4. SAECULUM AUREUM (4)
Il primo giorno del mese di Athir, l'anno secondo della duecentoventesimasesta Olimpiade... E' l'anniversario della morte di Osiris, il dio delle agonie: lungo il fiume, da tre giorni in tutti i villaggi echeggiavano acuti lamenti. I miei ospiti romani, meno avvezzi di me ai misteri dell'Oriente, mostravano una certa curiosità per quelle cerimonie d'una razza così differente, mentr'io, al contrario, ne ero esasperato. Avevo fatto ormeggiare la mia imbarcazione a qualche distanza dalle altre, lontano da qualsiasi luogo abitato: ma, in prossimità delle rive, sorgeva un tempio faraonico semidiroccato, che aveva ancora il suo collegio sacerdotale; e non mi sottrassi del tutto al frastuono di quelle lamentazioni.
La sera precedente, Lucio mi aveva invitato a cena sulla sua barca, e vi ero andato al tramontar del sole. Antinoo aveva ricusato di seguirmi. Lo lasciai che giaceva sull'impiantito della mia cabina di poppa, disteso sulla sua pelle di leone, intento a giocare agli aliossi con Cabria. Una mezz'ora più tardi, in piena notte, mutò idea e fece chiamare un canotto. Con l'aiuto d'un solo battelliere, percorse contro corrente la distanza piuttosto considerevole che ci separava dalle altre imbarcazioni. Il suo ingresso sotto la tenda dove consumavamo la cena interruppe gli applausi provocati dalle contorsioni d'una danzatrice. S'era vestito d'una lunga tunica siriana, tenue come la buccia d'un frutto, tutta cosparsa di fiori e di ricami. Per remare più liberamente, aveva calato la manica destra; e il sudore imperlava quel suo petto levigato. Lucio gli gettò una ghirlanda che egli afferrò al volo; neppure un istante venne meno la sua gaiezza quasi stridula, sostenuta appena da una coppa di vino greco. Rientrammo insieme, nel mio canotto a sei remi, accompagnati dalla buonanotte tagliente di Lucio. L'allegria continuò. Ma, al mattino, per caso mi avvenne di toccare un viso gelato di lacrime. Chiesi ad Antinoo con impazienza la ragione di quel pianto; rispose umilmente, scusandosi d'essere stanco. Accettai quella menzogna. Mi riaddormentai. La sua vera agonia si svolse quella notte, in quel nostro letto, e al mio fianco.
Era appena giunto il corriere da Roma; la giornata trascorse a leggere e a rispondere ai dispacci. Come sempre, Antinoo andava e veniva silenzioso nella stanza; non so in qual momento quel bel levriero è uscito dalla mia vita. Verso l'ora dodicesima, entrò da me Cabria, agitatissimo. Contro ogni regola, Antinoo aveva lasciato la nostra imbarcazione senza precisare la meta e la durata della sua assenza: e, dal momento della sua uscita, erano trascorse almeno due ore. Cabria ricordò strane frasi pronunciate la sera innanzi, una raccomandazione della stessa mattina, che mi riguardava, e mi comunicò i suoi timori. Ci affrettammo a scendere sulla riva. Il vecchio pedagogo si diresse d'istinto verso una cappella situata sulla sponda, piccolo edificio isolato che faceva parte delle dipendenze del tempio, e che Antinoo e lui avevano visitato insieme. Su un tavolo da offerte, c'erano le ceneri di un sacrificio, ancora tiepide. Cabria vi immerse le dita e ne trasse, quasi intatto, un ricciolo di capelli recisi.
Non ci restava che esplorare le rive. Una serie di caverne, che in altri tempi avevano dovuto servire a cerimonie sacre, comunicavano con un'ansa del fiume: sulla sponda dell'ultima di esse, nel crepuscolo che scendeva rapido, Cabria scorse un abito ripiegato e un paio di sandali. Scesi quei gradini sdrucciolevoli: era disteso sul fondo, già affondato nella melma del fiume. Con l'aiuto di Cabria, riuscii a sollevare quel corpo che improvvisamente era diventato pesante come la pietra. Cabria lanciò un richiamo ad alcuni battellieri, i quali improvvisarono una barella di tela. Ermogene, chiamato d'urgenza, non poté far altro che constatarne la morte. Quel corpo tanto docile si rifiutava di lasciarsi riscaldare, di rivivere. Lo trasportammo a bordo. Tutto crollò attorno a me, tutto sembrò spegnersi. Zeus Olimpico, il Padrone di tutte le cose, il Salvatore del Mondo precipitò: non vi fu più che un uomo dai capelli grigi che singhiozzava, sul ponte d'una barca.
Due giorni dopo, Ermogene riuscì a farmi pensare alle esequie. I riti di sacrificio di cui Antinoo aveva voluto circondar la sua fine c'indicavano una sola via da seguire: non era certo un caso se l'ora e il giorno di quella morte coincidevano con quelli in cui Osiris scende nella tomba. Mi recai a Ermopoli, sull'altra riva, dagli imbalsamatori: ad Alessandria, avevo visto all'opera i loro colleghi; sapevo quali oltraggi stavo per infliggere a quel corpo. Ma è orrendo anche il fuoco, che brucia e carbonizza quella carne che fu amata; e anche la terra, dove i morti imputridiscono. La traversata fu breve; accucciato in un angolo della cabina di poppa, Euforione salmodiava con voce sommessa non so quale funebre lamentela africana; quel canto rauco e soffocato mi sembrava quasi il mio stesso pianto. Trasportammo il morto in una sala lavata con acque copiose, che mi ricordava la clinica di Satiro; aiutai il modellatore a ungere d'olio quel volto caro, prima di applicarvi la cera. Tutte le metafore ritrovavano un senso: ho tenuto quel cuore tra le mani. Quando lo lasciai, il corpo vuoto non era più che una preparazione anatomica, il primo stadio d'un capolavoro atroce, una sostanza preziosa trattata con sale e mirra ben conservata, che l'aria e il sole non toccherebbero mai più.
Al mio ritorno, visitai il tempio nei pressi del quale il sacrificio s'era consumato; parlai con i sacerdoti. Il loro santuario, rinnovato, tornerà a essere meta di pellegrinaggi da tutto l'Egitto; il loro collegio sarà arricchito, incrementato, e per l'avvenire si consacrerà al culto del mio dio. Neppure nei momenti più opachi, avevo dubitato che quella giovinezza fosse divina. La Grecia e l'Asia lo venereranno secondo le nostre usanze, con giochi, danze, offerte rituali ai piedi d'una sua statua bianca e ignuda. L'Egitto, che aveva assistito alla sua agonia, parteciperà anch'esso all'apoteosi; la più tenebrosa, la più segreta, la più dura: questo paese dovrà rappresentare, per lui, in eterno, il ruolo dell'imbalsamatore. Per secoli, i sacerdoti dal cranio rasato reciteranno salmodie nelle quali figurerà questo nome, per loro senza valore, ma che per me significa tutto. Ogni anno, la nave sacra trasporterà quella effigie sul fiume, il primo giorno del mese di Athyr, e le prefiche percorreranno quella sponda che io avevo percorso. Ogni ora ha la sua incombenza immediata, la sua ingiunzione che sovrasta ogni altra: quella del momento era di difendere contro la morte il poco che mi restava. Flegone aveva chiamato a raccolta per me sulla riva del fiume gli architetti e gli ingegneri del mio seguito; sostenuto da una specie di ebbrezza lucida, me li trascinai su per le colline sassose; spiegai loro il mio piano, il tracciato dei quarantacinque stadi di muro di cinta; segnai sulla sabbia il luogo dell'arco di trionfo, e quello della tomba. Qui sarebbe sorta Antinopoli; era già quasi vincere la morte, l'imporre a quella terra sinistra una città tutta greca, un bastione che avrebbe tenuto in soggezione i nomadi dell'Eritrea, un nuovo mercato sulle strade dell'India. Alessandro aveva celebrato le esequie di Efestio con devastazioni ed eccidi; mi sembrava più bello offrire al mio prediletto una città dove il suo culto sarebbe stato associato per sempre all'andirivieni di una pubblica piazza, dove il suo nome sarebbe tornato nelle conversazioni, ogni sera, e dove i giovani si sarebbero gettati ghirlande, all'ora dei banchetti. Ma, su questo punto, il mio pensiero esitava: mi sembrava impossibile abbandonare quel corpo in suolo straniero. Come chi è incerto della prossima tappa, e prenota l'alloggio in più di una locanda, così io gli ordinai a Roma un monumento in riva al Tevere, presso la mia tomba; e pensai pure alle cappelle egizie che, per capriccio, avevo fatto costruire nella Villa a che tutto a un tratto diventavano tragicamente utili. Stabilii il giorno delle esequie, che avrebbero avuto luogo allo scadere dei due mesi richiesti dagli imbalsamatori. Affidai a Mesomene l'incarico d'istruire cori funebri. Tornai a bordo assai tardi, nella notte. Ermogene mi preparò una pozione per conciliarmi il sonno.
Continuammo a risalire il fiume, ma io navigavo sullo Stige. Nei campi dei prigionieri, in riva al Danubio, avevo visto una volta alcuni sventurati, adagiati a un muro, colpirsi continuamente la fronte con un moto selvaggio, dolce e insensato, ripetendo senza posa un nome. Nei sotterranei del Colosseo, mi avevano mostrato leoni che deperivano perché era stato portato via il cane con il quale li avevano abituati a vivere. Raccolsi le mie idee: Antinoo era morto. Da bambino, avevo urlato sul cadavere di Marullino beccato dalle cornacchie, ma così come urla di notte un animale privo della ragione. Mio padre era morto, ma l'orfanello dodicenne ch'io ero non aveva notato che il disordine della casa, i pianti della madre e il proprio terrore; non aveva saputo nulla dei momenti atroci che il morente aveva attraversato. Mia madre era morta molto più tardi, all'epoca della mia missione in Pannonia; non ne ricordavo neanche esattamente la data. Traiano non era stato che un infermo al quale si trattava di far fare testamento. Plotina, non l'avevo vista morire. Anche Attiano era morto: era vecchio. Durante le guerre trace, avevo perduto compagni d'arme che credevo di amare; ma eravamo giovani, la vita e la morte erano egualmente inebrianti e dolci. Antinoo era morto... Mi tornavano alla mente luoghi comuni uditi tante volte: si muore a tutte le età; muoiono giovani quelli che sono amati dagli déi. Anch'io avevo preso parte a questo infame abuso di parole: avevo detto: «morire di sonno», «morire di noia». M'ero espresso con le parole: «agonia», «lutto», «perdita» . E Antinoo era morto...
L'Amore, il più saggio degli dèi... Ma l'amore non era responsabile di quella negligenza, di quelle asprezze, di quella indifferenza, mescolate alla passione come la sabbia all'oro trascinato da un fiume, di quell'accecamento grossolano d'uomo troppo felice, e che invecchia. Avevo potuto essere così sordidamente soddisfatto? Antinoo era morto... Lungi dall'amarlo troppo, come senza dubbio in quel momento Serviano pretendeva a Roma, non avevo amato abbastanza quel fanciullo da obbligarlo a vivere. Cabria, che, nella sua qualità di iniziato orfico, considerava il suicidio un delitto, insisteva sull'aspetto di quella fine; provavo io stesso una specie di gioia orrenda a ripetermi che quella morte era un dono. Ma ero solo a misurare quanto fiele fermenti nel fondo della dolcezza, quanta disperazione si celi nell'abnegazione, quanto odio si mescoli all'amore. Un essere oltraggiato mi gettava in viso quella prova di devozione; un fanciullo, nell'ansia di perder tutto, aveva trovato quel mezzo per legarmi per sempre a lui. Se con quel suo sacrificio aveva sperato di proteggermi, aveva dovuto credersi amato ben poco per non sentire che perderlo sarebbe stato per me il peggiore dei mali.
Le lacrime cessarono: i dignitari che mi avvicinavano non dovevano più distogliere lo sguardo dal mio viso, come se il pianto fosse una vista oscena. Ricominciarono le ispezioni a fattorie modello e a canali d'irrigazione; poco importava come impiegare le ore. Già mille dicerie infondate correvano nel mondo a proposito della mia sciagura; persino nelle imbarcazioni che accompagnavano la mia, circolavano versioni atroci, a mio disdoro; non me ne curavo: la verità non era di quelle che si possono proclamare per le strade. Le più perfide invenzioni avevano una parvenza di verità, a modo loro; mi si accusava di averlo sacrificato, e, in un certo senso lo avevo fatto. Ermogene che mi riferiva fedelmente quelle dicerie, si fece latore di qualche messaggio da parte dell'imperatrice: si comportò con decoro: lo si fa quasi sempre, in presenza della morte. Quella compassione poggiava su un equivoco: si accettava di compiangermi, purché mi consolassi abbastanza presto. E io stesso, mi credevo quasi placato; ne arrossivo, quasi. Non sapevo che il dolore ripiega in labirinti strani, dove non avevo ancora finito di addentrarmi.
Si tentava di tutto per distrarmi. Pochi giorni dopo l'arrivo a Tebe, seppi che l'imperatrice, col suo seguito, già due volte si era recata ai piedi del Colosso di Memnone, nella speranza di udire il suono misterioso che quella pietra manda all'aurora, un fenomeno celebre al quale tutti i viaggiatori sperano di assistere. Il prodigio non aveva avuto luogo; immaginavano superstiziosamente che si sarebbe operato in mia presenza. Acconsentii ad accompagnare le donne l'indomani: tutti i mezzi erano buoni per abbreviare la durata interminabile di quelle notti d'autunno. Quel mattino, verso l'ora undecima, entrò nella mia camera Euforione per ravvivare la lampada e aiutarmi a indossare le vesti. Uscii sul ponte; il cielo, ancora tutto nero, era come il cielo di bronzo dei poemi di Omero, indifferente alle gioie e alle sofferenze umane. Erano più di venti giorni che quella cosa era avvenuta. Presi posto nel canotto; e il breve percorso si svolse tra le grida e la paura delle donne.
Approdammo poco lungi dal Colosso; una fiamma d'un rosa scialbo si allungò a Oriente; cominciava un altro giorno. Il suono misterioso si produsse tre volte; somiglia a quello che si fa spezzando la corda d'un arco. L'inesauribile Giulia Balilla snocciolò immediatamente una serie di poesie. Le donne iniziarono la visita ai templi; le accompagnai per un poco lungo le mura intarsiate di geroglifici monotoni. Ero tediato a morte da quelle figure colossali di re tutti eguali, seduti l'uno accanto all'altro, i piedi lunghi e piatti posati come oggetti; da quei blocchi inerti nei quali nulla è presente di quel che per noi è la vita, né il dolore, né la voluttà, né il moto che libera le membra, né il pensiero che organizza il mondo intorno a una testa reclina. I sacerdoti che mi guidavano sembravano male informati, come me, su quelle esistenze scomparse; di tanto in tanto, nasceva una discussione a proposito d'un nome. Si sapeva vagamente che ognuno di quei monarchi aveva ereditato un regno, governato i suoi popoli, e generato il suo successore: non restava nient'altro. Quelle dinastie oscure risalivano a età più antiche di Roma, più antiche di Atene, più ancora del giorno in cui Achille morì sotto le mura di Troia, più del ciclo astronomico di cinquemila anni calcolato da Menone per Giulio Cesare. Stremato, congedai i sacerdoti; mi riposai un po' all'ombra del Colosso prima di risalire in barca. Le gambe del Colosso erano coperte sino al ginocchio di iscrizioni greche tracciate da viaggiatori: nomi, date, una preghiera; un certo Servio Soave, un tale Eumene avevano sostato in quel punto medesimo sei secoli prima di me, un certo Panio aveva visitato Tebe sei mesi avanti... Sei mesi avanti... Mi prese un capriccio, che non avevo avuto più dall'epoca in cui, bambino, scrivevo il mio nome sulla corteccia dei castagni, in Spagna: l'imperatore che si rifiutava di far incidere i suoi titoli e i suoi attributi sui monumenti che aveva edificati, dié di piglio alla daga e incise su quella pietra dura poche lettere greche, una forma abbreviata e familiare del suo nome: ADRIANO... Era ancora un opporsi al tempo: un nome, una somma di vita di cui nessuno calcolerà gli elementi innumerevoli, un segno lasciato da un uomo smarrito in quella successione di secoli. Improvvisamente, mi tornò alla mente che eravamo al ventisettesimo giorno del mese di Athyr, il quinto, prima delle nostre calende di dicembre. Era il compleanno di Antinoo: se fosse vissuto, quel giorno avrebbe avuto vent'anni.
Risalii a bordo; la piaga chiusa troppo presto si era riaperta; piansi, il viso affondato in un guanciale che Euforione mi passò sotto il capo. Quel cadavere e io partivamo alla deriva, trascinati in senso contrario da due correnti del tempo. Era il quinto giorno prima delle calende di dicembre, il primo del mese di Athyr: ogni istante che passava faceva affondare quel corpo, copriva quella fine. Risalivo la china sdrucciolevole: con le unghie tentavo d'esumare quella giornata morta. Flegone, seduto di fronte alla porta, non rammentava l'andirivieni nella cabina di poppa se non per quella striscia bianca di luce che l'aveva infastidito tutte le volte che una mano spingeva il battente. Come chi è accusato d'un delitto, tentavo di ricordare come avessi impiegato le mie ore: una dettatura, una risposta al Senato di Efeso; a quale gruppo di parole corrispondeva quell'agonia? Ricostruivo il cedere della passerella sotto i passi affrettati, le sponde aride, il lastricato piatto; il coltello che recide un ricciolo sulla tempia; il corpo inclinato; la gamba ripiegata per consentire alla mano di sciogliere il sandalo; e poi aprire le labbra, serrando gli occhi. C'era voluta una risoluzione disperata, da parte di quel buon nuotatore, per lasciarsi soffocare dalla melma nerastra. Cercai di percorrere col pensiero la rivoluzione attraverso la quale passeremo tutti, il cuore che s'arresta, il cervello che rinuncia al pensiero, i polmoni che cessano di aspirare la vita. Anch'io subirò uno sconvolgimento analogo; morirò, un giorno. Ma ogni agonia è diversa; i miei sforzi per figurarmi quella d'Antinoo non pervenivano che a una costruzione priva di valore: era morto solo.
Ho resistito; ho lottato contro il dolore come contro una cancrena. Ho ricordato le sue caparbietà, le sue bugie; mi son detto che sarebbe mutato, ingrassato, invecchiato. Fatica sprecata: come un artigiano coscienzioso si logora a copiare un capolavoro, così io mi accanivo a pretendere dalla mia memoria una esattezza insensata. Ricreavo quel petto alto e curvo come una corazza; a volte, l'immagine scaturiva da sola; un'onda di dolcezza mi sommergeva; avevo rivisto un frutteto a Tivoli, l'efebo nell'atto di raccogliere le frutta dell'autunno nella tunica sollevata come un canestro. Mi mancava tutto: il compagno delle feste notturne, il giovinetto che si abbassava sui talloni per aiutare Euforione a disporre le pieghe della mia toga. A dar retta ai sacerdoti, anche l'ombra soffriva, rimpiangeva l'asilo caldo che era per lei il suo corpo, e frequentava gemendo i paraggi familiari, remota e vicina, momentaneamente troppo debole per farmi intendere la sua presenza. Se era vero, la mia sordità al suo richiamo era peggiore persino della morte. Ma avevo forse compreso, quella mattina, il giovane che ancor vivo mi singhiozzava al fianco? Una sera, Cabria mi chiamò per indicarmi una stella, nella costellazione dell'Aquila, che era stata appena visibile fino allora e che improvvisamente palpitava come una gemma, batteva come un cuore. Ne feci la sua stella, il suo segno. Ogni notte, mi esaurivo a seguirne il corso; ho scorto strane figure in quella parte del cielo. Mi ritennero folle. Ma non m'importava.