6. Le sue giornate (Racconti romani)
Ai romani, dicono che lo scirocco non fa nulla: ci sono nati. Ma io sono romano, nato e battezzato in piazza Campitelli, eppure lo scirocco mi mette fuori di me.
La mamma che lo sa, quando la mattina vede il cielo bianco e sente l'aria di scirocco, sempre mi dice: – Sta' calmo... non ti arrabbiare... controllati – sa che in quei giorni potrei anche finire in prigione o all'ospedale. Lei le chiama “le mie giornate”.
Sebbene sia piccolo e senza muscoli, nei giorni di scirocco mi viene voglia di litigare o, come diciamo noi romani, di cercar rogna.
Inoltre, ho scelto il mestiere meno adatto: il cameriere di caffè. I camerieri, si sa, devono essere gentili, in ogni occasione. La gentilezza per loro è come il tovagliolo che tengono sul braccio, come il vassoio sul quale portano la bibita: uno strumento del mestiere.
Qualche volta, però, questa gran voglia di offendere e aggredire, riesco a sfogarla. Una di quelle mattine che c'era lo scirocco, sono uscito con il diavolo addosso. Una frase, soprattutto, avevo nelle orecchie: «Se non la finisci, ti faccio mangiare il tuo cappello». Dove l'avevo sentita? Mistero: forse lo scirocco me l'aveva fatta sognare.
Sempre con queste parole in testa, ho preso il tram per andare al caffè, un locale vicino a piazza Fiume.
Il tram era pieno di gente e già, anche se era mattina presto, non si respirava. Subito hanno iniziato a spingere. Ho cominciato ad arrabbiarmi, ma non ho detto nulla.
Il tram si è avvicinato a piazza Fiume. Mi sono avviato verso l'uscita.
C'è una cosa che mi mette fuori di me, scirocco o no: quando in tram la gente mi chiede: – Scende?... scusi, lei scende? – Non so che darei per rispondergli che non sono fatti loro.
Quella mattina, poco prima della fermata di piazza Fiume, la solita voce, tra la gente, ha domandato: – Maschio, scendi? – Anche un cameriere ha la sua dignità. Quel fatto di darmi del tu e di chiamarmi maschio ha fatto crescere la mia rabbia. Dalla voce ho pensato che forse era un omaccione.
Mi sono guardato intorno: c'era tanta gente. Ho pensato che potevo insultarlo senza pericolo e ho risposto: – Se scendo o non scendo, a te che te ne frega?
Subito la voce ha detto: – Allora spostati e lascia scendere gli altri. Ho detto senza voltarmi: – Un corno.
Subito, come risposta, mi è arrivato uno spintone e, veloce, lui mi è passato avanti. Non mi ero sbagliato: era largo, basso, con la faccia rossa, i baffi neri, all'americana, e un collo da toro. Aveva anche il cappello.
Mi è tornata in mente quella frase: «Se non la finisci, ti faccio mangiare il tuo cappello». Lui stava scendendo, io ero sul predellino. Mi sono fatto coraggio e gli ho gridato: – Beccamorto, ignorante.
Lui, che era già sceso, urlava: – Mascalzone, ripeti un po' quello che hai detto –. Ma già, come avevo previsto, si erano buttati in cinque o sei a tenerlo. Era la volta buona o mai più. Mentre lui si agitava, gli ho gridato in faccia, proprio con odio: – Ma chi credi di essere? Ma non lo sai che se non la pianti ti faccio mangiare il tuo cappello?
L'avevo detto e mi sentivo meglio. Finalmente ci hanno separati e io me ne sono andato senza voltarmi indietro, felice, fischiando una canzone. Al caffè, mentre tiravamo fuori i tavolini, ho raccontato il fatto, naturalmente a modo mio. [...] Quelli, al solito, non mi hanno creduto.
Goffredo, il barista, ha detto: – Sei un gran ballista... [...].
Ero soddisfatto, mi sentivo bene, però il lavoro quel mattino mi piaceva. Andavo, venivo, mi muovevo ballando, gridando le ordinazioni con voce forte, allegra. [...]
Verso le undici di sera sono entrato nel bar per prendere due espressi e poi sono uscito. I tavoli a sinistra della porta sono i miei, in quel momento erano tutti occupati; soltanto, in fondo, ce n'era uno libero: appena sono nuovamente uscito, ho visto che qualcuno ci si era seduto. Ho portato gli espressi, quindi sono andato allegro a quel tavolino, [...].
Mi è mancato il fiato, poiché ho visto che era proprio lui, che mi guardava sarcastico [...]. Con lui stava un altro, della stessa razza: scuro, coi capelli grigi [...].
Lui ha detto: – Guarda, guarda chi si rivede... i signori desiderano due birre.
– Due birre –, ho ripetuto senza respirare.
– Ma, oh, ghiacciate –, ha detto lui. E, per cominciare, mi ha pestato il piede facendomi saltare dal dolore. Ma non ho reagito, ero scoraggiato, ormai, avevo solo paura. Lui ha aggiunto: – A che ora finisci? ... tanto per saperlo.
– A mezzanotte.
– Bravo, ci manca un'ora... la passeremo bene... e poi ti daremo la mancia.
Non ho detto niente e sono rientrato nel caffè. Goffredo [...], mi ha guardato e ha visto subito che ero cambiato. Ho detto: – Due birre – con un fil di voce, appoggiandomi al banco per non svenire.
Lui mi ha dato le birre e mi ha domandato: – Ma che hai? ti senti male?–. Non gli ho risposto, ho preso le birre e sono tornato di fuori. Quello mi ha detto: – Bravo, come cameriere sei gagliardo –. [...] e ha aggiunto: – Aho, ma queste sono calde.
Ho messo la mano su una delle bottiglie: era gelata. Ho osservato a bassa voce: – Mi pare fredda –. Lui ha messo la mano sulla mia, stringendola fino a schiacciarla, e ha ripetuto: – È calda... dillo anche tu che è calda.
– È calda.
– Così va bene... portaci qualche cosa di veramente freddo.
– Un gelato –, ho proposto confuso.
– Bravo, un gelato... ma mi raccomando: freddo – e così dicendo mi ha dato un calcio alla gamba. Il tavolino era messo in modo che si poteva vederlo dal di dentro. Goffredo, come mi sono presentato al banco, ha detto ridendo: – È lui, no? [...]
In silenzio ho preso i gelati e li ho portati al tavolino. Lui, con un cucchiaino, ne ha preso un pezzo, lo ha messo in bocca e poi mi ha domandato: – Dunque, stacchi a mezzanotte...
Sono andato al bar e ho detto a bassa voce a Goffredo: – Vuol picchiarmi... mi aspetta quando chiudiamo... che debbo fare? [...]
Goffredo ha alzato le spalle e ha risposto: – [...] Vuoi un consiglio?... Chiedigli scusa.
Non avrei voluto, perché sono orgoglioso. Ma ormai la paura vinceva qualsiasi altro sentimento. Così mi sono deciso: sono andato a quel tavolo, [...] e poi, a bassa voce, ho detto: – Scusi...
– Che? – ha fatto lui guardandomi. [...]
Ormai, quasi battevo i denti dal terrore. Sapevo che mi avrebbero aspettato e mi avrebbero seguito. [...] Sono tornato nel caffè e ho detto a Goffredo: – Usciamo insieme... tu sei forte. [...] Intanto il tempo passava, la mezzanotte si avvicinava.
[...] Con terrore mi guardavo intorno cercando una via d'uscita da quella situazione.
[...] Intanto quei due avevano pagato, si erano alzati e stavano sul marciapiede di fronte.
[...] Ormai nel bar eravamo rimasti in due: io e il padrone che, in piedi dietro la cassa, faceva i conti della giornata.
[...] Ho guardato fuori: i due erano sempre là, nell'ombra di un palazzo, sul marciapiede di fronte. Poco lontano, passeggiavano due carabinieri.
Allora ho preso la mia decisione e mi sono sentito meglio.
Mi sono tolto la giacca da lavoro, ho messo la mia, mi sono avvicinato al banco come per salutare il padrone, e quindi, con rapido gesto, ho aff errato i biglietti da mille e di corsa sono uscito.
Fuggendo per la strada, ho sentito subito gridare “al ladro”, e ho capito che il piano era riuscito.
Ho continuato a fuggire ma rallentando sempre più; a piazza Fiume, gli autisti dei taxi, a quel grido di “al ladro”, si erano messi in cerchio e io mi sono lasciato circondare senza fare resistenza.
Poi sono venuti i carabinieri, il padrone che urlava, Goff redo che, al fracasso, era tornato indietro.
Vedendomi tra i carabinieri, nel mezzo di una folla, Goff redo ha capito ogni cosa e ha gridato: – Gigi che hai fatto? Perché?
Gli ho risposto, mentre mi portavano via: – La paura... meglio in galera che all'ospedale –.
Intanto il padrone che aveva riavuto i soldi, siccome era un brav'uomo, diceva: – Lasciatelo, è stato un momento di follia –.
Ma io: – Niente, portatemi in prigione... non si sa mai.