23. Il deserto dei Tartari (C. 28-29)
Passarono un giorno e una notte, il maggiore Giovanni Drogo giaceva nel letto, ogni tanto giungeva il ritmico tonfo della cisterna e nessun altro rumore, benché in tutta la Fortezza crescesse ad ogni minuto un ansioso fermento. Isolato da tutto, Drogo se ne stava steso ad ascoltare il proprio corpo, se mai le perdute forze cominciassero a tornare. Il dottor Rovina gli aveva detto che sarebbe stata questione di pochi giorni. Ma di quanti in realtà? Avrebbe potuto, al sopraggiungere dei nemici, alzarsi almeno in pie di, vestirsi, trascinarsi fino sul tetto del Forte? Di quando in quando si levava dal letto, ogni volta che gli pareva di sentirsi un po' meglio, camminava senza appoggiarsi fin dinanzi allo specchio ma qui l'immagine sinistra della sua faccia, sempre più terrea e scavata, spegneva le nuove speranze. Annebbiato dal capogiro ritornava barcollando al letto, malediceva il medico che non lo riusciva a guarire.
Già la striscia di sole sul pavimento aveva fatto ampio giro, dovevano essere almeno le undici, voci inconsuete si alzavano dal cortile e Drogo giaceva immobile, con gli sguardi al soffitto, quando entrò nella camera il tenente colonnello Simeoni, comandante della Fortezza.
"Come va?" chiese vivamente. "Un po' meglio? Ma sei ben pallido, sai?"
"Lo so" rispose Drogo, freddo. "E dal nord sono venuti avanti?"
"Altro che avanti" disse Simeoni. "Le artiglierie sono già in cima al gradone, e adesso le stanno postando… ma tu deve scusarmi se non sono venuto… è diventato un inferno qui. Questo pomeriggio arrivano i primi rinforzi, ho trovato solo adesso cinque minuti liberi…"
Drogo disse, e si stupì di sentir tremare la propria voce: "Domani spero di alzarmi, ti potrò aiutare un poco".
"Ah, no no, non pensarci, pensa a guarire adesso, e non credere che ti abbia dimenticato. Ho anzi una buona notizia: oggi verrà una magnifica carrozza a prenderti. Guerra o non guerra, gli amici prima di tutto…" osò dire.
"Una carrozza a prendermi? Perché a prendermi?"
"Ma sì, per venirti a prendere. Non vorrai stare sempre in questa stanzaccia, in città ti curerai meglio, entro un mese sarai rimesso in gamba. E non darti pensiero di qui, oramai il più è superato." Un'ira tremenda si ingorgò nel petto di Drogo. Lui, che aveva buttato via le cose migliori della vita per aspettare i nemici, che da più di trent'anni si era nutrito di quell'unica fede, lo cacciavano via proprio adesso, che finalmente la guerra arrivava?
"Dovevi chiedermelo, almeno" rispose con voce tre mante dall'ira. "Io non mi muovo, io voglio stare qui, sono meno malato di quanto tu creda, io domani mi alzo…"
"Non agitarti per carità, non ne faremo niente, se ti agiti starai ancora peggio" fece Simeoni con uno stentato sorriso di comprensione.
"Solo che mi pareva molto meglio, anche Rovina lo dice…"
"Che cosa Rovina? È Rovina che ti ha detto di far venire la carrozza?" "No, no. Della carrozza non si è parlato con Rovina. Ma lui dice che faresti bene a cambiar aria."
Drogo allora pensò di parlare a Simeoni come a un amico vero, di aprire il suo animo, come avrebbe fatto con Ortiz; anche Simeoni dopo tutto era un uomo.
"Senti Simeoni" provò, cambiando tono. "Tu lo sai che qui alla Fortezza… si è rimasti tutti per la speranza… È difficile dire, ma anche tu lo sai bene" (non riusciva proprio a spiegarsi: come far intendere certe cose a un uomo simile?) "se non fosse stato per questa possibilità…"
"Non capisco" disse Simeoni con evidente fastidio. (Diventava anche patetico Drogo? pensò. La malattia l'aveva così rammollito?)
"Ma sì che devi capire" insistette Giovanni. "È più di trent'anni che sono qui ad aspettare… ho lasciato andare molte occasioni.
Trent'anni sono qualcosa, tutto per aspettare questi nemici. Non puoi pretendere adesso… Non puoi pretendere adesso che me ne vada, non puoi pretendere, ho un certo diritto di rimanere, mi pare…"
"Bene" ribatté Simeoni irritato. "Credevo di farti un favore e tu mi rispondi in questo modo. Non valeva proprio la pena. Ho mandato due portaordini apposta, ho fatto ritardare apposta la marcia di una batteria per lasciar passare la carrozza."
"Ma non dico mica niente a te" fece Drogo. "Ti sono anzi riconoscente, tu l'hai fatto a fin di bene, lo capisco" (oh che pena, pensava, doversi tener buona quella carogna) "del resto la carrozza può fermarsi qua, adesso non sono neanche in condizioni di far un viaggio simile" aggiunse incautamente.
"Poco fa dicevi che domani ti alzi, adesso dici di non poter neanche montare in carrozza, scusami ma non sai neanche tu cosa ti vuoi…" Drogo cercò di aggiustare: "Oh, no, è ben diverso, una cosa è fare un viaggio simile e un'altra andare fin sul cammino di ronda, posso anche portarmi una panchetta e sedermi se mi sento debole" (aveva pensato di dire una "sedia" ma la cosa poteva sembrare ridicola) "di là posso controllare il servizio, posso almeno vedere".
"Resta, resta allora!" fece come per concludere Simeoni "ma non so dove metterò a dormire gli ufficiali che arrivano, non posso mica metterli nei corridoi, non posso mica metterli in cantina! In questa stanza tre letti ci potevano stare…"
Drogo lo guardò agghiacciato. A tanto arrivava dunque Simeoni? Voleva spedir via lui Drogo per avere una stanza libera? Unicamente per questo? Altro che premura e amicizia. Doveva capirlo fin da principio, pensò Drogo, doveva bene aspettarselo da una canaglia simile.
Siccome Drogo taceva, Simeoni, incoraggiato, insistette: "Tre letti qui ci possono stare benissimo. Due lungo quella parete e il terzo in quell'angolo. Vedi?, Drogo, se tu mi ascolti" specificò senza più il minimo riguardo umano "se tu mi ascolti in fondo mi faciliti il compito, mentre a star qui, scusa sai se te lo dico, non vedo che cosa tu possa fare di utile, nelle condizioni che sei."
"Bene" lo interruppe Giovanni. "Ho capito, adesso basta, ti prego, ho anche mal di testa."
"Scusami" disse l'altro "scusami se insisto, ma vorrei sistemarla subito questa faccenda. Oramai la carrozza è in viaggio, Rovina è favorevole alla partenza, qui resterebbe libera una stanza, tu guarisci più presto e in fondo anch'io a tenerti qui malato, mi prendo una bella responsabilità, se poi succedesse una disgrazia. Mi obblighi ad assumere una bella responsabilità, te lo dico sinceramente."
"Senti" rispose Drogo, ma capiva come fosse assurdo lottare; intanto fissava la striscia di sole che stava salendo lungo la parete di legno allungandosi di sghembo. "Scusami se ti dico di no, ma preferisco restare. Tu non avrai nessuna grana, te lo garantisco, se vuoi ti faccio una dichiarazione scritta. Va là, Simeoni, lasciami tranquillo, forse ho poco tempo da vivere, lascia che io stia qui, sono più di trent'anni che dormo in questa stanza…"
L'altro tacque un momento, fissò con disprezzo il collega ammalato, ebbe un cattivo sorriso, poi chiese con voce alterata: "E se io te lo chiedessi come superiore? Se il mio fosse un ordine, tu cosa potresti dire?" e qui fece una pausa assaporando l'impressione prodotta.
"Questa volta, caro Drogo, non dimostri il tuo solito spirito militare, mi dispiace di dovertelo dire, ma in fin dei conti te ne vai al sicuro, chissà quanti farebbero il cambio con te. Ammetto anche che ti dispiaccia, ma non si può mica avere tutto in questa vita, bisogna pur farsi una ragione… Adesso ti mando il tuo attendente, che ti prepari le cose, per le due la carrozza dovrebbe essere qui. Ci vediamo più tardi, allora…"
Così disse e se n'andò in fretta, deliberatamente, per non lasciare a Drogo il tempo per nuove obiezioni. Chiuse la porta con grande precipitazione, si allontanò per il corridoio a passi svelti, da persona soddisfatta di sé, che domina perfettamente la situazione. Rimase un greve silenzio. Ploc! fece dietro al muro l'acqua della cisterna. Poi non si udì nella camera che l'ansimare di Drogo, alquanto simile a un singhiozzo. E fuori la giornata era al suo più grande splendore, perfino le pietre cominciavano a intiepidirsi, lontano ed uguale si sentiva il suono dell'acqua sulle precipitose pareti, i nemici si ammassavano sotto l'ultimo gradone al cospetto della Fortezza, per la strada della pianura scendevano ancora truppe e carriaggi. Sugli spalti del Forte tutto è pronto, le munizioni in regola, i soldati ben disposti, le armi verificate. Tutti gli sguardi sono al nord, anche se non si vede niente per via delle montagne davanti (solo dalla Ridotta Nuova si può osservare bene tutto quanto). Così come in quei giorni lontani quando erano giunti gli stranieri per delimitare i confini, come allora c'è una sospensione di animi, fra alterni soffi di paura e di gioia. Comunque nessuno ha il tempo per ricordarsi di Drogo, il quale sta vestendosi, aiutato da Luca, e si prepara a partire.
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Capitolo 29
Come carrozza era effettivamente una dignitosa carrozza, perfino esagerata su quelle rustiche strade. Poteva sembrare di un ricco signore se non ci fosse stato sugli sportelli lo stemma di un reggimento. In serpa erano due soldati, il cocchiere e l'attendente di Drogo.
Nessuno, in mezzo al trambusto della Fortezza, dove già arrivavano i primi scaglioni di rinforzi, fece molta attenzione a un ufficiale magro, dal volto smunto e giallastro, che scendeva lentamente le scale, si avviava all'andito di ingresso e usciva fuori dove era ferma la carrozza.
Sulla spianata, inondata di sole, si vedeva in quel momento avanzare una lunga schiera di soldati, di cavalli e di muli, proveniente dalla valle. Benché stanchi per la marcia forzata, i militari acceleravano il passo quanto più si facevano vicini alla Fortezza e i musicanti, in testa, furono visti togliere le fodere di tela grigia agli strumenti come se si accingessero a suonare.
Qualcuno intanto salutava Drogo, ma pochi e non più come prima. Tutti sapevano, pareva, che egli se ne stava andando e che oramai non contava più niente nella gerarchia della Fortezza. Il tenente Moro e qualche altro vennero a dargli il buon viaggio; fu però un saluto brevissimo, con quella affettuosità generica ch'è propria dei giovani verso le vecchie generazioni. Uno disse a Drogo che il signor comandante Simeoni lo pregava di aspettare, in quel momento era impegnatissimo, il signor maggiore Drogo avesse la bontà di pazientare qualche minuto, il signor comandante sarebbe venuto senza fallo. Salito che fu in carrozza, Drogo diede invece subito ordine di partire. Aveva fatto abbassare il soffietto per respirare di più, si era avvolto attorno alle gambe due o tre coperte scure sulle quali spiccava lo scintillio della sciabola.
Traballando sui sassi, la carrozza si avviò per la sassosa spianata, la via di Drogo volgendo così all'ultimo termine. Voltato da un lato sul sedile, la testa dondolando a ogni urto delle ruote, Drogo fissava i muri gialli della Fortezza che si facevano sempre più bassi.
Lassù era passata la sua esistenza segregata dal mondo, per aspettare il nemico egli si era tormentato più di trent'anni e adesso che gli stranieri arrivavano, adesso lo cacciavano via. Ma i suoi compagni, gli altri che giù nella città avevano menato una vita facile e lieta, eccoli adesso arrivare al valico, con superiori sorrisi di sprezzo, a far bottino di gloria.
Gli occhi di Drogo fissavano come non mai le giallastre pareti della Fortezza, le sagome geometriche di casematte e polveriere. Lacrime lente e amarissime calavano giù per la pelle raggrinzita, tutto finiva miseramente e non restava nulla da dire.
Nulla, proprio nulla restava disponibile a favore di Drogo, egli era solo al mondo, malato, e l'avevano cacciato via come un lebbroso. Maledetti, maledetti, diceva. Ma poi preferiva lasciarsi andare, non pensare più a niente, altrimenti un insopportabile rigurgito d'ira gli si gonfiava nel petto. Il sole era già sulla via discendente, pur rimanendogli parecchia strada da fare, i due soldati in serpa chiacchieravano tranquillamente, indifferenti al rimanere o al partire. Essi avevano preso la vita come veniva, senza angustiarsi con pensieri assurdi. La carrozza, di ottima costruzione, una vera carrozza da malato, oscillava ad ogni buca del terreno come delicata bilancia. E la Fortezza, nell'insieme del panorama, si faceva sempre più piccola e piatta, sebbene le sue mura risplendessero stranamente in quel pomeriggio di primavera.
L'ultima volta, molto probabilmente, pensò Drogo quando la carrozza giunse al ciglio della spianata, là dove la strada cominciava a immergersi nella valle. "Addio Fortezza", si disse. Ma Drogo era un po' instupidito e non ebbe neppure il coraggio di far fermare i cavalli, per dare ancora uno sguardo alla vecchia bicocca, che solo adesso, dopo secoli, stava per cominciare la giusta vita. Per un istante ancora rimase negli occhi di Drogo l'immagine della mura giallicce, dei bastioni a sghembo, delle misteriose ridotte, delle rupi laterali nere per il disgelo. Parve a Giovanni ma fu un infinitesimo di tempo - che le mura si allungassero improvvisamente verso il cielo, balenando di luce, poi ogni vista fu tolta brutalmente dalle rocce erbose contro cui sprofondava la strada.
Giunse verso le cinque a una piccola locanda, là dove la strada correva sul fianco della gola. In alto, come un miraggio si levavano caotiche creste di erba e di terra rossa, monti desolati dove forse mai era stato l'uomo. Nel fondo correva il torrente. La carrozza si fermò sul breve piazzale dinanzi alla locanda proprio mentre passava un battaglione di moschettieri. Drogo vide passargli attorno volti giovanili, rossi per il sudore e la fatica, occhi che lo fissavano con meraviglia.
Solo gli ufficiali lo salutarono. Sentì una voce, fra quelli che si erano allontanati: "Va comodo, il vecchietto!". Non seguì però nessuna risata. Mentre loro andavano alla battaglia, lui scendeva alla pianura vile. Che ridicolo ufficiale, pensavano probabilmente quei soldati, a meno che non gli avessero letto sul volto che anche lui andava a morire.
Non riusciva a liberarsi di quel vago intontimento, simile a nebbia: forse era stato il dondolio della carrozza, forse la malattia, forse semplicemente il dolore di vedere finire miseramente la vita. Non gli importava più di nulla, assolutamente. L'idea di rientrare nella sua città, di girare a passi strascicati per la vecchia casa deserta o di giacere in un letto per lunghi mesi di noia e di solitudine gli faceva paura. Non aveva nessuna fretta di arrivare. Decise di passare la notte nella locanda.
Aspettò che il battaglione fosse interamente passato, la polvere sollevata dai soldati ricaduta sui loro passi, il rombo dei loro carriaggi coperto dalla voce del torrente. Poi scese adagio dalla carrozza, appoggiandosi alle spalle di Luca.
Sulla soglia era seduta una donna, intenta a lavorare di calza e ai suoi piedi dormiva, in una rustica culla, un bambino. Drogo guardò stupito quel sonno meraviglioso, così diverso da quello degli uomini grandi, così delicato e profondo. Non erano ancora nati in quell'essere i torbidi sogni, la piccola anima navigava spensierata senza desideri o rimorsi per un'aria pura e quietissima. Drogo stette fermo a rimirare il bambino dormiente, una acuta tristezza gli entrava nel cuore. Cercò di immaginare se stesso immerso nel sonno, singolare Drogo che mai egli aveva potuto conoscere. Si prospettò l'aspetto del proprio corpo, bestialmente assopito, scosso da oscuri affanni, il respiro greve, la bocca socchiusa e cadente. Eppure anche lui un giorno aveva dormito come quel bambino, anche lui era stato grazioso e innocente e forse un vecchio ufficiale malato si era fermato a guardarlo, con amaro stupore. "Povero Drogo", si disse, e capiva come ciò fosse debole, ma dopo tutto egli era solo al mondo, e fuor che lui stesso nessun altro lo amava.