Perché NON parlo dialetto? [Italian, with subs]
Piacere, mi chiamo Davide, sono nato nel 1995 a Torino e non parlo il dialetto. Nell'Italia
del 2020, come abbiamo visto in questo video, non è più una cosa strana: da quando l'italiano
è una lingua davvero parlata - quindi da circa 60 anni - è cresciuto in Italia il
numero di persone che usano sempre e solo l'italiano, come me.
E perché non parlo dialetto? Lo vedremo tra poco.
Benvenuti su Podcast Italiano, un progetto per aiutarvi ad imparare l'italiano, se
siete stranieri, o per farvi sentire cose interessanti sulla nostra lingua, se siete
italiani. Ricordo anche per chi impara l'italiano con i miei video che se diventate membri del
mio Club su Patreon avrete accesso, tra le altre cose, a un PDF che contiene la trascrizione
dei miei video con le parole difficili spiegate in italiano e tradotte in inglese. Qui trovate
il link.
Ma dicevo, non parlo dialetto per due ragioni: la prima ragione è che anche i miei genitori
non parlano il dialetto piemontese (cioè quello della nostra regione), o meglio, la
variante torinese del piemontese. Non lo parlano perché i loro genitori (cioè, i miei nonni)
non volevano che lo parlassero. I miei nonni, infatti, pensavano che il dialetto fosse qualcosa
di inferiore e inutile, anzi addirittura dannoso, e che non andasse insegnato ai bambini perché
sarebbe stato un ostacolo nell'apprendimento dell'italiano. Oggi sappiamo che questa
idea è falsa: un bambino può imparare fino a quattro lingue senza grandi problemi. I
miei nonni, tra l'altro, hanno potuto “rinunciare” (tra virgolette) a parlare dialetto con i
miei genitori perché sapevano già l'italiano, tutti e quattro, il che non era un cosa molto
comune tra gli italiani nati negli anni '20 e '30 come loro. Il dialetto continuavano
a usarlo con altre persone (i genitori di mia madre lo usavano anche tra di loro; i
nonni di mio padre, cioè i miei bisnonni parlavano in dialetto a mio padre, e lui gli
rispondeva in italiano); quindi i miei avevano comunque numerose occasioni di ascoltarlo
e per questo ancora oggi lo capiscono perfettamente.
Poi ci sono io, che sono un gradino sotto nell'albero genealogico; io il piemontese
l'ho sentito parlare poco (un pochino da mia nonna, ma sempre con altre persone; mai
direttamente con me, e di conseguenza non solo non lo so parlare, ma anche la mia comprensione
è scarsa; capisco qualcosa, ma più che altro grazie alle somiglianze con l'italiano e
il francese.
La seconda ragione ha a che fare con l'ambiente sociale. Qui a Torino e nelle città vicine
il dialetto è di fatto scomparso tra i giovani. Questo è dovuto in primo luogo al fatto che
verso Torino c'è stata una forte immigrazione da altre regioni: dal Veneto, dal Centro e
dal Sud; a Torino l'industria era molto sviluppata e ha attratto numerose persone
in cerca di lavoro, che parlavano di norma il loro dialetto (e magari un italiano di
base); per gli immigrati la lingua franca, con cui comunicare tra di loro e con i torinesi
, diciamo, “autoctoni” era l'italiano, non il torinese.
L'immigrazione cambiò molto la composizione della popolazione di Torino: ci fu un forte
rimescolamento demografico e di conseguenza anche linguistico. I figli e i nipoti degli
immigrati non imparavano il dialetto, o i dialetti; perché se hai un genitore piemontese
e uno, per esempio, calabrese, e tra di loro e con te parlano in italiano, anche tu imparerai
e userai attivamente solo l'italiano. A scuola, poi, avevo a che fare con compagni
di classe che erano il prodotto di questo rimescolamento sociolinguistico e, come me,
parlavano quindi solamente italiano.
Per questi motivi non so il dialetto. Qualcuno potrebbe dire… chissenefrega? A che ti serve,
se puoi comunicare con tutti in italiano? Da un lato è vero: da un punto di vista meramente
pragmatico non mi “serve”; detto questo, secondo me è un peccato non sapere il dialetto,
per vari motivi. Prima facciamo questa considerazione: il “dialetto”
(come lo intendiamo in Italia) per un linguista è… una lingua, cioè, un sistema di comunicazione
verbale presente in una comunità umana, con una fonologia, un lessico, una sintassi…
insomma, una grammatica. Attenzione, non “grammatica” nel senso di “manuale di grammatica”.
Una lingua può anche non essere codificata, può anche non avere un'ortografia ed essere
solamente orale, ma rimane un codice con delle regole precise che si possono studiare – e
infatti vengono studiate.
Quindi dal latino storicamente derivano tante lingue, che forse dovremmo chiamare “lingue
regionali”: il siciliano, il napoletano, il piemontese, il veneto, ecc. Una di queste
lingue in Italia è il fiorentino, che per secoli si è evoluto come le altre lingue
italiane ed è diventato a un certo punto, per ragioni storiche e di prestigio letterario,
“LA lingua”, cioè “la lingua nazionale”, l'italiano: tutte le altre lingue regionali
hanno quindi preso il nome tradizionale di “dialetti”, con cui li conosciamo ancora
oggi, che è un termine che confonde un po', perché porta alcuni a pensare che i dialetti
derivino dall'italiano, oppure siano versione corrotte dell'italiano, ma non è così.
Semmai sono modi, diciamo, “sbagliati”, o meglio “innovativi”, di parlare il latino,
così come lo è l'italiano.
A proposito: nella linguistica moderna un “dialetto” sarebbe una varietà di una
lingua. Quindi il siciliano è una lingua, come anche l'italiano; il palermitano, il
catanese, l'agrigentino sono dei dialetti del siciliano, differenti tra loro ma abbastanza
simili da essere intercomprensibili (cioè un palermitano è in grado di capire abbastanza
bene un catanese). Ma comunemente in Italia usiamo la parola “dialetto” intendendo
le “lingue regionali”.
La situazione italiana nella linguistica si chiama “diglossia”, che significa, per
semplificare, che una persona (non io) conosce generalmente due lingue. Queste due lingue
però non si usano allo stesso modo, non hanno lo stesse funzioni (se no parleremmo di bilinguismo
e non diglossia); si usano in situazioni diverse (quindi, per esempio, usiamo il “dialetto”
in famiglia e con gli amici, e l'italiano a scuola e al lavoro).
Comunque, da adesso in poi userò il termine “dialetto” nel senso di “lingua regionale
parlata in Italia”, quindi siciliano, piemontese, ecc. ecc., anche se sono dell'idea che sia
un termine che ha connotazione un po' dispregiativa o comunque un po' sminuente. Se le chiamassimo
tutte “lingue regionali” forse la percezione che abbiamo di esse cambierebbe.
Quindi i motivi – torniamo ai motivi - per cui è una buona cosa imparare e tramandare
un dialetto - ma anche le lingue regionali dei vostri paesi se siete stranieri - sono
in gran parte gli stessi per cui vale la pena di conoscere una qualsiasi lingua straniera.
Prima di tutto una lingua è affascinante di per sé: io amo le lingue straniere ed
è forse anche per questo che riconosco la bellezza intrinseca dei nostri dialetti (cioè
della grammatica, del lessico, della fonologia), prescindendo da quanto siano davvero “utili”.
Cioè, sapersi esprimere in una lingua (o almeno comprenderla) è qualcosa di bello
di per sé.
Una lingua è anche portatrice della cultura di un popolo, con la sua saggezza popolare,
le sue tradizioni, la sua mentalità, la sua musica, la sua letteratura (in Italia abbiamo
una forte tradizione letteraria dialettale). Non dimentichiamo che una lingua è sempre
collegata a una cultura.
E infine, almeno qui in Italia, il dialetto è percepito come più espressivo. Ed è percepito
in questo modo perché solitamente è legato (o, a volte, relegato) alla sfera affettiva,
personale, famigliare. Ed è secondo me bello avere una lingua alternativa, una “lingua
del cuore” da alternare a una lingua “ufficiale”; è come poter cambiarsi i vestiti, togliere
l'abito formale e mettere quello informale (cosa che io invece posso fare solo cambiando
registro, cioè passare da lingua forma o informale, ma sempre all'interno dell'italiano;
non è la stessa cosa però). Anche a me piacerebbe poter fare code-switching (passare da una
lingua a un altra), magari per fare una battuta, oppure per esprimere la rabbia o qualsiasi
emozione con quell'efficacia espressiva che ti dà il dialetto.
Bene, tutti questi motivi secondo me bastano a giustificare la conoscenza di un dialetto
(o di una lingua minoritaria), ma anche gli sforzi da fare per salvaguardarli. Ma come
si fa?
C'è chi propone di insegnare i dialetti a scuola, ma non è facile. Prima di tutto,
quale dialetto insegni? Cioè, i dialetti sono di fatto tantissimi punti di un continuum
linguistico. Non dobbiamo immaginarci i dialetti come dei colori nettamente separati (bianco,
blu, rosso), ma come una gamma di colori con una miriade di sfumature. Basta spostarsi
da un paesino a quello successivo perché qualcosa cambi nella lingua locale (una parola,
una regola grammaticale, un suono) e più ti sposti più i cambiamenti si accumulano,
finché non arrivi a un dialetto che è così diverso dal tuo (e quindi difficile da capire)
che dici: “no, questa è una cosa diversa dalla mia”.
E quindi quale punto di questa gamma di colori insegniamo a scuola? Potremmo forse scegliere
una variante standard, magari una che ha una tradizione letteraria molto ricca, o quella
del capoluogo della regione, ma anche questo può essere problematico. Per fare un esempio
chiaro: le lingue (o dialetti) che si parlano nella Calabria del nord sono molto diversi
da quelli della Calabria sud, che sono tipologicamente più affini al siciliano; ma la regione amministrativa
è la stessa, cioè la Calabria. Se scegli quindi una varietà unica e standard da insegnare
in tutte le scuole della Calabria qualcuno si può giustamente arrabbiare; sarebbe ingiusto
imporre a una classe di studenti di Cosenza il calabrese di Reggio Calabria. Magari gli
studenti di Cosenza sanno già naturalmente il dialetto di Cosenza e tu gli stai insegnando
un altro dialetto di un altro posto, che è molto diverso.
Ma prima ancora di scegliere quale, o quanti dialetti diversi insegnare e fare questi discorsi,
chiediamoci se è un uso davvero saggio del tempo che abbiamo a scuola. Le cose importanti
da imparare sono tante e il tempo non basta mai. Perché insegnare il dialetto e non,
che ne so, programmazione? Oppure fare più matematica? O più inglese? Il tempo è limitato
e, per forza di cose, ci sono delle priorità. Forse i dialetti non sono una priorità.
E poi in tutta onestà non credo neanche che la scuola farebbe un buon lavoro. Pensate
all'inglese, una lingua che culturamente è predominante, e a cui a scuola dedichiamo
anni di studio, per poi avere i risultati scadenti che vediamo tutti.
E poi, quale sarebbe la motivazione da parte degli studenti, che spesso non sono motivati
nemmeno a imparare l'inglese (e dovrebbero esserlo, vista la cultura angloamericana che
ci circonda)? Io credo che ai ragazzi semplicemente non interesserebbe; e sappiamo bene (o almeno
io lo so per esperienza personale) che se non hai interesse forte nell'imparare una
lingua, non la imparerai mai.
Ora, dicendo così sembra quasi che i giovani italiani non sappiano MAI i dialetti e debbano
impararli sempre da zero, come una lingua straniera, il che non è affatto vero. È
così in alcune zone d'Italia, nei centri urbani come Torino, appunto, o Milano, appunto,
ma non è così per esempio in Veneto e in Campania, due regioni dove i dialetti si parlano
molto ancora oggi, anche tra i giovani. Bene, io penso che sarebbe importante fare leva
sulla conoscenza del dialetto che molti hanno naturalmente, incoraggiandone l'uso, spiegando
perché è importante tramandarlo ai figli, organizzando iniziative incentrate sul dialetto,
ecc. ecc.; cioè, far sì che non avvenga quella perdita culturale (perché dialetto
è cultura) che è avvenuta nel passaggio tra i miei nonni e me.
Forse il ruolo della scuola potrebbe essere di spiegare (come sto provando a fare io)
i motivi per cui è bello sapere il dialetto e sfatare anche alcuni miti di lunga data:
il mito secondo cui i dialetti sono versioni rozze dell'italiano - non è così, i dialetti
sono lingue sorelle dell'italiano, l'abbiamo visto; oppure il mito secondo cui ci sarebbero
dialetti di serie A e di serie B, e quindi il napoletano è una lingua e, che ne so,
l'umbro no: entrambe sono lingue, almeno nell'accezione della linguistica moderna:
hanno una grammatica, una fonologia, un lessico, ecc.
Sminuire un dialetto significa contribuire alla sua scomparsa, perché chi lo conosce
non lo percepirà come qualcosa degno di essere conservato e quindi non lo parlerà più.
C'è poi una cosa che invece la scuola NON dovrebbe fare (e in passato ha fatto) ovvero
demonizzare i dialetti, contribuire all'idea falsa secondo cui sarebbero qualcosa di inferiore
rispetto all'italiano. Al contrario, la scuola dovrebbe far apprezzare le differenze
e somiglianze tra italiano e dialetto; far riflettere sull'uso del dialetto nella propria
famiglia o con gli amici; spiegare l'influenza del dialetto sull'italiano regionale, per
esempio, del napoletano, sull'italiano regionale parlato a Napoli (a proposito, sono due cose
ben diverse e spesso confuse: l'italiano regionale è influenzato dal dialetto, ma
non è il dialetto). - Infine – e qui mi rivolgo a tutti voi
– servono contenuti. Sapete, io penso che se esistono contenuti interessanti in una
lingua, con la giusta motivazione e il giusto sforzo quella lingua la possiamo imparare.
Questo è il senso del mio progetto. Ma se le lingue grandi hanno un sacco di contenuti
le lingue piccole non ne hanno quasi: se io volessi imparare il piemontese non avrei semplicemente
abbastanza contenuti, o contenuti abbastanza interessanti per me. L'unico modo di impararlo
sarebbe passare tempo con persone che lo parlano, che nel mio caso purtroppo non sarebbe molto
fattibile. Servono quindi persone che creino contenuti, canali YouTube, podcast, blog,
profili Instagram, chi più ne ha più ne metta.
- E questo vale anche per le lingue minoritarie di qualsiasi paese del mondo. Se siete stranieri
e conoscete una lingua minoritaria – oppure conoscete qualcuno che conosce una lingua
minoritaria – tutto ciò che ho detto vale anche per voi. Il mio appello a tutti è:
cerchiamo di salvaguardare le lingue minoritarie, cerchiamo di parlarle, di scriverle, di creare
contenuti in queste lingue, di tramandarle ai figli, così che non succeda quello che
è avvenuto nel mio caso. Perché ogni lingua che muore è un dramma, è una perdita, una
perdita di un patrimonio dell'umanità.
- Fatemi sapere se siete d'accordo con me oppure no. Ho poi alcune domande per voi.
Conoscete un dialetto o una lingua minoritaria? Come lo usate? In che contesti? Quali emozioni
e anche associazioni mentali evoca in voi? Se vi va, potete scrivere un commento nel
vostro dialetto (o lingua minoritaria), far vedere un po' a tutti, diciamo, che aspetto
ha. Ecco, magari potete tradurre il messaggio anche in italiano, così capiamo più o meno
tutti.
Per il resto, ringrazio tutte le persone che vedete scorrere ai lati: sono i membri del
Podcast Italiano Club, che sostengono questo progetto e ottengono contenuti bonus, come
la trascrizione PDF con le parole difficili per ogni video, un podcast esclusivo (che
ha già sessanta episodi), l'accesso a un gruppo Telegram dove potete comunicare con
me e altri membri del Club esclusivamente in italiano, e tanto altro. Uno dei membri
tra l'altro è il grande Hagay, che mi ha dato una grande mano con questo video, quindi
grazie Hagay. Tra l'altro qualche giorno fa era il suo compleanno quindi… se sei
arrivato fino a questo punto del video lascia un commento in cui scrivi “Auguri Hagay”.
Vediamo che pensano le altre persone che non sono arrivate fin qui.