6. Il deserto dei Tartari (C. 8-9)
Ecco i nuovi amici di Drogo, tenenti Carlo Morel, Pietro Angustina, Francesco Grotta, Max Lagorio. Essi sono seduti con lui alla mensa, a quest'ora vuota. Solo un famiglio rimane, appoggiato allo stipite di una lontana porta, e i ritratti degli antichi colonnelli, allineati sui muri attorno, immersi nella penombra. Otto bottiglie stanno nere sulla tovaglia, nel disordine del pranzo finito.
Sono tutti in qualche modo eccitati, un po' dal vino, un po' dalla notte e quando le loro voci tacciono si ode fuori la pioggia. Festeggiano il conte Max Lagorio che all'indomani parte, dopo due anni di Fortezza.
Lagorio disse: "Angustina, se vieni anche tu, ti aspetto". Lo disse nel suo solito tono di scherzo ma si capiva ch'era vero. Anche Angustina aveva finito i due anni di servizio ma non voleva partire. Angustina era pallido e sedeva con la sua perenne aria di distacco, come se non si interessasse affatto di loro, fosse lì per un puro caso.
"Angustina" ripeté Lagorio quasi con un grido, ai confini dell'ubriachezza. "Se vieni anche tu, ti aspetto, sono disposto ad aspettare tre giorni."
Il tenente Angustina non rispose, facendo un lieve sorriso di sopportazione. La sua uniforme azzurra, stinta dal sole, spiccava fra le altre per un'indefinibile trasandata eleganza.
Lagorio si rivolse agli altri, a Morel, a Grotta, a Drogo: "Diteglielo anche voi" e pose la destra sulla spalla di Angustina. "Gli farebbe bene venire in città."
"Mi farebbe bene?" chiese Angustina come incuriosito.
"In città staresti meglio, ecco. Tutti, del resto, io credo."
"Io sto benissimo" fece asciutto Angustina. "Non ho bisogno di cure."
"Non ho detto che tu abbia bisogno di cure. Ho detto che ti farebbe bene." Così disse Lagorio e si udì fuori, nel cortile, cadere la pioggia. Angustina si lisciava con due dita i baffetti, era annoiato, si vedeva.
Lagorio riprese: "A tua mamma, ai tuoi, tu non pensi… Immagina quando tua mamma…"
"Mia mamma saprà adattarsi" rispose Angustina con amaro sottinteso. Lagorio capì e cambio discorso: "Di', Angustina, ci pensi, capitare dopodomani dalla Claudina? Sono due anni che non ti vede…".
"La Claudina…" fece Angustina svogliatamente. "Ma che Claudina? Io non mi ricordo."
"Già, non ti ricordi! Con te non si può parlare di niente stasera, ecco com'è. Non sarà mica un mistero, no? Ti si vedeva insieme tutti i giorni." "Ah" disse Angustina per mostrarsi gentile "adesso mi ricordo. Già, la Claudina, figurati, non si ricorderà nemmeno che esisto…"
"Eh, va là, sappiamo bene che vanno matte tutte per te, non fare il modesto adesso!" esclamò Grotta, e Angustina lo fissò senza battere ciglio, colpito, si vedeva, da tanta piattezza.
Tacquero. Fuori, nella notte, sotto la pioggia autunnale, camminavano le sentinelle. L'acqua scrosciava sulle terrazze, gorgogliava nelle gronde, colava giù per le mura. Fuori era notte fonda e Angustina ebbe un piccolo colpo di tosse. Pareva strano che da un giovane così raffinato potesse uscire un suono tanto sgradevole. Ma egli tossiva con una sapiente misura, abbassando ogni volta la testa, quasi ad indicare che lui non poteva impedirlo, in fondo era una cosa non sua che per correttezza gli toccava subire. Così trasformava la tosse in una specie di vezzo capriccioso, degno di essere imitato. Pure si era fatto un silenzio penoso, che Drogo sentì il bisogno di spezzare.
"Di', Lagorio" domandò "a che ora parti domani?"
"Verso le dieci, credo. Volevo partire prima ma ho ancora da congedarmi dal colonnello."
"Il colonnello si alza alle cinque, estate e inverno alle cinque, non ti fa certo perdere tempo."
Lagorio rise: "Ma sono ben io che non mi alzo alle cinque. Almeno per l'ultima mattina voglio fare i miei comodi, non mi corre dietro nessuno".
"Per dopodomani sei arrivato, allora" notò Morel con invidia.
Lagorio disse: "Mi par fino impossibile, vi giuro".
"Che cosa impossibile?"
"Di essere in città fra due giorni" (una pausa) "e per sempre, anche." Angustina era pallido, ora non si lisciava più i baffetti, ma fissava dinanzi a sé la penombra. Gravava oramai nella sala il sentimento della notte, quando le paure escono dai decrepiti muri e l'infelicità si fa dolce, quando l'anima batte orgogliosa le ali sopra l'umanità addormentata. Gli occhi vitrei dei colonnelli, dai grandi ritratti, esprimevano eroici presagi. E fuori sempre la pioggia.
"Ti immagini?" fece Lagorio, senza misericordia, ad Angustina.
"Dopodomani sera, a quest'ora, io sarò magari da Consalvi. Gran mondo, musica, belle donne" diceva, ripetendo un'antica celia.
"Bel gusto" rispose con sprezzo Angustina.
"Oppure" continuava Lagorio, con le migliori intenzioni, unicamente per persuadere l'amico. "Ecco, forse è meglio, andrò dai Tron, i tuoi zii, c'è gente simpatica e "si giuoca da signori", direbbe Giacomo." "Ah, un bel gusto" disse Angustina.
"Comunque sia" fece Lagorio "dopodomani io sarò a divertirmi e tu sarai di servizio. Io sarò a spasso per la città (e rideva all'idea) e a te arriverà il capitano d'ispezione. "Novità zero, la sentinella Martini si è sentita male". Alle ore due il sergente ti sveglierà:
"Signor tenente, è l'ora dell'ispezione" ti sveglierà alle ore due, puoi giurarlo, e alla stessa identica ora, positivamente io sarò in letto con la Rosaria…"
Erano le fatue inconscie crudeltà di Lagorio, a cui tutti erano abituati. Ma dietro le sue parole, comparve ai compagni l'immagine della lontana città con i suoi palazzi e le chiese immense, le aeree cupole, i romantici viali lungo il fiume. A quell'ora, pensavano, doveva esserci una sottile nebbia e i fanali davano una tenue luce giallastra, a quell'ora nere coppie per le vie solitarie, grida di cocchieri dinanzi alle vetrate accese dell'Opera, echi di violini e di risa, voci di donna (dai tetri portali delle ricche case), finestre illuminate a incredibili altezze, fra il labirinto dei tetti; l'affascinante città con i loro sogni di giovinezza, le sue ancora sconosciute avventure. Tutti ora guardavano senza farsi accorgere, la faccia di Angustina greve di stanchezza inconfessata; non erano lì, capivano, per festeggiare Lagorio in partenza, in verità essi salutavano Angustina perché lui solo sarebbe rimasto. Ad uno ad uno, dopo Lagorio, venuto il turno, anche gli altri se ne sarebbero andati, Grotta, Morel e prima ancora Giovanni Drogo, che aveva appena quattro mesi da fare. Angustina invece sarebbe rimasto, non riuscivano a capire il perché, ma lo sapevano bene. E benché sentissero oscuramente che anche questa volta egli obbediva al suo ambizioso stile di vita, non erano più capaci di invidiarlo; pareva in fondo un'assurda mania. E perché Angustina, maledetto snob, adesso ancora sorride? Perché, malato com'è, non corre a fare i bagagli, non si prepara alla partenza? e invece fissa dinanzi a sé la penombra? A che cosa pensa? Quale segreto orgoglio lo trattiene alla Fortezza? Anche lui dunque? Guardalo, Lagorio, tu che gli sei amico, guardalo bene fin che sei in tempo, fa che il suo volto resti nella tua mente così com'è questa sera, il naso sottile, gli sguardi atoni, quell'ingrato sorriso, forse un giorno capirai perché non ti ha voluto seguire, saprai ciò che era chiuso dietro la sua immobile fronte.
Lagorio partì il mattino dopo. I due suoi cavalli erano ad aspettarlo con l'attendente dinanzi alla porta della Fortezza. Il cielo era coperto e non pioveva.
Logorio aveva una faccia contenta. Era uscito dalla sua camera senza darci neanche un'occhiata né si voltò indietro, quando fu all'aperto, per guardare la Fortezza. Le muraglie stavano sopra di lui cupe ed arcigne, la sentinella alla porta era immobile, non un'anima viva sulla vasta spianata. Da un casottino, addossato al forte, uscivano ritmici suoni di martello. Angustina era sceso a salutare il compagno. Fece una carezza al cavallo. "Sempre una bella bestia" disse. Lagorio se ne andava, scendeva alla loro città, alla vita facile e lieta. Lui invece restava, lui guardava con occhi impenetrabili il compagno che si affaccendava intorno alle bestie; e stentava a sorridere. "Mi pare fino impossibile di partire" diceva Lagorio. "Questa Fortezza era per me un'ossessione."
"Va' a salutare i miei, quando arrivi" fece Angustina senza badargli.
"Di' alla mamma che io sto bene."
"Sta' tranquillo" rispose Lagorio. E dopo una pausa aggiunse: "Mi è dispiaciuto ieri sera, sai? Noi siamo proprio diversi, quello che tu pensi, in fondo, io non l'ho mai capito. Sembrano manie le tue, io non so, ma forse sei tu che hai ragione".
"Non ci pensavo nemmeno" fece Angustina, appoggiando la destra a un fianco del cavallo e guardando a terra. "Figurati se mi sono arrabbiato."
Erano due uomini diversi, che amavano diverse cose, distanti per intelligenza e cultura. Ci si meravigliava persino di vederli sempre insieme, tanta era la superiorità di Angustina. Pure erano amici; fra tutti quanti Lagorio era il solo che istintivamente lo capisse, solo lui sentiva pena per il compagno, quasi si vergognava di partire dinanzi a lui, come di una brutta ostentazione, e non sapeva decidersi.
"Se vedi la Claudina" disse ancora Angustina con voce immobile "salutala… anzi no, è meglio che tu non dica niente."
"Oh, ma sarà lei a domandarmi, se la vedo. Lo sa bene che sei qui." Angustina tacque.
"Allora" disse Lagorio che aveva finito di sistemare, con l'attendente, la sacca da viaggio "forse è meglio che vada, se no faccio tardi. Ti saluto." Strinse la mano all'amico, poi con elegante mossa saltò in sella.
"Addio, Lagorio" esclamò Angustina. "Buon viaggio!"
Diritto in sella, Lagorio lo guardava; non era molto intelligente ma un'oscura voce gli diceva che forse non si sarebbero più riveduti. Un colpo di speroni e il cavallo si mosse. Fu allora che Angustina alzò leggermente la mano destra, per fare un cenno. come per richiamare il compagno, che si fermasse ancora un momento, aveva da dirgli un'ultima cosa. Lagorio vide il gesto con la coda dell'occhio e si fermò a una ventina di metri.
"Che cosa c'è?" domandò. "Volevi qualcosa?"
Ma Angustina abbassò la mano, riprendendo l'indifferente posa di prima. "Niente, niente" rispose. "Perché?"
"Ah, mi pareva…" disse Lagorio perplesso, e si allontanò attraverso la spianata, dondolando sulla sella.
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Capitolo 9
Le terrazze della Fortezza erano bianche, così come la valle del sud e il deserto del settentrione. La neve copriva interamente gli spalti, aveva steso una fragile cornice lungo le merlature, precipitava con piccoli tonfi dalle gronde, si staccava ogni tanto dal fianco dei precipizi, per nessuna comprensibile ragione, e orribili masse rimbombavano nei canaloni fumando.
Non era la prima neve, ma la terza o la quarta, e stava ad indicare che parecchi giorni erano passati. "Mi sembra ieri che sono arrivato alla Fortezza" diceva Drogo, ed era proprio così. Sembrava ieri, eppure il tempo si era consumato lo stesso con il suo immobile ritmo, identico per tutti gli uomini, né più lento per chi è felice né più veloce per gli sventurati.
Né adagio né presto altri tre mesi erano passati. Natale si era già dissolto nella lontananza, anche il nuovo anno era venuto portando per qualche minuto agli uomini strane speranze. Giovanni Drogo già si preparava a partire. Occorreva ancora la formalità della visita medica, come gli aveva promesso il maggiore Matti, e poi sarebbe potuto andare. Egli continuava a ripetersi che questo era un avvenimento lieto, che in città lo aspettava una vita facile, divertente e forse felice, eppure non era contento. Il mattino del 10 gennaio entrò nell'ufficio del dottore, all'ultimo piano della Fortezza. Il medico si chiamava Ferdinando Rovina, aveva più di cinquant'anni, un volto floscio e intelligente, una rassegnata stanchezza, e non portava la divisa ma una lunga giacca scura da magistrato. Era seduto al suo tavolo con vari libri e carte davanti; però Drogo, entrando quasi all'improvviso, capì subito che non stava facendo niente; sedeva immobile, pensando a chissà cosa. La finestra dava sul cortile e di qui saliva un suono di passi cadenzati perché era già sera e cominciava il cambio della guardia. Dalla finestra si scorgeva un pezzo del muro di fronte e il cielo straordinariamente sereno. I due si salutarono e Giovanni si accorse presto che il medico era perfettamente al corrente del suo caso. "I corvi nidificano e le rondini se ne vanno" disse Rovina scherzando e trasse fuori da un cassetto una carta con un formulario stampato.
"Lei forse non sa, dottore, che io sono venuto qui per uno sbaglio" rispose Drogo.
"Tutti, caro figliolo, sono venuti quassù per uno sbaglio" fece il medico con patetica allusione. "Chi più chi meno, anche quelli che ci sono rimasti. " Drogo non capiva bene e si accontentò di sorridere. "Oh, non la rimprovero! Fate bene, voi giovani, a non ammuffire quassù" continuò il Rovina. "Giù in città ci sono ben altre occasioni. Ci penso anch'io qualche volta, se potessi…"
"Perché? " chiese Drogo. "Non potrebbe farsi trasferire? " Il dottore agitò le mani come se avesse udito un'enormità.
"Farmi trasferire? " e rise di gusto "dopo venticinque anni che sono quassù? Troppo tardi, figliolo, bisognava pensarci prima."
Forse avrebbe desiderato che Drogo lo contraddicesse ancora, ma siccome il tenente tacque, entrò in argomento: invitò Giovanni a sedere, si fece dare da lui nome e cognome che scrisse al posto giusto, sul modulo regolamentare.
"Bene" concluse. "Lei soffre di qualche disturbo al sistema cardiaco, vero?
Il suo organismo non resiste a questa altitudine, vero? Facciamo così? " "Facciamo pure così" assentì Drogo. "Lei è il migliore arbitro di queste cose."
"Prescriviamo anche una licenza di convalescenza, già che ci siamo? " fece il medico ammiccando.
"La ringrazio" disse Drogo "ma non vorrei esagerare."
"Come vuole. Niente licenza. Io, alla vostra età, non avevo di simili scrupoli."
Giovanni invece di sedersi, si era avvicinato alla finestra e guardava ogni tanto in giù, ai soldati schierati sulla bianca neve. Il sole era appena tramontato, fra le muraglie si era diffusa una penombra azzurra.
"Più della metà di voialtri dopo tre quattro mesi vuole andarsene" andava dicendo con una certa tristezza il dottore, anche lui ormai avvolto dalle ombre, tanto che non si capiva come ci vedesse a scrivere. "Anch'io, se potessi tornare indietro, farei come voi… Ma dopo tutto è un peccato. " Drogo ascoltava senza interesse, intento com'era a guardare dalla finestra. E allora gli parve di vedere le mura giallastre del cortile levarsi altissime verso il cielo di cristallo e sopra di esse, al di là, ancora più alte, solitarie torri, muraglioni a sghembo coronati di neve, aerei spalti e fortini, che non aveva mai prima notato. Una luce chiara dall'occidente ancora li illuminava ed essi misteriosamente così splendevano di una impenetrabile vita. Mai Drogo si era accorto che la Fortezza fosse così complicata ed immensa. Vide una finestra (o una feritoia? ) aperta sulla valle, a quasi incredibile altezza. Lassù dovevano esserci uomini che egli non conosceva, forse anche qualche ufficiale come lui, del quale avrebbe potuto essere amico. Vide ombre geometriche di abissi fra bastione e bastione, vide esili ponti sospesi fra i tetti, strani portoni sprangati a filo delle muraglie, antichi spiombatoi bloccati, lunghi spigoli incurvati dagli anni.
Vide, fra lanterne e fiaccole, sul fondo livido del cortile, soldati grandissimi e fieri sguainare le baionette. Sul chiaro della neve formavano file nere ed immobili, come di ferro. Essi erano bellissimi e stavano impietriti, mentre una tromba cominciava a suonare. Gli squilli si allargavano per l'aria vivi e lucenti, penetravano diritti nel cuore.
"Ad uno ad uno ve ne andate tutti" mormorava Rovina nella penombra. "Finiremo per restare soltanto noi vecchi. Quest'anno…" La tromba suonava giù nel cortile, suono puro di voce umana e metallo. Palpitò ancora con slancio guerriero. Tacendo, lasciò inesprimibile incanto, persino nell'ufficio del medico. Il silenzio divenne tale che si poté udire un lungo passo scricchiolare sulla neve gelata. Il colonnello in persona era sceso a salutare la guardia. Tre squilli di estrema bellezza tagliarono il cielo.
"Chi c'è di voialtri? " continuava a recriminare il dottore. "Il tenente Angustina, l'unico. Anche Morel, scommetto, quest'altr'anno dovrà scendere in città a farsi curare. Anche lui, scommetto, finirà per ammalarsi…"
"Morel? " Drogo non poteva evitare di rispondere, per far vedere che ascoltava. "Morel ammalato? " chiese non avendo afferrato che le ultime parole.
"Oh no" fece il dottore. "Una specie di metafora."
Pur attraverso la finestra chiusa si udivano i passi vitrei del colonnello. Nel crepuscolo le baionette facevano, allineate, tante strisce d'argento. Da lontananze improbabili giungevano echi di trombe, il suono di prima, forse, rimandato dall'intrico delle muraglie.
Il dottore taceva. Poi si alzò, disse: "Ecco qua il certificato.
Adesso vado a farlo firmare dal signor comandante" piegò il foglio e lo mise in una cartella, staccò dall'attaccapanni il pastrano e un berrettone di pelo. "Viene anche lei tenente? " chiese. "Che cosa sta mai guardando?"
Le guardie montanti avevano deposto le armi e si muovevano ad una ad una verso le varie parti della Fortezza. Sulla neve la cadenza dei loro passi faceva un rumore sordo, ma sopra volava la musica delle fanfare. Poi, per quanto fosse inverosimile, le mura, già assediate dalla notte, si alzarono lentamente verso lo zenit, e dal loro limite supremo, incorniciato da strisce di neve, cominciarono a staccarsi nuvole bianche a forma di airone naviganti per gli spazi siderali. Passò nella mente di Drogo il ricordo della sua città, un'immagine pallida, vie fragorose sotto la piova, statue di gesso, umidità di caserme, squallide campane, facce stanche e disfatte, pomeriggi senza fine, soffitti sporchi di polvere.
Qui invece avanzava la notte grande delle montagne, con le nubi in fuga sulla fortezza, miracolosi presagi. E dal nord, dal settentrione invisibile dietro le mura, Drogo sentiva premere il proprio destino. "Medico medico" disse Drogo quasi balbettando. "Io sto bene."
"Lo so" rispose il medico. "Che cosa credeva?"
"Io sto bene" ripeté Drogo quasi non riconoscendo la propria voce. "Io sto bene e voglio restare."
"Restare qui alla Fortezza? Non vuole più partire? Che cosa le è successo?"
"Io non so" disse Giovanni. "Ma non posso partire."
"Oh" esclamò Rovina avvicinandosi. "Se lei non scherza giuro che sono contento."
"Non scherzo, no" fece Drogo che sentiva l'esaltazione tramutarsi in una strana pena, prossima alla felicità. "Medico, butti via quella carta."