#97 – Alex Schwazer. La corsa, il doping, la verità
Trascrizione dal podcast Salvatore racconta, episodio pubblicato il 28 gennaio 2023.
Distribuito con licenza Creative Commons CC-BY 4.0 non commerciale.
Ok? Partiamo. Le regole sono semplici.
Tallone destro a terra. Pianta destra a terra. Gamba ferma. Muovi l'altra. Tallone sinistro a terra. Pianta sinistra a terra. E avanti così.
Due norme, precise e severissime, regolano uno degli sport più affascinanti dell'atletica leggera. Sto parlando della marcia.
Una specie di corsa, sì, dove importa andare veloce, ma conta ancora di più farlo secondo certe regole.
Non devi mai perdere il contatto con il terreno. Mai. Non devi mai piegare la gamba d'appoggio.
Il resto dipende da te.
Volontà, ma soprattutto disciplina.
Per eccellere nella marcia servono queste caratteristiche. Penserete: e che ci vuole! Ma per le persone normali, non abituate a questo strano passo, può essere difficile mantenere la concentrazione.
Chi dedica la sua vita alla marcia, invece, accetta di mantenere quella concentrazione per 10, 20 o anche 50 chilometri.
Si dice che errare è umano. Se è così, la marcia non è per umani. Perché un errore va bene, due ok, ma al terzo sei fuori.
Oggi ti racconto la storia di un atleta della marcia. Uno che ha lottato tanto ed è arrivato a toccare il cielo. Poi però è caduto, e lo schianto è stato fortissimo. Ha provato a rialzarsi, ma non glielo hanno permesso. E oggi, che la sua carriera è finita, ci sono tante domande ancora aperte.
Campione o imbroglione? Figliol prodigo da perdonare o lupo travestito da agnello?
Oggi ti racconto la storia di Alex Schwazer, una vita per la marcia.
Partiamo da Vipiteno, la cittadina dove Alex Schwazer è cresciuto. Forse dal nome di questo atleta hai già capito dove siamo. In Alto Adige. Una zona dove vive la comunità di lingua tedesca, che qui è difficile chiamare minoranza visto che tre abitanti su quattro parlano il tedesco come prima lingua e l'italiano solo come seconda.
Questa terra di confine, così profondamente legata alla natura, ha regalato allo sport italiano nomi memorabili. Soprattutto negli sport invernali come per esempio Gustav Thoni, uno degli sciatori più forti degli anni 70.
E poi c'è questo ragazzo, cresciuto a Vipiteno, e che nella vita ha scelto la marcia.
Non è la sua prima scelta, da adolescente. Del resto, per pochi uno sport del genere è il primo amore.
Poi però lo diventa. Lo convincono che ne può valere la pena. Che se si allena bene, la marcia potrà dargli grandi soddisfazioni.
Sceglie questa strada, quindi, quella dell'atleta professionista. Una vita difficile in Italia, a meno che non diventi calciatore. Perché per gli altri sport, le squadre e gli sponsor sono pochi. Una cosa che si può fare, quasi l'unica, è entrare in un corpo delle forze dell'ordine e aderire alla loro squadra sportiva.
Per marciare, Alex Schwazer diventa carabiniere.
A 21 anni, nel 2005, arrivano i primi segnali che questo ragazzo potrebbe davvero essere un campione. Ai mondiali di Helsinki partecipa alla 50 km di marcia conquistando subito la medaglia di bronzo e stabilendo il record italiano di categoria.
A quel punto, probabilmente, si convince in modo definitivo che quella è la sua specialità. Lui è un marciatore.
Due anni dopo ci riprova. Mondiali di Osaka, in Giappone. Ancora una volta, 50 km di marcia. E ancora una volta arriva terzo.
Schwazer potrebbe essere contento. È arrivato due volte sul podio dei più forti marciatori del pianeta. Eppure, il terzo posto gli sta stretto. Sente di essere il più forte. Vuole dimostrarlo. A sé e agli altri.
L'occasione arriva l'anno dopo, nel 2008. Ai Giochi olimpici di Pechino.
Sulle strade della capitale cinese, Schwazer è uno dei favoriti.
Ci sono altri marciatori forti, ma in gara non ce n'è per nessuno, a 10 km dalla fine Schwazer è solo davanti a tutti. Nessuno può tenere il suo passo. All'arrivo, sulla pista dello stadio olimpico di Pechino, lo travolge l'emozione. Di fronte alle telecamere non riesce a dire niente, le sue uniche parole sono le lacrime.
Piange Schwazer. Per la tensione, per la stanchezza, per la commozione. Piange perché ha vinto le olimpiadi.
Quelli sono anni di vacche magre per l'atletica italiana, quindi una medaglia d'oro attira l'attenzione e Schwazer finisce molto presto sotto i riflettori. Con il suo italiano dal forte accento tedesco, la sua faccia pulita da bravo ragazzo e la sua storia di sportivo conquista il cuore di molti italiani e italiane, non solo appassionati di sport. Certo, non piace a tutti, c'è a chi proprio non va giù che si chiami Schwazer e che parli il tedesco meglio dell'italiano. E ai più oltranzisti tra i germanofoni del Sud Tirolo, non piace che sia troppo italiano e che faccia la macchietta tirolese per la tv. Ma va bene così, è il prezzo del successo, non si può piacere a tutti.
Nel frattempo, Schwazer continua a marciare, ma con risultati alterni. Nel 2009 ai mondiali si ritira a gara in corso. L'anno dopo agli europei di Barcellona del 2010 arriva secondo. Nel 2011, corre solo la marcia da 20 km e arriva nono.
Che succede Alex? Dov'è finito il campione che ha vinto l'oro olimpico tre anni fa? Se lo chiede anche lui. Si fa molte domande. Prova a darsi delle risposte.
Risposte drammaticamente sbagliate.
Il 30 luglio del 2012 Alex Schwazer è a casa dei suoi genitori. E riceve una visita della WADA, l'agenzia mondiale antidoping. Nulla di strano, fra pochi giorni Schwazer dovrà partire per Londra, per partecipare ai Giochi olimpici e la visita dell'antidoping è la norma.
La gara dei 50 km di marcia maschile si correrà dodici giorni dopo, la mattina dell'11 agosto. Ai nastri di partenza, però, il campione olimpico in carica Alex Schwazer non ci sarà.
Perché nel suo sangue hanno trovato l'eritropoietina, meglio conosciuta come Epo, una sostanza che aiuta a migliorare le prestazioni fisiche. In breve, doping.
Lo annuncia lui stesso, in una conferenza stampa. Racconta di avere fatto tutto da solo, all'oscuro della sua famiglia, della sua fidanzata, del suo allenatore. Racconta di avere evitato in tutti i modi i controlli antidoping. Fino al 30 luglio, quando non ce l'ha fatta più.
Sembra pentito, addolorato. Ma ormai è troppo tardi.
Per lui non c'è posto alle Olimpiadi di Londra.
Squalificato per 3 anni e nove mesi. Tantissimi, per la carriera di uno sportivo.
Nel 2012 ha 28 anni, alla fine della squalifica ne avrà 32. Avrà ancora voglia di gareggiare?
Lui decide di sì.
Nel 2015, quando ancora è sotto squalifica, Alex Schwazer inizia ad allenarsi di nuovo. Il suo obiettivo è tornare in forma in tempo per le Olimpiadi di Rio de Janeiro del 2016.
Vuole dimostrare che lui non è solo un dopato. Che l'oro olimpico a Pechino, otto anni prima, l'ha vinto perché era davvero il più forte di tutti. E vuole dimostrare che ha fatto un errore, certo, ma ora è pronto a tornare.
Inizia ad allenarsi con Sandro Donati. Un allenatore molto conosciuto, soprattutto per una cosa: le sue battaglie contro il doping. Una scelta simbolica. L'atleta dopato per eccellenza e l'allenatore pulito per eccellenza.
Del ritorno di Schwazer si parla molto. E con toni molto vari. Ci sono quelli entusiasti, ma anche gli invidiosi e gli scettici.
Come dimostra la sua prima gara dopo la fine della squalifica.
È il maggio del 2016, a Roma ci sono i mondiali di marcia a squadre. Fare una buona prestazione significa anche conquistare un posto alle Olimpiadi di Rio che si terranno da lì a pochi mesi.
Schwazer è cambiato molto dal 2008, non ha più lo sguardo spensierato da ragazzo, ha gli occhi tristi e le labbra strette. La voglia di lottare, però, è la stessa di un tempo.
A sorpresa, o forse no, vince la gara e la squadra italiana è campione del mondo. Alex Schwazer è tornato.
Lo sport italiano si congratula con lui. Ha sbagliato, ha pagato, ma ora è tornato e ha vinto.
Però ci sono anche quelli che mormorano. Uno dei suoi avversari, alla fine della gara, dice apertamente: ma non è strano che abbia vinto pochi giorni dopo la fine della squalifica?
Il sospetto insomma è chiaro. Quello che vuole dire tra le righe è che se ti sei dopato una volta, lo puoi fare di nuovo.
Sembra uno scenario perfetto. Pure troppo.
Poche settimane dopo la vittoria a Roma, arriva una comunicazione della commissione anti-doping. Alex Schwazer si è dopato ancora.
Per lui, che si sta preparando per le olimpiadi, è un fulmine al ciel sereno.
Schwazer, che la prima volta si era dichiarato subito colpevole, questa volta nega tutto.
È impossibile, ci deve essere un errore. Le analisi che lo inchiodano sono del 1 gennaio, sei mesi prima. A un primo esame erano sembrate pulite, poi pare che abbiano scoperto concentrazioni di testosterone più alte del normale.
Inevitabilmente, arriva la sospensione. Alex comunque decide di partire per Rio. Si è allenato tanto e spera in un miracolo. Ma invece del miracolo arriva un'altra mazzata. Il 10 agosto, mentre le Olimpiadi sono già in corso, arriva la decisione del TAS, il tribunale arbitrale dello sport. Siccome Schwazer è un recidivo, cioè compie la stessa irregolarità per la seconda volta, è squalificato per otto anni.
La sua carriera è finita. La sua immagine è distrutta.
Schwazer però non ci sta. Non potrà mai più ritornare in pista, ma ci tiene a riportare la verità.
È convinto che ci sia un complotto contro di lui. Lo dice ancora oggi apertamente. E in effetti qualcosa, nel caso Schwazer, puzza un po'.
Secondo la ricostruzione del tribunale di Bolzano, che aveva aperto contro Schwazer un processo penale, non ci sono prove che il marciatore si sia dopato e anzi ci sono molti sospetti che qualcuno abbia modificato i suoi campioni di urina usati per i test.
Ci sono infatti delle cose che non tornano. A fare le analisi, quel 1 gennaio del 2016, è stata un laboratorio di analisi privato di Colonia, che conserva ancora le provette con l'urina di Schwazer e che le ha consegnate al tribunale di Bolzano soltanto un anno dopo la richiesta. Una cosa già di per sé abbastanza sospetta.
Inoltre, nelle urine analizzate ci sono livelli stranamente alti di tracce di DNA, molto superiori al normale. Cosa può significare? Secondo Schwazer e i suoi avvocati, la risposta è solo una: qualcuno ha manipolato le provette per causare la squalifica dell'atleta.
Il tribunale di Bolzano gli ha dato ragione a riguardo, ma l'agenzia antidoping e la federazione internazionale atletica fanno muro. Le prove per noi sono nette, dicono, la squalifica non può essere cancellata.
In questa storia ci sono molte domande senza risposta.
Se è vero che qualcuno ha manipolato le provette, chi è stato?
La federazione? Qualche atleta rivale?
E perché avrebbero dovuto farlo? Per dimostrare qualcosa magari o per mettere fuori gioco un avversario molto forte?
Sembrano ipotesi poco credibili, dopotutto la marcia è uno sport con relativamente pochi praticanti e pochi interessi economici.
Eppure, allo stesso tempo, si pongono altre domande.
Perché Schwazer, che voleva tornare alle gare per dimostrare di non essere un dopato, avrebbe dovuto prendere altro doping?
Perché un uomo come Sandro Donati, il suo allenatore, integerrimo nemico del doping, si sarebbe fatto coinvolgere in una cosa che potrebbe rovinargli per sempre la reputazione?
Quello che sappiamo è che Alex Schwazer è stato davvero un atleta molto forte, e anche un uomo molto debole. Una cosa di cui, onestamente, nessuno può fargli una colpa. Ha pagato per la sua debolezza e sta pagando ancora, probabilmente più di quanto dovrebbe.
Oggi non corre più. È tornato nel suo paesino in provincia di Bolzano, a due passi da Vipiteno, e fa l'allenatore amatoriale. Per chi ama correre e basta, per il gusto di farlo.
Cosa ci resta di tutta questa storia? Forse una lezione da imparare su come seguiamo lo sport. Perché soprattutto quello individuale è un tunnel di solitudine quasi senza uscita. Dove ci si ritrova a vivere ogni giorno pieni di adrenalina. Condannati a dividere i propri giorni tra vittorie e sconfitte, ad accettare la competizione eterna, a vivere di esaltazione e di disperazione.
In questo ci sono persone che si trovano bene, c'è chi invece come Alex Schwazer a volte non ce la fa, sbaglia e poi forse prova a rialzarsi.
Quello che possiamo fare noi è non perdere la misura o l'empatia. Festeggiare le vittorie e accettare le delusioni, senza condannare. Per salvare lo sport, soprattutto da sé stesso.