2. VARIUS MULTIPLEX MULTIFORMIS (3)
La mia fama nascente diffuse sul mio secondo soggiorno a Roma quel sentimento d'euforia che avrei ritrovato più tardi, molto più intenso, durante i miei anni felici. Traiano mi aveva dato due milioni di sesterzi da elargire al popolo; erano naturalmente insufficienti, ma ormai amministravo la mia fortuna, piuttosto considerevole, e le preoccupazioni finanziarie non mi angustiavano più. Avevo perduto in gran parte la mia bassa paura di dispiacere. Una cicatrice al mento mi fornì il pretesto per portare la barba corta dei filosofi greci. Nel vestire, adottai una semplicità, che accentuai all'epoca imperiale: era passato per me il tempo dei braccialetti e dei profumi. Poco importa che quella sobrietà fosse ancora un atteggiamento. M'abituavo lentamente alla privazione per se stessa, e al contrasto, che mi colpì poi, tra una collezione di pietre preziose e le mani nude del collezionista. Per parlare ancora dei miei abiti, durante l'anno in cui ebbi la carica di tribuno della plebe, mi capitò un incidente dal quale furono tratti presagi. Un giorno in cui dovevo parlare al pubblico, e pioveva a dirotto, perdetti il mantello da pioggia, di grossa lana gallica. Costretto a pronunciare il discorso con una toga, nelle cui pieghe l'acqua si raccoglieva come in una grondaia, mi passavo senza posa la mano sulla fronte per scacciare la pioggia che mi riempiva gli occhi. Raffreddarsi, a Roma, è un privilegio da imperatore, dato che con qualsiasi tempo gli è interdetto di coprirsi eccetto che con la toga: da quel giorno, la rivenditrice dell'angolo e il mercante di cocomeri giurarono sulla mia assunzione al trono.
Si parla spesso dei sogni della giovinezza; si dimenticano troppo i suoi calcoli. Sono sogni anch'essi, e non meno folli degli altri. Non ero il solo a farne durante quel periodo delle feste romane: tutto l'esercito si avventava sulle onorificenze. Assunsi con sufficiente buonumore la parte dell'ambizioso, una parte che non ho mai recitata a lungo con convinzione, né senza aver bisogno dei servigi costanti d'un suggeritore. Accettai di adempiere con lo scrupolo più onesto la funzione noiosa di segretario del Senato; seppi rendere tutti i servigi utili. Lo stile laconico dell'imperatore, mirabile al fronte, era insufficiente a Roma; l'imperatrice, i cui gusti letterari s'avvicinavano ai miei, lo convinse a lasciare a me il compito di scrivergli i discorsi. Fu quello il primo dei buoni uffici che Plotina mi rese. Ci riuscii benissimo, dato che avevo l'abitudine a quel genere di cortigianerie: al tempo dei miei difficili inizi, avevo redatto spesso per qualche senatore a corto d'idee o di frasi tornite orazioni di cui finivano per credersi autori. A lavorare allo stesso modo per Traiano, provavo un piacere esattamente identico a quello che m'avevano dato, adolescente, gli esercizi di retorica; solo nella mia camera, mentre ne provavo gli effetti allo specchio, mi sentivo imperatore. Se vogliamo, imparavo a esserlo; audacie di cui non mi sarei creduto capace diventavano agevoli quando avrebbe dovuto addossarsele un altro. Presi familiarità col pensiero dell'imperatore, semplice, ma disarticolato, e perciò oscuro; m'illudevo di conoscerlo meglio di quel che non si conoscesse lui stesso. Mi piaceva scimmiottare lo stile militare del capo, udirlo in Senato pronunciare frasi che sembravano tipicamente sue, e di cui ero io il solo responsabile. Altre volte, se Traiano restava in camera, ebbi l'incarico di leggere io stesso quei discorsi dei quali egli non prendeva nemmeno più visione, e il mio modo di pronunciarli - impeccabile ormai - faceva onore alle lezioni dell'attore tragico Olimpio.
Queste funzioni quasi segrete mi valsero l'intimità dell'imperatore, persino la sua fiducia, ma l'antica antipatia perdurava. Essa aveva ceduto momentaneamente al piacere che prova un principe ormai avanti negli anni a vedere un giovane del suo stesso sangue iniziare una carriera che egli immagina, con qualche ingenuità, destinata a continuare la sua. Ma quell'entusiasmo forse non avrebbe zampillato tanto alto sul campo di battaglia di Sarmizegetusa se non si fosse aperto faticosamente il varco attraverso molteplici strati di diffidenza. Ritengo anzi che vi fosse qualche cosa di più dell'animosità inestirpabile basata su dissidi composti a stento, su diversità di temperamento, o semplicemente su umori d'un uomo che avanza negli anni. L'imperatore detestava d'istinto i subalterni indispensabili. Sarebbe stato più disposto a comprendere, da parte mia, un misto di zelo e d'irregolarità nel servizio; a furia d'essere irreprensibile, gli apparivo quasi sospetto. Lo si potè constatare quando l'imperatrice credette di giovare alla mia carriera combinandomi un matrimonio con la nipote di Traiano. Traiano vi si oppose ostinatamente, adducendo la mia mancanza di virtù domestiche, la giovinezza estrema della fanciulla, e persino quelle storie di debiti, ormai lontane. L'imperatrice si ostinò, e mi ci misi di puntiglio anch'io: a quell'età, Sabina non era completamente sprovvista di fascino. Questo matrimonio, benché temperato da una lontananza quasi continua, in seguito ha rappresentato per me una tale fonte di irritazioni e di fastidi che mi costa uno sforzo ricordare che fu un trionfo per un ambizioso ventottenne quale ero.
Ero più che mai di famiglia; fui costretto, più o meno, a viverci. Ma tutto mi spiaceva in quell'ambiente, salvo il bel viso di Plotina. Le comparse spagnole, i cugini di provincia abbondavano alla mensa imperiale, così come li ritrovai più tardi ai pranzi di mia moglie, durante i miei rari soggiorni a Roma; e non dirò neppure che li ritrovai invecchiati, perchè sembravano centenari già a quei tempi. Esalava da costoro una saggezza ottusa, una specie di prudenza irrancidita. La vita dell'imperatore era trascorsa quasi tutta alle armi, conosceva Roma infinitamente meno bene di me. Metteva un lodevole impegno a circondarsi di tutto ciò che l'Urbe gli offriva di meglio, o che gli veniva presentato per tale. Il gruppo ufficiale degli intimi si componeva di uomini rispettabili per dignità e onorabilità, ma di cultura un po' goffa, di filosofia senza consistenza, che non si spingeva al fondo delle cose. Non m'è andata mai molto a genio l'amabilità affettata di Plinio, e l'inflessibilità sublime di Tacito mi pareva racchiudere una visione del mondo da repubblicano reazionario, fermo all'epoca della morte di Cesare. I veri intimi, erano d'una volgarità disgustosa, il che per il momento m'evitò di correre ancora dei rischi. Usavo però la cortesia indispensabile verso tutte quelle persone tanto diverse: deferente verso gli uni, compiacente verso gli altri, triviale quando occorreva, abile, ma non troppo. La versatilità m'era necessaria; ero multiforme per calcolo, incostante per gioco. Camminavo su di un filo. I corsi che avrei dovuto seguire non erano quelli d'un attore, ma d'un acrobata.
In quell'epoca mi si rimproverò qualche adulterio con le patrizie. Due o tre di questi legami tanto biasimati durarono, più o meno, sino agli inizi del mio principato. Roma, incline alla dissolutezza, non ha mai approvato l'amore in coloro che governano: ne hanno saputo qualcosa Marc'Antonio e Tito. Le mie avventure erano più modeste; ma, dati i costumi che abbiamo, non vedo come avrebbe fatto altrimenti a entrare in intimità con le donne un uomo che le cortigiane hanno disgustato sempre, e che già era seccato a morte del matrimonio. I miei nemici, primo tra tutti quel detestabile Serviano, il mio vecchio cognato - al quale l'aver trenta anni più di me consentiva di usarmi le sollecitudini del pedagogo unitamente a quelle della spia pretendevano che in quegli amori c'entrassero ambizione e curiosità più della passione vera e propria; che l'intimità con le mogli mi introduceva a poco a poco nei segreti politici dei mariti, e che le confidenze delle amanti equivalevano per me ai rapporti di polizia di cui mi dilettai in seguito. E' ben vero che ogni legame di qualche durata finiva per procurarmi quasi inevitabilmente l'amicizia di un marito, gracile o corpulento, pretensioso o timido, quasi sempre cieco; ma per solito ne cavavo scarso diletto e meno ancora profitto. Anzi, devo pur confessare che certi racconti indiscreti che le mie amanti mi sussurravano nel talamo, finivano per destare in me una simpatia per quei mariti tanto derisi e così incompresi. Quei legami, piacevoli se con donne esperte, diventavano conturbanti se erano belle. Studiavo le arti; mi familiarizzavo con le statue; imparavo a conoscere meglio la Venere di Cnido o la Leda tremante sotto il peso del cigno. Era il mondo di Tibullo e di Properzio: malinconia, ardori un po' manierati, ma che stordivano come una melodia frigia, baci furtivi sulle scale, sciarpe fluttuanti sui seni, commiati all'alba, e serti di fiori lasciati sulle soglie.
Di quelle donne ignoravo quasi tutto: la parte che mi donavano della loro esistenza stava tra due porte socchiuse; l'amore, di cui parlavano continuamente, a volte mi sembrava fatuo come una delle loro ghirlande, un gioiello alla moda, un accessorio costoso e fragile; e sospettavo che si dessero la passione insieme al rossetto. La mia vita non era meno misteriosa per loro, e non desideravano affatto conoscerla, preferivano sognarla a modo loro. Finivo per comprendere che lo spirito del gioco esigeva quei travestimenti incessanti, quegli eccessi nelle confessioni e nei rimproveri, quel piacere a volte ostentato e a volte dissimulato, quegli incontri studiati come figure di danza. Persino nei bisticci, si attendeva da me una risposta già prevista, e la bella in lacrime si torceva le mani come sulla scena.
Ho pensato spesso che coloro che amano appassionatamente le donne sono sedotti dal tempio e dal rituale del culto quanto dalla dea in persona: si dilettano delle dita arrossate dall'henné, dei profumi, dei mille accorgimenti che danno risalto alla bellezza e a volte la costruiscono per intero. Idoli teneri, assai diversi dalle grandi femmine barbare, o dalle nostre contadine massicce e dure; esse nascevano dalle volute dorate delle grandi città, dalle arti del tintore o dal vapore rorido delle terme come Venere da quello dei flutti greci. Si stentava a dissociarle dalla dolcezza febbrile di certe serate d'Antiochia, dall'eccitazione delle mattinate romane, dai nomi famosi che portavano, da quel lusso di cui l'ultima trovata era di mostrarsi nude, ma mai senza gioielli. Avrei desiderato molto di più: la creatura umana spoglia, sola con se stessa, come a volte bisognava bene che fosse, per una malattia, o dopo la morte d'un primo figlio, o quando allo specchio appare la prima ruga. Un uomo che legge, o che pensa, o che fa calcoli, appartiene alla specie, non al sesso; nei suoi momenti migliori sfugge persino al concetto dell'umano. Ma le mie amanti pareva si facessero una gloria di non pensare se non da donne; lo spirito, l'anima, che cercavo, non era anch'essa che un profumo.
Doveva pur esserci qualche altra cosa: nascosto dietro una tenda, come il personaggio d'una commedia, in attesa del momento propizio, spiavo con curiosità i rumori d'una casa sconosciuta, il suono particolare d'un cicalare di donne, lo scoppio d'una collera o d'una risata, i mormorii di un'intimità, tutto quello che cessava quando si sapeva che ero là. I bambini, il pensiero incessante dei vestiti, le angustie economiche, certo in mia assenza assumevano di nuovo un'importanza che mi si teneva nascosta; il marito stesso, tanto beffato, diventava essenziale, fors'anche amato. Confrontavo il volto delle mie amanti al viso arcigno delle donne di casa mia, le econome e le ambiziose, occupate senza posa a verificare i conti della spesa e a sorvegliare che si avesse cura dei busti degli antenati; mi chiedevo se quelle gelide matrone non si offrivano anch'esse a un amante, sotto la pergola del giardino, o se le mie facili bellezze non aspettavano che l'atto di congedarmi per ripiombare in una disputa con l'amministratore. Cercavo alla meglio di far legare insieme questi due volti del mondo femminile.
L'anno scorso, poco dopo la cospirazione nella quale Serviano ha finito per perdere la vita, una delle mie amanti d'altri tempi s'è preso il disturbo di venire in Villa per denunciarmi uno dei suoi generi. Non ho tenuto conto dell'accusa, che poteva derivare dal rancore di una suocera quanto dal desiderio d'essermi utile; ma m'interessarono le sue lamentazioni: si trattava soltanto, come in altri tempi al tribunale delle successioni, di testamenti, di macchinazioni tenebrose tra parenti, di matrimoni inattesi o disgraziati. Ritrovavo la visuale limitata delle donne, il loro duro senso pratico, il loro cielo grigio non appena cessa di ridervi l'amore. Certe acrimonie, e una specie di ruvida lealtà, m hanno ricordato la mia insopportabile Sabina. I tratti del volto parevano appiattiti, sfatti, come se la mano del tempo fosse passata e ripassata brutalmente su una maschera di cera molle; quel che per breve tempo avevo consentito a prendere per bellezza non era stato mai che un fiore di giovinezza effimera. Ma l'artificio regnava ancora: quel viso rugoso si serviva maldestramente del sorriso. I ricordi di voluttà trascorse, se mai ce n'erano state, s'erano per me cancellati del tutto; restava uno scambio di frasi affabili con una creatura segnata come me dagli acciacchi e dall'età, la stessa benevolenza annoiata che avrei mostrato a una vecchia cugina spagnola, a una lontana parente piovuta da Narbona.
Faccio di tutto per ritrovare un istante le volute di fumo, le bolle d'aria iridate d'un gioco infantile. Ma è facile dimenticare... Sono passate tante cose, dopo quei lievi amori, che senza dubbio ne disconosco il sapore; mi piace soprattutto affermare che non mi fecero mai soffrire. E tuttavia, tra tutte queste amanti, ce n'è almeno una che ho deliziosamente amata. Era al tempo stesso più delicata e più salda, più tenera e più dura delle altre; quel suo torso esile e pieno faceva pensare a una canna. Mi è piaciuta sempre la bellezza delle capigliature, quell'onda serica e fluttuante; ma, nella maggior parte delle nostre donne, le chiome sono torri, labirinti, barche, o grovigli di vipere. La sua, consentiva a essere quel che mi piace che siano: il grappolo d'uva delle vendemmie, o un'ala. Distesa sul dorso, appoggiando su di me la piccola testa altera, mi parlava dei suoi amori con mirabile inverecondia. Amavo in lei il furore e il distacco nel piacere, i gusti raffinati, la smania di tormentarsi l'anima. Sapevo che aveva dozzine d'amanti; ne perdeva il conto; io non ero che una comparsa che non esigeva la fedeltà. S'era innamorata d'un danzatore chiamato Batilla, così bello da giustificare qualsiasi follia. Tra le mie braccia, singhiozzava il suo nome; la mia approvazione la incoraggiava. In altri momenti, quanto abbiamo riso insieme! Morì, giovane, in un'isola malsana dove l'aveva esiliata la famiglia, in seguito a un divorzio che fece scandalo. Me ne rallegro per lei, perchè aveva paura d'invecchiare: ma è un sentimento che non proviamo mai verso coloro che abbiamo veramente amato. Aveva bisogno di somme enormi. Un giorno, mi chiese di prestarle centomila sesterzi. Glieli portai l'indomani. Sedette in terra, nitida come la figuretta d'una giocatrice di dadi, vuotò il sacco sull'impiantito, e si mise a dividere in mucchietti quel cumulo lucente. Sapevo che per lei, come per tutti noi prodighi, quei pezzi d'oro non erano monete di zecca, segnate dalla testa d'un Cesare, ma una materia magica, un danaro personale, battuto sull'effige d'una chimera, al conio del danzatore Batilla. Io non esistevo più. Era sola. Quasi brutta, con la fronte aggrottata, in una indifferenza incantevole per la propria bellezza, faceva e rifaceva sulle dita, con una smorfia da scolaretta, le addizioni difficili. Non mi piacque mai tanto come quel giorno.
La notizia delle incursioni sarmate giunse a Roma durante la celebrazione del trionfo di Traiano sui Daci. Questa festa, differita per tanto tempo, durava da otto giorni. C'era voluto quasi un anno per far venire dall'Africa e dall'Asia gli animali selvatici che si volevano uccidere in massa nell'arena; la strage di dodicimila belve, lo sgozzamento metodico di diecimila gladiatori rendevano Roma un tetro luogo di morte. Quella sera, mi trovavo sulla terrazza in casa di Attiano, in compagnia di Marcio Turbo e del nostro ospite. La città illuminata era orrenda nel suo giubilo fragoroso: quella dura guerra, alla quale Marcio e io avevamo consacrato quattro anni della nostra giovinezza, diventava per la plebaglia un pretesto di bagordi avvinazzati, un brutale trionfo di seconda mano. Non era opportuno far sapere al popolo che quelle vittorie tanto vantate non erano definitive, e che un nuovo nemico calava sui nostri confini. L'imperatore, già tutto rivolto ai suoi progetti d'Asia, si disinteressava quasi del tutto della situazione a nord-est, e preferiva considerarla appianata una volta per sempre. Quella prima guerra sarmata fu presentata come una semplice spedizione punitiva; io vi fui inviato con la carica di governatore della Pannonia e i poteri di generale in capo.
La guerra durò undici mesi, e fu atroce. Ritengo tuttora che l'annientamento dei Daci sia stato quasi giustificato: non v'è capo di Stato che tolleri di buon grado l'esistenza d'un nemico organizzato alle porte. Ma il crollo del regno di Decebalo aveva creato in quelle regioni un vuoto nel quale si precipitarono i Sarmati; bande scaturite da chissà dove infestarono un paese devastato da anni di guerra, arso e riarso dalle nostre truppe, nel quale i nostri effettivi insufficienti mancavano di punti d'appoggio: pullularono come vermi sul cadavere delle nostre vittorie sui Daci. I successi recenti avevano minato la nostra disciplina; agli avamposti ritrovavo un po' la noncuranza triviale delle feste romane. Alcuni tribuni mostravano una sicumera idiota di fronte al pericolo: rischiosamente isolati in una regione di cui la sola parte di cui fossimo esperti era il nostro antico confine, per seguitare a vincere facevano affidamento sul nostro armamento che vedevo scemare di giorno in giorno per effetto delle perdite e dell'usura, e su rinforzi che non m'aspettavo di veder arrivare, ben sapendo che ormai tutte le nostre risorse sarebbero state concentrate contro l'Asia.
Un altro pericolo cominciava a profilarsi: quattro anni di requisizioni ufficiali avevano rovinato i villaggi dietro le linee; sin dalle prime campagne daciche, per ogni mandria di montoni o di buoi solennemente sottratti al nemico, avevo visto sfilate innumerevoli di bestiame strappato ai civili. Se quello stato di cose perdurava, s'avvicinava il momento in cui le popolazioni contadine, stanche di sopportare la nostra gravosa macchina militare, avrebbero finito per preferire i barbari a noi. Le rapine della soldatesca ponevano un problema forse meno essenziale, ma più vistoso. Ero però abbastanza popolare per imporre senza timori le più rigide restrizioni alle truppe: lanciai la moda d'una austerità che praticai per primo; inventai il culto della Disciplina Augusta che più tardi mi riuscì di estendere a tutto l'esercito. Rimandai a Roma gli imprudenti e gli ambiziosi, che mi intralciavano il lavoro, e, in cambio, feci venire qualche esperto, di cui difettavamo. Fu necessario restaurare le opere difensive che l'orgoglio delle recenti vittorie ci aveva fatto stranamente trascurare, abbandonai una volta per tutte quelle che sarebbe stato troppo costoso mantenere. Gli amministratori civili, insediati solidamente nel disordine che segue ogni guerra, passavano gradualmente al rango di capi semindipendenti, capaci di qualsiasi esazione nei confronti dei nostri sudditi e di qualunque tradimento nei confronti nostri. Anche qui vedevo prepararsi, in un avvenire più o meno prossimo, le rivolte, lo spezzettamento futuro. Non credo che eviteremo questi disastri, così come non eviteremo la morte, ma dipende da noi ritardarli di qualche secolo. Cacciai i funzionari incapaci; feci giustiziare i peggiori. Scoprii d'essere spietato.
A un'estate umida successe un autunno nebbioso, poi un inverno rigido. Mi servirono molto le antiche nozioni di medicina, prima d'ogni altra cosa per curare me stesso. Quella vita di frontiera a poco a poco mi riduceva al livello dei Sarmati: la corta barba del filosofo greco diventava quella del capo tribù barbaro. Rividi, sino alla nausea, quello che si era già visto durante le campagne daciche. I nostri nemici bruciavano vivi i prigionieri, e noi cominciammo a sgozzare i nostri, in mancanza di mezzi di trasporto per avviarli ai mercati di schiavi di Roma o dell'Asia. I pali delle nostre staccionate furono irti di teste mozze. Il nemico torturava gli ostaggi: così morirono molti dei miei amici. Uno di essi si trascinò sino al campo sulle gambe insanguinate, sfigurato al punto che, in seguito, non mi riuscì mai più di ricordarne il viso intatto. L'inverno prelevò le sue vittime: gruppi di cavalleria restarono presi nel ghiaccio o trascinati dalle piene del fiume, malati dilaniati dalla tosse rantolavano sotto le tende, si congelavano i moncherini dei feriti. Un gruppo, animato da una buona volontà ammirevole, mi si strinse intorno; la schiera, esigua ma rigorosamente scelta, ai miei ordini, era dotata della forma più alta di virtù, l'unica che io sopporti ancora: la ferma determinazione di esser utile. Un disertore sarmata, che avevo fatto mio interprete, rischiò la vita per tornare a fomentare rivolte o tradimenti nella sua tribù; mi riuscì di venire a patti con quell'orda, e da quel giorno i suoi uomini combatterono ai nostri avamposti, proteggendo i nostri soldati. Qualche colpo di audacia, imprudente di per sè, ma abilmente sfruttato, provò al nemico l'assurdità di attaccare Roma. Uno dei capi sarmati seguì l'esempio di Decebalo; lo trovarono morto nella sua tenda di feltro, accanto alle sue mogli strangolate e a un fagotto orrendo che conteneva i loro bambini. Quel giorno, il mio naturale disgusto per lo sperpero inutile si estese anche alle perdite dei barbari; rimpiansi quei morti che Roma avrebbe potuto assimilare per valersene un giorno, come alleati, contro orde ancor più selvagge. I nostri assalitori sbandati si dileguarono come erano venuti, in quella regione oscura, dalla quale si leveranno senza dubbio ben altre procelle. La guerra non era finita. Dovetti riprenderla e condurla a termine qualche mese dopo essere salito al trono. L'ordine, per il momento almeno, regnava su quei confini. Tornai a casa coperto d'onori; ma ero invecchiato.
Il mio primo consolato fu anch'esso un anno di guerra, una lotta segreta, ma continua, in favore della pace. Ma non la combattevo da solo. Prima del mio ritorno, s'era verificato nell'atteggiamento di Licinio Sura, di Attiano, di Turbo, un cambiamento analogo a quello che si era prodotto in me, come se, a onta della severa censura che praticavo sulle mie lettere, i miei amici mi avessero già compreso, preceduto, o seguito. In altri tempi, gli alti e bassi della mia sorte mi impacciavano soprattutto riguardo a essi; paure, impazienze che da solo avrei sopportato a cuor leggero, si facevano opprimenti se mi vedevo costretto a celarle alla loro sollecitudine o a infliggerne loro la confidenza; mi risentivo di quell'affetto che li angustiava per me più di me stesso, e che mai li portava a scoprire, sotto le agitazioni esteriori, l'essere tranquillo, al quale nulla importa davvero, e che per conseguenza può sopravvivere a tutto. Ma, ormai, mi mancava il tempo per interessarmi a me stesso, come del resto per disinteressarmene. Calava nell'ombra la mia persona, proprio perchè il mio punto di vista cominciava a contare. Ciò che importava, era che qualcuno si opponesse alla politica di conquiste, ne valutasse le conseguenze e la fine, e si preparasse, se possibile, a ripararne gli errori.
Il mio posto alla frontiera m'aveva svelato un aspetto della vittoria che non figura sulla Colonna Traiana. Tornare all'amministrazione civile mi consentì di raccogliere, contro i guerrafondai, una documentazione ancor più decisiva di tutte le prove accumulate in guerra. I quadri delle legioni e la guardia pretoriana, per intero, son formati esclusivamente da elementi italiani; quelle guerre lontane esaurivano le riserve d'un paese già povero d'uomini. Quelli che non morivano, erano perduti quanto gli altri, per la patria vera e propria, dato che venivano dislocati d'autorità nelle terre di recente conquista. Anche in provincia, verso quell'epoca, il sistema di reclutamento provocò gravi rivolte. Un viaggio in Spagna, che intrapresi qualche tempo dopo per sorvegliare lo sfruttamento delle miniere di rame appartenenti alla mia famiglia, mi provò il disordine che la guerra aveva condotto in tutti i rami dell'economia; mi convinse pienamente, alfine, la fondatezza delle proteste degli uomini d'affari che frequentavo a Roma. Non avevo l'ingenuità di credere che dipendesse solo e sempre da noi evitare qualsiasi guerra; ma volevo che si combattessero solo quelle difensive: sognavo un esercito addestrato a conservare l'ordine sulle frontiere; ero pronto a rettificarle purché fossero sicure. Qualsiasi ingrandimento nel già vasto organismo dell'impero, mi faceva l'effetto d'una escrescenza malsana, un cancro, un'idropisia che avrebbe finito per ucciderci.
Nessuna di queste opinioni avrebbe potuto essere prospettata all'imperatore. Era giunto in quella fase dell'esistenza, variabile per ciascuno, in cui l'essere umano si abbandona al suo demone o al suo genio, segue una legge misteriosa che gli ingiunge di distruggere o superare se stesso. Nell'insieme, il suo principato era stato ammirevole; ma le opere della pace, alle quali lo avevano saggiamente indotto i suoi consiglieri migliori, i progetti grandiosi dei legislatori e degli architetti, avevano sempre contato meno d'una sola vittoria. La follia dello sperpero s'era impadronita di quell'uomo che era d'una parsimonia lodevole quando si trattava delle sue esigenze personali. L'oro dei barbari, ripescato sotto il letto del Danubio, i cinquecentomila lingotti del re Decebalo erano stati sufficienti a risarcire le elargizioni concesse al popolo, le donazioni militari, di cui avevo ricevuto la mia parte anch'io, il lusso insensato dei giochi, le spese iniziali dei grandiosi progetti militari in Asia. Queste ricchezze malefiche diffondevano una illusoria euforia sullo stato reale delle finanze. Quella fortuna che proveniva dalla guerra tornava a essere inghiottita dalla guerra.