, senza ragione e senza speranza, la libertà e la vita dei contadini, contro lo Stato, contro tutti gli Stati. Per loro sventura si trovarono ad essere inconsapevoli strumenti di quella Storia che si svolgeva fuori di loro, contro di loro; a difendere la causa cattiva, e furono sterminati. Ma, col brigantaggio, la civiltà contadina difendeva la propria natura, contro quell'altra civiltà che le sta contro e che, senza comprenderla, eternamente la assoggetta: perciò, istintivamente, i contadini vedono nei briganti i loro eroi. La civiltà contadina è una civiltà senza Stato, e senza esercito: le sue guerre non possono essere che questi scoppi di rivolta; e sono sempre, per forza, delle disperate sconfitte; ma essa continua tuttavia, eternamente, la sua vita, e dà ai vincitori i frutti della terra, ed impone le sue misure, i suoi dèi terrestri, e il suo linguaggio.

Parlavo con i contadini, e ne guardavo i visi, e le forme: piccoli, neri, con le teste rotonde, i grandi occhi e le labbra sottili, nel loro aspetto arcaico essi non avevano nulla dei romani, né dei greci, né degli etruschi, né dei normanni, né degli altri popoli conquistatori passati sulla loro terra, ma mi ricordavano le figure italiche antichissime. Pensavo che la loro vita, nelle identiche forme di oggi, si svolgeva uguale nei tempi più remoti, e che tutta la storia era passata su di loro senza toccarli. Delle due Italie che vivono insieme sulla stessa terra, questa dei contadini è certamente quella più antica, che non si sa donde sia venuta, che forse c'è stata sempre. Humilemque vidimus Italiam: questa era l'umile Italia, come appariva ai conquistatori asiatici, quando sulle navi di Enea doppiavano il capo di Calabria. E pensavo che si dovrebbe scrivere una storia di questa Italia, se è possibile scrivere una storia di quello che non si svolge nel tempo: la sola storia di quello che è eterno e immutabile, una mitologia. Questa Italia si è svolta nel suo nero silenzio, come la terra, in un susseguirsi di stagioni uguali e di uguali sventure, e quello che di esterno è passato su di lei, non ha lasciato traccia, e non conta. Soltanto alcune volte essa si è levata per difendersi da un pericolo mortale, e queste sole, e naturalmente fallite, sono le sue guerre nazionali. La prima di esse è quella di Enea. Una storia mitologica deve avere delle fonti mitologiche; e in questo senso, Virgilio è un grande storico. I conquistatori fenici, che venivano da Troia, portavano con sé tutti i valori opposti a quelli della antica civiltà contadina. Portavano la religione e lo Stato, e la religione dello Stato. La pietas di Enea non poteva essere capita dagli antichi italiani, che vivevano nei campi con gli animali. E portavano l'esercito, le armi, gli scudi, l'araldica e la guerra. La loro religione era feroce, comportava i sacrifici umani: sulla pira di Pallante, il pio Enea sgozza i prigionieri, come sacrificio ai suoi dèi dello Stato. Ma quegli italiani antichissimi invece, erano contadini, senza religione e senza sacrificio. Quando i troiani furono in Italia, trovarono dunque una irreducibile ostilità negli abitanti della terra, derivante dalla assoluta differenza di civiltà. E difatti, Enea si trovò degli alleati nelle sole popolazioni non contadine, negli etruschi, anch'essi venuti, come lui, dall'oriente, anch'essi forse, come lui, semitici, e anch'essi retti a teocrazia militare. E, con l'aiuto di questi alleati, cominciò la guerra. Da un lato c'era un esercito, con armi splendenti forgiate dagli dèi; dall'altro, come le descrive Virgilio, c'erano delle bande di contadini, a cui nessun dio aveva dato delle armi, ma che impugnavano a propria difesa le scuri, le falci e i coltelli del loro lavoro quotidiano. Erano anch'essi dei briganti, pieni di valore, e, ahimè, non potevano vincere. L'Italia fu assoggettata, quell'umile Italia per cui morì la vergine Cammilla Eurialo e Turno e Niso di ferute.

Poi venne Roma, e perfezionò la teocrazia statale e militare dei suoi fondatori troiani, che, vincitori, avevano però dovuto accogliere la lingua e il costume dei vinti. E Roma si urtò anch'essa nella difesa contadina, e la lunga serie delle guerre italiche fu il piú duro ostacolo al suo cammino. Anche qui gli italiani dovevano militarmente perdere, ma salvarono tuttavia la loro natura, e non si mescolarono ai vincitori. Dopo questa seconda guerra nazionale, la civiltà contadina, chiusa nell'ordine romano, restò come addormentata nella sua pazienza. La civiltà feudale che, col passare di secoli, di eventi e di genti diverse, seguì, non era certo una civiltà di contadini: ma tuttavia era legata alla terra, ai confini del feudo, e perciò meno contraddittoria al non-Stato rurale. Si può dunque capire perché gli Svevi siano ancora oggi così popolari presso i contadini, che parlano di Corradino come di un loro eroe nazionale, e ne piangono la morte. Certo, dopo la sua caduta, questa terra, che allora fioriva, entrò nella più triste rovina.

La quarta guerra nazionale dei contadini è il brigantaggio. Anche qui, l'umile Italia storicamente aveva torto, e doveva perdere. Non aveva armi forgiate da Vulcano, né cannoni, come l'altra Italia. E non aveva dèi: che cosa poteva fare una povera Madonna dal viso nero contro lo Stato Etico degli hegeliani di Napoli? Il brigantaggio non è che un accesso di eroica follia, e di ferocia disperata: un desiderio di morte e di distruzione, senza speranza di vittoria. - Vorrei che il mondo avesse un solo cuore; glielo strapperei, - disse un giorno Caruso, uno dei più tremendi capibanda.

Questo desiderio cieco di distruzione, questa volontà di annichilimento, sanguinosa e suicida, cova per secoli sotto la mite pazienza della fatica quotidiana. Ogni rivolta contadina prende questa forma, sorge da una volontà elementare di giustizia, nascendo dal nero lago del cuore. Dopo il, brigantaggio, queste terre hanno ritrovato una loro funebre pace; ma ogni tanto, in qualche paese, i contadini, che non possono trovare nessuna espressione nello Stato, e nessuna difesa nelle leggi, si levano per la morte, bruciano il municipio o la caserma dei carabinieri, uccidono i signori, e poi partono, rassegnati, per le prigioni.

Di veri briganti, di quelli del '60, non ce n'è quasi più. Uno ne vive, mi raccontò la Giulia, qui vicino, a Missanello. È un vecchio di novant'anni, con una gran barba bianca, ed è un santo. Era stato un temuto capo di bande. Ora vive nel paese, onorato dai contadini come un patriarca; si ricorre a lui per consigli in tutti i casi difficili della vita. Mi dispiace di non essere mai potuto andare a conoscerlo. Un altro lo incontrai un giorno a Grassano. Ero nella bottega di Antonino Roselli, il mio segretario-barbiere-flautista, e mi facevo radere, quando entrò un vecchio robusto dal viso colorito, dai grossi baffi bianchi e dal portamento fiero, dagli arditi occhi azzurri, vestito di velluto alla cacciatora: non l'avevo mai visto in paese. Rimase, aspettando il suo turno, a fumare la pipa, e mi chiese chi ero. - Un esiliato? - mi disse anche lui, come gli altri, quando gli ebbi risposto. - A Roma non ti vogliono bene -. Gli chiesi quanti anni avesse: - Molti, - mi disse, - ero giovane al tempo dei briganti. Avevo quindici anni, quando, con mio fratello, ammazzammo il carabiniere. Hai visto quella quercia vecchia, che è sulla strada, un duecento metri prima di arrivare in paese? Fu là che lo incontrammo, e voleva fermarci, e fummo costretti a ucciderlo. Il corpo lo nascondemmo nel fosso: ma lo trovarono presto. Mio fratello lo presero subito, e morì qualche anno dopo, nelle carceri di Napoli. Io mi nascosi in paese. Rimasi, vestito da donna, per, sette mesi, proprio qui, nella stanza che è sopra questa bottega di Antonino. Poi, mi scoprirono: ma, siccome ero così giovane, me la cavai con quattro anni -. Il vecchio brigante era contento e in pace con se stesso: quell'antico omicidio non gli pesava sulla coscienza, lo raccontava come un'azione inevitabile e naturale. Era la guerra.

- Vede quel signore che passa ora sulla strada? - mi diceva il barbiere, mostrandomelo attraverso la porta aperta. - È don Pasquale, un proprietario. Suo nonno aveva una grossa masseria, e quando vennero i briganti, non volle dar nulla, né grano né bestie. I briganti allora gli bruciarono la casa in campagna; e lui, peggio, si mise con i carabinieri a far la posta. Allora i briganti lo presero, e mandarono a dire a sua moglie che, se lo rivoleva, doveva pagare la taglia, cinquemila lire, entro due giorni. La famiglia non voleva tirar fuori il denaro, speravano di farlo liberare dai soldati. Il terzo giorno, arriva alla moglie una busta. Dentro c'era un orecchio di suo marito.

I briganti tagliavano le orecchie, il naso e la lingua dei signori, per farsi pagare i riscatti. I soldati tagliavano la testa ai briganti che riuscivano ad acciuffare, e le attaccavano su dei pali, nei paesi, perché servissero di esempio. Così continuava questa guerra di distruzione. Il terreno su questi monti d'argilla, è tutto scavato di buche e di grotte naturali. Qui si riparavano i briganti e qui, negli alberi cavi delle foreste, nascondevano i denari delle taglie e quelli rapinati nelle case dei ricchi. Quando le bande furono disperse, e i briganti tutti uccisi o imprigionati, quei tesori nascosti rimasero nella terra e nei boschi. Questo è uno dei punti dove la storia dei briganti diventa leggenda, e si lega a credenze antichissime. I briganti misero dei tesori reali dove la fantasia contadina aveva sempre favoleggiato la loro esistenza: così i briganti divennero tutt'uno con le oscure potenze sotterranee.

Parte 15 Part 15

Di discorsi, in quei giorni, se ne sentivano molti, e don Luigino si affaccendava a convocare le sue adunate. In those days, there were many speeches, and Don Luigino was busy gathering his meetings together. Era ormai ottobre, le nostre truppe passavano il Mareb, la guerra d’Abissinia era cominciata. Popolo italiano, in piedi! e l’America si allontanava sempre più, nelle nebbie dell’Atlantico, come un’isola nel cielo, chissà per quanto tempo, forse per sempre.

Questa guerra non interessava i contadini. La radio tuonava, don Luigino adoperava tutte le ore di scuola che non passava a fumare sulla terrazza, concionando ad altissima voce (lo si sentiva dappertutto) ai ragazzi, e facendogli cantare «Faccetta nera, bella abissina», e raccontava a tutti, in piazza, che Marconi aveva scoperto dei raggi segreti, e che la flotta inglese sarebbe presto saltata tutta per aria. Dicevano anche, lui e l’altro maggiore maestro di scuola, il suo collega della radio, che quella guerra era fatta proprio per loro, per i contadini di Gagliano, che avrebbero avuto finalmente chissà quanta terra da coltivare, e una terra buona, che a seminarla la roba ci cresce da sola. Ahimè, i due maestri parlavano un po' troppo della grandezza di Roma perché i contadini potessero credere a tutto il resto. Scuotevano il capo diffidenti, silenziosi e rassegnati. Quelli di Roma volevano far la guerra, e l’avrebbero fatta fare a loro. Pazienza! Morire sopra un’amba abissina non è poi molto peggio che morire di malaria nel proprio campo, sulla riva del Sauro. Pare che gli studenti delle scuole, i ragazzi della Gil, i maestri e le maestre di scuola, le dame della Croce Rossa, le Madri e le Vedove dei caduti milanesi, le signore fiorentine, i droghieri, i negozianti, i pensionati, i giornalisti, i poliziotti, gli impiegati dei Ministeri di Roma, insomma tutto quello che si usa chiamare il Popolo italiano, fossero in quei giorni pervasi da un’onda beatificante di entusiasmo e di gloria. Io, a Gagliano, non ero in condizioni di constatarlo. I contadini erano più muti, tristi e cupi del solito. Di quella terra promessa, che bisognava prima togliere a quelli che l’avevano (e istintivamente pareva loro che questo non fosse giusto, e non dovesse portar bene) non si fidavano. Quelli di Roma non avevano l’abitudine di far qualcosa per loro. anche questa impresa, malgrado le chiacchiere, doveva avere qualche altro scopo, che non li riguardava. - Se quelli di Roma hanno denaro da spendere per la guerra, perché non aggiustano prima il ponte sull’Agri, che è caduto da quattro anni, e nessuno ci pensa a rifarlo? Potrebbero anche arginare il fiume, farci qualche nuova fontana, piantare degli alberi nei boschi invece di tagliare quei pochi che rimangono. Di terra ne abbiamo anche qui: è tutto il resto che ci manca -. Perciò pensavano alla guerra come a una delle solite disgrazie inevitabili, come alle imposte o alla tassa delle capre. Non avevano paura di dover partire soldati. - Vivere qui come cani, - dicevano, - o morire come cani laggiù, è la stessa cosa -. Ma nessuno, tranne il marito di donna Caterina, si presentò volontario. Del resto, si capì presto che non soltanto gli scopi, ma anche la condotta della guerra riguardava quell’altra Italia, di là dai monti, e aveva poco a che fare con i contadini. Moreover, it soon became clear that not only the aims but also the conduct of the war concerned that other Italy, beyond the mountains, and had little to do with the peasants. I richiamati erano pochi, due o tre in tutto il paese, più qualche soldato di leva, e un giovanotto, don Nicola, figlio di un prete, allevato dai frati di Melfi, e sottufficiale di carriera, che aveva dovuto partire tra i primi. Qualcuno dei più miserabili, dei contadini senza terra che non avevano nulla da mangiare, allettati dai discorsi di don Luigino e dalla promessa di alti salari, avevano chiesto di andare come operai: ma le loro domande rimasero sempre senza risposta. - Non sanno che farsene di noi, - mi dicevano questi poveri cafoni. - Non ci vogliono nemmeno a lavorare. La guerra è fatta per quelli del nord. Noi dobbiamo crepare di fame in casa nostra. E in America non ci si andrà mai più.

Il 3 ottobre fu dunque una giornata squallida. All’adunata in piazza, una ventina di contadini, racimolati a fatica dai carabinieri e dagli avanguardisti del podestà, ascoltavano imbambolati le parole storiche della radio. Don Luigino aveva fatto imbandierare il municipio, la scuola, le case dei signori: le bandiere tricolori ondeggiavano al vento, nel sole, frammischiate, coi loro colori stranamente vivaci, ai funebri stendardi neri delle case dei contadini. Fecero suonare anche le campane, che il campanaro intonò, al solito, sulla sua lugubre aria di morte. La guerra allegra incominciò, in quella indifferente tristezza. Don Luigino venne al balcone del municipio, e parlò. Disse della grandezza immortale di Roma, dei sette colli, della lupa, delle legioni romane, della civiltà di Roma, dell’Impero di Roma che si sarebbe rinnovato. Disse che tutti ci odiavano per la nostra grandezza, ma che i nemici di Roma avrebbero morso la polvere, e che noi avremmo ripercorso in trionfo le vie consolari di Roma, perché Roma era eterna, invincibile. Disse ancora, con la sua vocetta acuta, molte altre cose di Roma, che non ricordo: poi aprì la bocca e si mise a cantare «Giovinezza», facendo cenni imperiosi con le mani ai ragazzi della scuola, perché, dalla piazza, lo accompagnassero in coro. Attorno a lui, sul balcone, c’era il brigadiere e i signori, e cantavano tutti, tranne il dottor Milillo che non era d’accordo. In basso, contro il muro, quei pochi contadini ascoltavano in silenzio, parandosi il sole, che batteva loro negli occhi, con la mano, foschi e neri come uccelli notturni. Vicino al podestà, di fianco al balcone, sul muro della facciata del municipio, spiccava bianca la lapide di marmo con i nomi dei morti della grande guerra. Erano molti, per un paese così piccolo: quasi una cinquantina: c’erano tutti i nomi delle famiglie gaglianesi, i Rubilotto, i Carbone, i Guarini, i Bonelli, i Carnovale, i Racioppi, i Guerrini, non ne mancava nessuno. Di certo, o direttamente, o attraverso i fratel- cugini o i compari di San Giovanni, nessuna casa era stata senza un morto; e più erano i feriti, i malati, e quelli che avevano combattuto e se l’erano cavata senza danno. Certainly, either directly, or through the cousins or the cronies of San Giovanni, no house had been without a dead man; and more were the wounded, the sick, and those who had fought and escaped without injury. Perché, nelle mie conversazioni con i contadini, nessuno me ne parlava mai, né mai si faceva cenno a quella guerra, né alle imprese allora compiute, né ai paesi visti, né alle fatiche sofferte? Why, in my conversations with the peasants, no one ever spoke to me about it, nor was there ever a mention of that war, or of the companies accomplished then, or of the countries visited, or of the hardships endured? Il solo che me ne aveva detto qualcosa era il barbiere-cavadenti; e ne aveva accennato soltanto per mostrarmi come e dove avesse imparato la sua arte, quando faceva il portaferiti sul Carso. Anche la grande guerra, così sanguinosa e ancora così vicina, non interessava i contadini: l’avevano subita, e ora era come l’avessero dimenticata. Nessuno usava vantare le proprie glorie, raccontare ai propri figli le battaglie combattute, mostrare le ferite o lagnarsi dei patimenti. Se io li interrogavo, rispondevano brevi e indifferenti. Era stata una grande disgrazia, si era sopportata come le altre. Anche quella era stata una guerra di Roma. Anche allora si seguivano i tre colori, che qui sembrano strani, i colori araldici di un’altra Italia, incomprensibile, volontaria e violenta, quel rosso allegramente sfacciato e quel verde così assurdo quaggiù, dove anche gli alberi sono grigi, e l’erba non cresce sulle argille. Quei colori, e tutti gli altri, sono imprese nobiliari, stanno bene sugli scudi dei signori, o sui gonfaloni delle città. Che cosa hanno a che fare con quelli i contadini? Il loro colore è uno solo, quello stesso dei loro occhi tristi e dei loro vestiti, e non è un colore, ma è l’oscurità della terra e della morte. Neri sono i loro stendardi, come la faccia della Madonna. Le altre bandiere sono i colori variopinti di quell’altra civiltà, spinta al moto e alla conquista, sulle vie della Storia; e di cui essi non fanno parte. Ma poiché essa è più forte, e organizzata, e potente, essi devono subirla: oggi si moriva, non per noi, in Abissinia, come ieri sull’Isonzo o sul Piave, come prima, per secoli e secoli, dietro i più vari colori, in tutte le terre del mondo. But since it is stronger, and more organized, and more powerful, they must submit to it: today people died, not for us, in Abyssinia, as yesterday on the Isonzo or on the Piave, as before, for centuries and centuries, behind the most varied colors , in all lands of the world. Andavo leggendo, in quei giorni, una vecchia storia di Melfi, del Del Zio, trovata frugando tra vecchi libri nella casa del dottor Milillo, dove andavo quasi ogni giorno a prendere il caffè, e a chiacchierare con Margherita e Maria, le due ragazze, sempre più baffute, ingenue e spiritate. Il libro è della seconda metà del secolo scorso, e vi si racconta, fra le glorie locali, che viveva ancora in quegli anni, a Melfi, un vecchio contadino con una gamba di legno. Era stato arruolato nell’esercito di Napoleone, e aveva perduta la sua gamba al passaggio della Beresina. Per più di mezzo secolo, il contadino zoppicò sui selciati di Melfi, portando su di sé, per i suoi concittadini, l’assurdo segno di una civiltà, che l’aveva marcato per sempre, e che egli ignorava. For more than half a century, the peasant limped on the cobblestones of Melfi, carrying on himself, for his fellow citizens, the absurd sign of a civilization, which had marked him forever, and which he ignored. Che cosa importava a un contadino di Melfi della Russia e dell’imperatore dei francesi? What did a peasant from Melfi care about Russia and the French emperor? La Storia, avrebbe detto baroccamente Victor Hugo, gli aveva preso una gamba, ed egli non sapeva neppure che cosa essa fosse. History, Victor Hugo would have said baroquely, had taken his leg, and he didn't even know what it was. La Storia, del resto, questa Storia altrui a cui questi paesi si sono sempre dovuti rassegnare, aveva lasciato ai concittadini dello zoppo dei segni anche peggiori: poiché la rovina di Melfi, che era una città fiorente e popolosa, fu dovuta al fatto che un capitano francese, in guerra con gli spagnoli di Carlo V su per quelle montagne, decise a caso di serrarvicisi dentro con le sue soldatesche. History, after all, this history of others to which these towns have always had to resign themselves, had left even worse marks on the lame's fellow citizens: since the ruin of Melfi, which was a thriving and populous city, was due to the fact that a French captain, at war with Charles V's Spaniards up those mountains, decided by chance to lock himself in with his troops. Gli spagnoli di Pietro Navarro, agli ordini del Lautrec, assediarono Melfi, la presero, ammazzarono tutti i cittadini che trovarono, e che non sapevano neppure che cosa fossero Francia e Spagna, Francesco I e Carlo V, rasero al suolo le case, e regalarono quel poco che rimaneva a Filippo d’Orange, e poco dopo, in compenso delle sue vittorie marinare, al genovese Andrea Doria, che essi conoscevano ancora meno. Il genovese non si scomodò mai a visitare i suoi vassalli, e così fecero i suoi eredi, limitandosi a mandare degli esattori che ne cavassero tutto il denaro possibile. Così, per gli imperscrutabili voleri di una Storia che non li riguardava, i contadini di Melfi caddero, per tutti i secoli che seguirono, nella più nera miseria. Quanta gente, mossa da motivi ignoti, è passata, come i francesi e gli spagnoli, su queste terre? È ben naturale che i contadini dopo migliaia di anni di ripetute, uguali esperienze, non si entusiasmino delle guerre, diffidino di tutte le bandiere, lascino, in silenzio, che don Luigino canti, dal balcone, le glorie di Roma.

Gli Stati, le Teocrazie, gli Eserciti organizzati sono naturalmente più forti del popolo sparso dei contadini: questi devono perciò rassegnarsi ad essere dominati: ma non possono sentire come proprie le glorie e le imprese di quella civiltà, a loro radicalmente nemica. Le sole guerre che tocchino il loro cuore sono quelle che essi hanno combattuto per difendersi contro quella civiltà, contro la Storia, e gli Stati, e la Teocrazia e gli Eserciti. Sono le guerre combattute sotto i loro neri stendardi, senz’ordine militare, senz’arte e senza speranza: guerre infelici e destinate sempre ad essere perdute; feroci e disperate, e incomprensibili agli storici. 1 contadini di Gagliano non si appassionavano alla conquista dell’Abissinia, non si ricordavano più della guerra mondiale e non parlavano dei suoi morti: ma una guerra era in cima ai cuori di tutti, e su tutte le bocche, trasformata già in leggenda, in fiaba, in racconto epico, in mito: il brigantaggio. La guerra dei briganti è praticamente finita nel 1865; erano dunque passati settant’anni, e soltanto pochi vecchissimi potevano esserci stati, partecipi o testimoni, e in grado di ricordare personalmente quelle imprese. Ma tutti, vecchi e giovani, uomini e donne, ne parlavano come di cosa di ieri, con una passione presente e viva. Quando conversavo con i contadini, potevo esser certo che, qualunque fosse l’argomento del discorso, saremmo presto scivolati, in qualche modo, a parlare dei briganti. Tutto li ricorda: non c’è monte, burrone, bosco, pietra, fontana o grotta, che non sia legata a qualche loro impresa memorabile, o che non abbia servito di rifugio o di nascondiglio; non c’è luogo nascosto che non gli servisse di ritrovo; non c’è cappelletta in campagna dove non lasciassero le loro lettere minatorie e non aspettassero i riscatti. I luoghi, come la Fossa del Bersagliere, hanno preso nome da loro o dai loro fatti. Non c’è famiglia che non abbia parteggiato, allora, per i briganti o contro i briganti; che non abbia avuto qualcuno, con loro, alla macchia, che non ne abbia ospitato o nascosto, o che non abbia avuto qualche parente massacrato o qualche raccolto incendiato da loro. A quel tempo risalgono gli odi che dividono il paese, tramandati per le generazioni, e sempre attuali. Ma, salvo poche eccezioni, i contadini erano tutti dalla parte dei briganti, e, col passare del tempo, quelle gesta che avevano così vivamente colpito le loro fantasie, si sono indissolubilmente legate agli aspetti familiari del paese, sono entrate nel discorso quotidiano, con la stessa naturalezza degli animali e degli spiriti, sono cresciute nella leggenda e hanno assunto la verità certa del mito. Non intendo, qui, fare un elogio del brigantaggio, come pare che sia diventato di moda, da qualche tempo, da parte di letterati estetizzanti, o di politici in malafede. Giudicato da un punto di vista storico, nel complesso del Risorgimento italiano, il brigantaggio non può essere difeso. Da un punto di vista liberale e «progressista», quello appare l’ultimo sussulto del passato, che andava spietatamente stroncato, un movimento funesto e feroce, nemico dell’unità, della libertà e della vita civile. From a liberal and "progressive" point of view, that appears to be the last gasp of the past, which was ruthlessly crushed, a fatal and ferocious movement, an enemy of unity, freedom and civil life. E lo fu realmente, nella sua realtà di guerra fomentata e alimentata dai Borboni, dalla Spagna, e dal Papa, per i loro particolari motivi. And it really was, in its reality of war fomented and fueled by the Bourbons, by Spain, and by the Pope, for their particular reasons. Ma il brigantaggio dei contadini è un altro: a guardarlo da quel punto di vista non solo non si può giustificarlo, ma non si riesce nemmeno ad intenderlo. Del resto, neanche i contadini lo giudicano e lo difendono, e quando ne parlano con tanta passione, non se ne gloriano. I suoi motivi storici, e gli interessi dei Borboni e del Papa o dei feudatari, essi non li conoscono. Anche per loro, quella è una storia triste, desolata e raccapricciante. Soltanto, sta ad essi nel cuore; fa parte della loro vita, è il fondo poetico della loro fantasia, è la loro cupa, disperata, nera epopea. Anche il loro aspetto, oggi, richiama l’immagine antica del brigante: oscuri, chiusi, solitari, aggrondati, col cappello nero e il vestito nero, e, d’inverno, il mantello; sempre armati, quando vanno nei campi, con il fucile e la scure. Il loro cuore è mite, e l’animo paziente. Secoli di rassegnazione pesano sulle loro schiene, e il senso della vanità delle cose, e della potenza del destino. Ma quando, dopo infinite sopportazioni, si tocca il fondo del loro essere, e si muove un senso elementare di giustizia e di difesa, allora la loro rivolta è senza limiti, e non può conoscere misura. È una rivolta disumana, che parte dalla morte e non conosce che la morte, dove la ferocia nasce dalla disperazione. I briganti difendevano, senza ragione e senza speranza, la libertà e la vita dei contadini, contro lo Stato, contro tutti gli Stati. Per loro sventura si trovarono ad essere inconsapevoli strumenti di quella Storia che si svolgeva fuori di loro, contro di loro; a difendere la causa cattiva, e furono sterminati. To their misfortune they found themselves to be unaware instruments of that History which was taking place outside them, against them; to defend the evil cause, and they were exterminated. Ma, col brigantaggio, la civiltà contadina difendeva la propria natura, contro quell’altra civiltà che le sta contro e che, senza comprenderla, eternamente la assoggetta: perciò, istintivamente, i contadini vedono nei briganti i loro eroi. La civiltà contadina è una civiltà senza Stato, e senza esercito: le sue guerre non possono essere che questi scoppi di rivolta; e sono sempre, per forza, delle disperate sconfitte; ma essa continua tuttavia, eternamente, la sua vita, e dà ai vincitori i frutti della terra, ed impone le sue misure, i suoi dèi terrestri, e il suo linguaggio. Peasant civilization is a civilization without a State, and without an army: its wars can only be these outbreaks of revolt; and they are always, inevitably, desperate defeats; but it nevertheless continues its life eternally, and gives the victors the fruits of the earth, and imposes its measures, its earthly gods, and its language.

Parlavo con i contadini, e ne guardavo i visi, e le forme: piccoli, neri, con le teste rotonde, i grandi occhi e le labbra sottili, nel loro aspetto arcaico essi non avevano nulla dei romani, né dei greci, né degli etruschi, né dei normanni, né degli altri popoli conquistatori passati sulla loro terra, ma mi ricordavano le figure italiche antichissime. Pensavo che la loro vita, nelle identiche forme di oggi, si svolgeva uguale nei tempi più remoti, e che tutta la storia era passata su di loro senza toccarli. Delle due Italie che vivono insieme sulla stessa terra, questa dei contadini è certamente quella più antica, che non si sa donde sia venuta, che forse c’è stata sempre. Humilemque vidimus Italiam: questa era l’umile Italia, come appariva ai conquistatori asiatici, quando sulle navi di Enea doppiavano il capo di Calabria. E pensavo che si dovrebbe scrivere una storia di questa Italia, se è possibile scrivere una storia di quello che non si svolge nel tempo: la sola storia di quello che è eterno e immutabile, una mitologia. Questa Italia si è svolta nel suo nero silenzio, come la terra, in un susseguirsi di stagioni uguali e di uguali sventure, e quello che di esterno è passato su di lei, non ha lasciato traccia, e non conta. Soltanto alcune volte essa si è levata per difendersi da un pericolo mortale, e queste sole, e naturalmente fallite, sono le sue guerre nazionali. La prima di esse è quella di Enea. Una storia mitologica deve avere delle fonti mitologiche; e in questo senso, Virgilio è un grande storico. I conquistatori fenici, che venivano da Troia, portavano con sé tutti i valori opposti a quelli della antica civiltà contadina. Portavano la religione e lo Stato, e la religione dello Stato. La pietas di Enea non poteva essere capita dagli antichi italiani, che vivevano nei campi con gli animali. E portavano l’esercito, le armi, gli scudi, l’araldica e la guerra. La loro religione era feroce, comportava i sacrifici umani: sulla pira di Pallante, il pio Enea sgozza i prigionieri, come sacrificio ai suoi dèi dello Stato. Ma quegli italiani antichissimi invece, erano contadini, senza religione e senza sacrificio. Quando i troiani furono in Italia, trovarono dunque una irreducibile ostilità negli abitanti della terra, derivante dalla assoluta differenza di civiltà. E difatti, Enea si trovò degli alleati nelle sole popolazioni non contadine, negli etruschi, anch’essi venuti, come lui, dall’oriente, anch’essi forse, come lui, semitici, e anch’essi retti a teocrazia militare. E, con l’aiuto di questi alleati, cominciò la guerra. Da un lato c’era un esercito, con armi splendenti forgiate dagli dèi; dall’altro, come le descrive Virgilio, c’erano delle bande di contadini, a cui nessun dio aveva dato delle armi, ma che impugnavano a propria difesa le scuri, le falci e i coltelli del loro lavoro quotidiano. Erano anch’essi dei briganti, pieni di valore, e, ahimè, non potevano vincere. L’Italia fu assoggettata, quell’umile Italia per cui morì la vergine Cammilla Eurialo e Turno e Niso di ferute.

Poi venne Roma, e perfezionò la teocrazia statale e militare dei suoi fondatori troiani, che, vincitori, avevano però dovuto accogliere la lingua e il costume dei vinti. E Roma si urtò anch’essa nella difesa contadina, e la lunga serie delle guerre italiche fu il piú duro ostacolo al suo cammino. Anche qui gli italiani dovevano militarmente perdere, ma salvarono tuttavia la loro natura, e non si mescolarono ai vincitori. Dopo questa seconda guerra nazionale, la civiltà contadina, chiusa nell’ordine romano, restò come addormentata nella sua pazienza. La civiltà feudale che, col passare di secoli, di eventi e di genti diverse, seguì, non era certo una civiltà di contadini: ma tuttavia era legata alla terra, ai confini del feudo, e perciò meno contraddittoria al non-Stato rurale. Si può dunque capire perché gli Svevi siano ancora oggi così popolari presso i contadini, che parlano di Corradino come di un loro eroe nazionale, e ne piangono la morte. Certo, dopo la sua caduta, questa terra, che allora fioriva, entrò nella più triste rovina.

La quarta guerra nazionale dei contadini è il brigantaggio. Anche qui, l’umile Italia storicamente aveva torto, e doveva perdere. Non aveva armi forgiate da Vulcano, né cannoni, come l’altra Italia. E non aveva dèi: che cosa poteva fare una povera Madonna dal viso nero contro lo Stato Etico degli hegeliani di Napoli? Il brigantaggio non è che un accesso di eroica follia, e di ferocia disperata: un desiderio di morte e di distruzione, senza speranza di vittoria. - Vorrei che il mondo avesse un solo cuore; glielo strapperei, - disse un giorno Caruso, uno dei più tremendi capibanda.

Questo desiderio cieco di distruzione, questa volontà di annichilimento, sanguinosa e suicida, cova per secoli sotto la mite pazienza della fatica quotidiana. Ogni rivolta contadina prende questa forma, sorge da una volontà elementare di giustizia, nascendo dal nero lago del cuore. Dopo il, brigantaggio, queste terre hanno ritrovato una loro funebre pace; ma ogni tanto, in qualche paese, i contadini, che non possono trovare nessuna espressione nello Stato, e nessuna difesa nelle leggi, si levano per la morte, bruciano il municipio o la caserma dei carabinieri, uccidono i signori, e poi partono, rassegnati, per le prigioni.

Di veri briganti, di quelli del '60, non ce n’è quasi più. Uno ne vive, mi raccontò la Giulia, qui vicino, a Missanello. È un vecchio di novant’anni, con una gran barba bianca, ed è un santo. Era stato un temuto capo di bande. Ora vive nel paese, onorato dai contadini come un patriarca; si ricorre a lui per consigli in tutti i casi difficili della vita. Mi dispiace di non essere mai potuto andare a conoscerlo. Un altro lo incontrai un giorno a Grassano. Ero nella bottega di Antonino Roselli, il mio segretario-barbiere-flautista, e mi facevo radere, quando entrò un vecchio robusto dal viso colorito, dai grossi baffi bianchi e dal portamento fiero, dagli arditi occhi azzurri, vestito di velluto alla cacciatora: non l’avevo mai visto in paese. Rimase, aspettando il suo turno, a fumare la pipa, e mi chiese chi ero. - Un esiliato? - mi disse anche lui, come gli altri, quando gli ebbi risposto. - A Roma non ti vogliono bene -. Gli chiesi quanti anni avesse: - Molti, - mi disse, - ero giovane al tempo dei briganti. Avevo quindici anni, quando, con mio fratello, ammazzammo il carabiniere. Hai visto quella quercia vecchia, che è sulla strada, un duecento metri prima di arrivare in paese? Fu là che lo incontrammo, e voleva fermarci, e fummo costretti a ucciderlo. Il corpo lo nascondemmo nel fosso: ma lo trovarono presto. Mio fratello lo presero subito, e morì qualche anno dopo, nelle carceri di Napoli. Io mi nascosi in paese. Rimasi, vestito da donna, per, sette mesi, proprio qui, nella stanza che è sopra questa bottega di Antonino. Poi, mi scoprirono: ma, siccome ero così giovane, me la cavai con quattro anni -. Il vecchio brigante era contento e in pace con se stesso: quell’antico omicidio non gli pesava sulla coscienza, lo raccontava come un’azione inevitabile e naturale. Era la guerra.

- Vede quel signore che passa ora sulla strada? - mi diceva il barbiere, mostrandomelo attraverso la porta aperta. - È don Pasquale, un proprietario. Suo nonno aveva una grossa masseria, e quando vennero i briganti, non volle dar nulla, né grano né bestie. I briganti allora gli bruciarono la casa in campagna; e lui, peggio, si mise con i carabinieri a far la posta. The brigands then burned down his house in the country; and he, worse still, went to post with the carabinieri. Allora i briganti lo presero, e mandarono a dire a sua moglie che, se lo rivoleva, doveva pagare la taglia, cinquemila lire, entro due giorni. La famiglia non voleva tirar fuori il denaro, speravano di farlo liberare dai soldati. Il terzo giorno, arriva alla moglie una busta. Dentro c’era un orecchio di suo marito.

I briganti tagliavano le orecchie, il naso e la lingua dei signori, per farsi pagare i riscatti. I soldati tagliavano la testa ai briganti che riuscivano ad acciuffare, e le attaccavano su dei pali, nei paesi, perché servissero di esempio. Così continuava questa guerra di distruzione. Il terreno su questi monti d’argilla, è tutto scavato di buche e di grotte naturali. Qui si riparavano i briganti e qui, negli alberi cavi delle foreste, nascondevano i denari delle taglie e quelli rapinati nelle case dei ricchi. Quando le bande furono disperse, e i briganti tutti uccisi o imprigionati, quei tesori nascosti rimasero nella terra e nei boschi. Questo è uno dei punti dove la storia dei briganti diventa leggenda, e si lega a credenze antichissime. I briganti misero dei tesori reali dove la fantasia contadina aveva sempre favoleggiato la loro esistenza: così i briganti divennero tutt’uno con le oscure potenze sotterranee.