4. Il deserto dei Tartari (C.4-5)
Molte volte egli era stato solo: in alcuni casi anche da bambino, smarrito per la campagna, altre volte nella città notturna, nelle vie abitate dai delitti, e persino la notte prima, che aveva dormito per strada. Ma adesso era una cosa ben diversa, adesso ch'era finita l'eccitazione del viaggio, e i suoi nuovi colleghi erano già a dormire, e lui sedeva nella sua camera, alla luce della lampada, sul bordo del letto, triste e sperduto. Adesso sì capiva sul serio che cosa fosse solitudine (una camera non brutta, tutta tappezzata di legno, con un grande letto, un tavolo, un incomodo divano, un armadio). Tutti erano stati gentili con lui, alla mensa avevano aperto una bottiglia in suo onore, ma adesso di lui se ne infischiavano, l'avevano già completamente dimenticato (sopra il letto un crocefisso di legno, dall'altra parte una vecchia stampa con una lunga scritta di cui si leggono le prime parole: "Humanissimi Viri Francisci Angloisi virtutibus"). Nessuno per la durata dell'intera notte sarebbe entrato a salutarlo; nessuno in tutta la Fortezza pensava a lui e non solo nella Fortezza, probabilmente anche in tutto il mondo non c'era un'anima che pensasse a Drogo; ciascuno ha le proprie occupazioni, ciascuno basta appena a se stesso, persino la mamma, poteva darsi, persino lei in questo momento aveva in mente altre cose, di figlioli non c'era soltanto lui, a Giovanni aveva pensato tutto il giorno, adesso toccava un po' anche agli altri. Più che giusto, ammetteva Giovanni Drogo senza ombra di rimprovero, ma intanto egli era seduto sul bordo del letto, nella camera della Fortezza (incisa nel legno della parete, adesso notava, colorata con straordinaria pazienza, una sciabola in grandezza naturale, che poteva a prima vista sembrare anche vera, meticoloso lavoro di qualche ufficiale, chissà mai quanti anni addietro) era seduto dunque sul bordo del letto, la testa un po' piegata in avanti, la schiena curva, gli sguardi atoni e pesanti, e si sentiva solo come mai nella vita.
Ed ecco Drogo alzarsi con uno sforzo, aprire la finestra, guardare fuori. La finestra dava sul cortile e non si vedeva niente altro. Poiché guardava verso sud, Giovanni cercò invano di distinguere, nella notte, le montagne che aveva attraversato per giungere alla Fortezza; esse risultavano più basse, nascoste dal muro di fronte.
Solo tre finestre erano illuminate, ma appartenevano alla sua medesima facciata, cosicché dentro non si vedeva; il loro alone di luce, e quello della stanza di Drogo, si stampavano sul muro opposto ingigantiti e in uno di essi si agitava un'ombra, forse un ufficiale stava spogliandosi.
Chiuse la finestra, si spogliò, si mise a letto, restò qualche minuto a pensare, fissando il soffitto, pure rivestito di legno. Si era dimenticato di portarsi da leggere, ma quella sera non gli importava perché sentiva un gran sonno. Spense la lampada, dal buio a poco a poco emerse il rettangolo chiaro della finestra e Drogo vide brillare le stelle.
Gli parve che un torpore improvviso lo trascinasse nel sonno. Ma ne aveva troppo coscienza. Una baraonda di immagini, quasi di sogno, gli passarono davanti, cominciavano persino a formare una storia; ma dopo qualche istante si accorse di essere ancora sveglio.
Sveglio più di prima, perché lo colpì la vastità del silenzio. Lontanissimo, ma era poi vero? giunse un colpo di tosse. Poi, vicino, un flaccido "ploc" d'acqua, che si propagò per i muri. Una piccola stella verde (egli vedeva rimanendo immobile) stava, nel suo viaggio notturno, raggiungendo il limite superiore della finestra, fra poco sarebbe sparita; scintillò un attimo proprio sul bordo nero e poi infatti scomparve. Drogo la volle seguire ancora un po', spostando in avanti la testa. In quel punto si udì un secondo "ploc", simile al tonfo di un oggetto nell'acqua. Si sarebbe ripetuto ancora? Aspettò in agguato il suono, rumore da sotterranei, da acquitrini, da case morte. Passarono minuti immobili, il silenzio assoluto pareva, finalmente, incontrastato signore della Fortezza. E di nuovo premevano intorno a Drogo insensate immagini della vita lontana.
"Ploc!" eccolo ancora l'odioso suono. Drogo si mise a sedere. Quello era dunque un rumore a ripetizione; gli ultimi tonfi non erano poi stati minori del primo, non poteva essere dunque stillicidio in via di esaurimento. Come era possibile dormire? Drogo si ricordò che di fianco al letto pendeva un cordone, forse di un campanello. Provò a tirare, il cordone cedette e in un remoto meandro dell'edificio rispose, quasi impercettibile, un breve tintinnio. Che stupidaggine, pensò adesso Drogo, chiamare gente per una simile inezia. E chi sarebbe poi venuto?
Nel corridoio, fuori, risuonarono dopo poco dei passi, si fecero sempre più vicini, qualcuno bussò alla porta. "Avanti!" fece Drogo. Comparve un soldato con una lanterna in mano: "Comandi, signor tenente?"
"Qui non si può dormire, perdio!" fece Drogo arrabbiandosi a freddo. "Che cos'è questo schifoso rumore? Qualche tubo che spande, guarda di farlo finire, non si può assolutamente dormire: alle volte basta mettere uno straccio sotto."
"È la cisterna" rispose il soldato immediatamente, come se fosse pratico della cosa. "È la cisterna, signor tenente, non c'è niente da fare."
"La cisterna?"
"Sissignore" spiegò il soldato. "La cisterna dell'acqua, proprio dietro quel muro. Tutti si lamentano, ma non si è potuto far niente. Non è mica solo qui che si sente. Anche il signor capitano Fonzaso ogni tanto urla, ma non c'è niente da fare."
"Va', va' pure, allora" fece Drogo. La porta si chiuse, i passi si allontanarono, si ampliò nuovamente il silenzio, brillarono le stelle nella finestra. Giovanni ora pensava alle sentinelle che a pochi metri da lui camminavano come automi su e giù senza un respiro di pausa. Decine e decine erano gli uomini svegli, mentre lui giaceva nel letto, mentre tutto pareva immerso nel sonno. Decine e decine - pensava Drogo - ma per chi, per che cosa? Il formalismo militare, in quella fortezza, sembrava aver creato un insano capolavoro. Centinaia di uomini a custodire un valico da cui nessuno sarebbe passato. Andarsene, andarsene al più presto - pensava Giovanni - uscir fuori all'aria, da quel mistero nebbioso. Oh, la onesta casa; a quest'ora la mamma certo stava dormendo, le luci tutte spente; a meno che non pensasse ancora per un momento a lui, era anzi molto probabile, egli la conosceva bene, per la più piccola cosa stava in ansia e di notte si rigirava nel letto senza trovare riposo.
Ancora il rigurgito della cisterna, ancora un'altra stella che sconfinò dal riquadro della finestra e la sua luce continuava a raggiungere il mondo, gli spalti della Fortezza, gli occhi febbrili delle sentinelle, ma non più Giovanni Drogo, che attendeva il sonno, ora tormentato da sinistri pensieri.
E se le sottilizzazioni del Matti fossero tutte una commedia? Se in realtà, anche dopo i quattro mesi, non lo avessero più lasciato partire? Se con sofistici pretesti regolamentari gli avessero impedito di rivedere la città? Se avesse dovuto rimanere lassù per anni e anni, e in quella stanza, su quel solitario letto, si fosse dovuta consumare la giovinezza? Che ipotesi assurde, si diceva Drogo, rendendosi conto della loro stoltezza, eppure non riusciva a scacciarle, esse dopo poco tornavano a tentarlo, protette dalla solitudine della notte.
Gli pareva così di sentire crescere attorno una oscura trama che cercasse di trattenerlo. Probabilmente non si trattava neppure del Matti. Né questi, né il colonnello, né alcun altro ufficiale si interessavano menomamente di lui: che rimanesse o partisse certo era loro del tutto indifferente. Tuttavia una forza sconosciuta lavorava contro il suo ritorno in città, forse scaturiva dalla sua stessa anima, senza ch'egli se ne accorgesse.
Poi vide un atrio, un cavallo su una strada bianca, gli sembrò che lo chiamassero per nome e fu preso dal sonno.
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Capitolo 5.
Due sere dopo Giovanni Drogo montò per la prima volta di servizio alla terza ridotta. Alle sei del pomeriggio si schierarono nel cortile le sette guardie: tre per il forte, quattro per le ridotte laterali. La ottava, per la Ridotta Nuova, era partita in precedenza perché c'era parecchia strada da fare.
Il sergente maggiore Tronk, vecchia creatura della Fortezza, aveva condotto i 28 uomini per la terza ridotta, più un trombettiere che faceva 29. Erano tutti della seconda compagnia, quella del capitano Ortiz, a cui Giovanni era stato assegnato. Drogo ne prese il comando e sguainò la spada.
Le sette guardie montanti erano allineate a piombo e da una finestra, secondo la tradizione, il colonnello comandante le osservava. Sulla terra gialla del cortile esse formavano un disegno nero, bello a vedersi.
Il cielo spazzato dal vento risplendeva sopra le mura, tagliate diagonalmente dall'ultimo sole. Una sera di settembre. Il vicecomandante, tenente colonnello Nicolosi, uscì dal portone del Comando, zoppicando per un'antica ferita, e si appoggiava alla spada. Quel giorno era di servizio, per l'ispezione, il gigantesco capitano Monti; la sua voce rauca diede il comando e tutti insieme, assolutamente insieme, i soldati presentarono le armi, con un potente scroscio metallico. Si fece un vasto silenzio.
Allora ad uno ad uno, i trombettieri delle sette guardie suonarono i ritornelli d'uso. Erano le famose trombe d'argento della Fortezza Bastiani, con cordoni di seta rossa e oro, con appeso un grande stemma. La loro voce pura si allargò per il cielo e ne vibrava l'immobile cancellata delle baionette, con vaga sonorità di campana. I soldati erano fermi come statue, i loro volti militarmente chiusi. No, certo essi non si preparavano ai monotoni turni di guardia; con quegli sguardi da eroi, certo - pareva andavano ad aspettare il nemico.
L'ultimo squillo restò a lungo nell'aria, ripetuto dalle lontane mura. Le baionette scintillarono ancora un attimo, lucide contro il cielo profondo, quindi furono inghiottite entro le schiere, spegnendosi simultaneamente. Il colonnello era scomparso dalla finestra. Risuonarono i passi delle sette guardie che si irradiavano verso le rispettive mura, attraverso i labirinti della Fortezza.
Un'ora più tardi Giovanni Drogo era sulla terrazza sommitale della terza ridotta, nel punto medesimo donde la sera prima aveva guardato verso il settentrione. Ieri era venuto a curiosare come un viaggiatore di passaggio. Adesso era invece il padrone: per ventiquattr'ore la intera ridotta e cento metri di mura dipendevano da lui solo. Quattro artiglieri, sotto di lui, nell'interno del fortino, badavano ai due cannoni puntati al fondo della valle; tre sentinelle si dividevano il ciglione perimetrale della ridotta, altre quattro erano scaglionate lungo il muraglione, verso destra, venticinque metri per una. Il cambio con le sentinelle smontanti era avvenuto con meticolosa precisione sotto gli occhi del sergente maggiore Tronk, specialista dei regolamenti. Tronk era alla Fortezza da ventidue anni e oramai non se ne muoveva più neppure nei periodi di licenza. Nessuno conosceva come lui ogni angolo della fortificazione, spesso gli ufficiali lo incontravano di notte che girava intorno a ispezionare, nel buio più nero, senza il minimo lume. Quando lui era di servizio, le sentinelle non abbandonavano per un istante il fucile, non si appoggiavano ai muri ed evitavano persino di fermarsi, perché le soste erano concesse solo in via eccezionale; per tutta la notte Tronk non dormiva e a passi silenziosi si aggirava per il cammino di ronda, facendole trasalire. "Chi va là, chi va là? " chiedevano le sentinelle, imbracciando il fucile. "Grotta" rispondeva il sergente maggiore.
"Gregorio" diceva la sentinella.
Praticamente, ufficiali e sottufficiali in servizio di guardia giravano sul ciglione delle proprie mura senza formalità; i soldati li conoscevano bene di vista e lo scambio della parola d'ordine sarebbe parso ridicolo. Solo con Tronk i soldati seguivano alla lettera il regolamento.
Era piccolo e magro, con una faccia da vecchietto, la testa rasata; parlava pochissimo anche con i colleghi e nelle ore libere preferiva in genere starsene solo a studiare musica. Quella era la sua mania; tanto che il maestro della banda, il maresciallo Espina, era forse il suo unico amico. Possedeva una bella fisarmonica ma non la suonava quasi mai, pur essendo leggenda che fosse bravissimo; studiava l'armonia e dicevano che avesse scritto diverse marce militari. Di preciso però non si sapeva niente. Non c'era pericolo, quando era di servizio, che si mettesse a fischiettare come era sua abitudine durante il riposo. Per lo più si aggirava lungo le merlature, scrutando il vallone del nord, alla ricerca di chissà cosa. Adesso era di fianco a Drogo e gli indicava la mulattiera che, lungo precipitosi costoni, portava alla Ridotta Nuova. "Ecco la guardia smontante" diceva Tronk, facendo segno con l'indice destro, ma nella penombra del crepuscolo Drogo non riuscì a distinguerla. Il sergente maggiore scosse la testa.
"Che cosa c'è? " domandò Drogo.
"C'è che il servizio così non va, l'ho sempre detto, è da pazzi" rispose Tronk.
"Ma che cos'è successo?"
"Il servizio così non va" ripeté Tronk "dovrebbero farlo prima, il cambio della guardia, alla Ridotta Nuova. Ma il signor colonnello non vuole. " Giovanni lo guardò meravigliato: possibile che Tronk si permettesse di criticare il colonnello?
"Il signor colonnello" continuò il sergente maggiore con profonda serietà e convinzione, non certo per rettificare le ultime parole "ha perfettamente ragione dal suo punto di vista. Nessuno però gli ha spiegato il pericolo. " "Il pericolo? " chiese Drogo: che pericolo poteva mai esserci a trasferirsi dalla Fortezza alla Ridotta Nuova, per quel comodo sentiero, in località così deserta?
"Il pericolo" ripeté Tronk. "Un giorno o l'altro succederà qualche cosa con questo buio."
"E cosa si dovrebbe fare? " chiese Drogo per cortesia tutta quella storia lo interessava molto relativamente.
"Una volta" fece il sergente maggiore, ben lieto di poter sfoggiare la sua competenza "una volta, alla Ridotta Nuova, la guardia si cambiava due ore prima che alla Fortezza. Sempre di giorno, anche d'inverno: e poi la faccenda delle parole d'ordine era semplificata. Occorreva quella per entrare nella Ridotta, e occorreva la parola d'ordine nuova, per la giornata di guardia e il ritorno alla Fortezza. Due bastavano. Quando la guardia smontante era di ritorno alla Fortezza, la guardia nuova qui non era ancora montata e la parola era ancora valevole."
"Già, capisco" faceva Drogo, rinunziando a tenergli dietro.
"Ma poi" raccontava Tronk "hanno avuto paura. È imprudente, dicevano, lasciare in giro, fuori del confine, tanti soldati che sanno la parola d'ordine. Non si sa mai, dicevano, più facile che tradisca un soldato su cinquanta che un ufficiale solo. " "Eh, già" assentì Drogo.
"Allora hanno pensato: meglio che la parola d'ordine la sappia solo il comandante. Così adesso escono dalla Fortezza tre quarti d'ora prima del cambio della guardia. Mettiamo oggi. Il cambio generale si è fatto alle sei. La guardia per la Ridotta Nuova è partita di qui alle cinque e un quarto ed è arrivata là alle sei giuste. Per uscire dalla Fortezza di parole d'ordine non ha bisogno, perché è un reparto inquadrato. Per entrare nella Ridotta occorreva la parola d'ordine di ieri; e questa la sapeva soltanto l'ufficiale. Fatto il cambio alla Ridotta, comincia la parola di oggi, anche questa la sa soltanto l'ufficiale. E così dura 24 ore, fino a che non viene la nuova guardia a dare il cambio. Domani sera poi, quando i soldati fanno ritorno (potranno arrivare alle sei e mezzo, a tornare indietro la strada è meno faticosa) alla Fortezza la parola d'ordine è ancora cambiata. E così c'è bisogno di una terza parola. L'ufficiale ne deve sapere tre, quella che serve per l'andata, quella che si consuma nel servizio e la terza per il ritorno. Tutte queste complicazioni perché i soldati, mentre sono in strada, non sappiano.
"E io dico" continuava, senza preoccuparsi se Drogo gli badasse "io dico: se la parola d'ordine la sa soltanto l'ufficiale e lui, mettiamo, si sente male per strada, cosa fanno i soldati? Mica lo potranno obbligare a parlare. E non possono neanche tornare da dove sono partiti, perché intanto anche là la parola è cambiata. A questo non ci pensano? E poi, loro che vogliono la segretezza, non si accorgono che in questo modo occorrono tre parole invece di due e che la terza, quella per rientrare il giorno dopo alla Fortezza, viene messa in giro più di 24 ore prima? Qualsiasi cosa succeda, sono obbligati a mantenerla, senò la guardia non può più rientrare. " "Ma" obiettò Drogo "alla porta li riconosceranno bene, no? Vedrebbero bene che è la guardia smontante!"
Tronk guardò il tenente con un certo tono di superiorità: "Questo è impossibile, signor tenente. C'è la regola alla Fortezza. Dalla parte del nord, senza la parola d'ordine, nessuno può entrare, non importa chi sia".
"Ma allora" disse Drogo irritato per quell'assurdo rigore "allora non sarebbe più semplice fare una parola d'ordine speciale per la Ridotta Nuova? Fanno il cambio prima e la parola per rientrare viene insegnata soltanto all'ufficiale. Così i soldati non sanno niente."
"Si capisce" fece il sottufficiale, quasi trionfante, come se avesse aspettato quell'obiezione al varco. "Sarebbe forse la soluzione migliore. Ma bisognerebbe cambiare il regolamento, occorrerebbe una legge. Il regolamento dice (intonò la voce a cadenza didascalica): "La parola d'ordine dura ventiquattro ore da un cambio della guardia al successivo; una sola parola d'ordine vige nella Fortezza e sue dipendenze". Dice proprio "sue dipendenze". Parla chiaro. Non c'è da fare nessun trucco. " "Ma una volta" fece Drogo che da principio non era stato attento "il cambio, alla Ridotta Nuova, si faceva prima?"
"Sicuro! " esclamò Tronk, poi si corresse: "Signorsì. Solo da due anni in qua c'è questa storia. Prima era molto meglio". Il sottufficiale tacque, Drogo lo guardava spaventato.
Dopo ventidue anni di Fortezza, che cosa era rimasto di quel soldato?
Si ricordava ancora Tronk che esistevano, in qualche parte del mondo, milioni di uomini simili a lui che non vestivano l'uniforme? e giravano liberi per la città e la notte potevano a loro piacimento mettersi a letto o andare all'osteria o a teatro? No, (a guardarlo lo si capiva bene) degli altri uomini Tronk si era dimenticato, per lui non esisteva più che la Fortezza con i suoi odiosi regolamenti. Tronk non ricordava più come suonassero le dolci voci delle ragazze, né come fossero fatti i giardini, né i fiumi, né altri alberi se non i magri rari cespugli sparsi nei dintorni della Fortezza. Tronk guardava, sì, verso il settentrione, ma non con l'animo di Drogo; lui fissava il sentiero per la Ridotta Nuova, il fosso e la controscarpa, perlustrava le possibili vie d'accesso, ma non le selvagge rupi, né quel triangolo di pianura misteriosa e nemmeno le nubi bianche che navigavano per il cielo già quasi notturno.
Così, mentre veniva il buio, si impadroniva nuovamente di Drogo il desiderio di fuggire. Perché non se ne era andato subito? si rimproverava Perché aveva ceduto alle melliflue diplomazie del Matti? Ora doveva aspettare che si consumassero quattro mesi, centoventi lunghissimi giorni, metà dei quali di guardia alle mura. Gli parve di trovarsi fra uomini di altra razza, in una terra straniera, mondo duro ed ingrato. Si guardò attorno, riconobbe Tronk che, immobile, osservava le sentinelle.