6. PATIENTIA (3)
Mi è toccata una sorte analoga a quella di certi giardinieri: tutto quel che ho cercato di piantare nella immaginazione umana vi ha preso radice. Il culto di Antinoo sembrava la più folle delle mie iniziative, lo straripare d'un dolore che non riguardava che me. Ma la nostra epoca è avida di dèi; preferisce i più ardenti, i più tristi, quelli che mescolano al vino della vita un miele amaro d'oltretomba. A Delfi, il giovinetto è divenuto l'Ermes guardiano della soglia, padrone dei passaggi oscuri che conducono alle ombre. Eleusi, il luogo ove l'età e la sua qualità di straniero gli avevano impedito un giorno d'essere iniziato al mio fianco, ne fa il Bacco giovinetto dei Misteri, principe delle regioni confinanti tra i sensi e l'anima. L'Arcadia ancestrale lo associa a Pan e a Diana, divinità dei boschi; i contadini di Tivoli l'assimilano al dolce Aristeo, re delle api. In Asia, i devoti ritrovano in lui i loro teneri dèi infranti dall'autunno o divorati dall'estate. Al margine dei paesi barbari, il compagno delle mie cacce e dei miei viaggi ha preso l'aspetto del cavaliere Trace, del misterioso viandante che cavalca nelle boscaglie al chiaro di luna, e porta via le anime nelle pieghe del suo mantello. Tutto ciò poteva ancora essere null'altro che un'escrescenza del culto ufficiale, adulazione da parte dei popoli, servilismo di sacerdoti avidi di sussidi. Ma la figura del giovinetto mi sfugge; essa cede alle aspirazioni dei cuori semplici: mediante una di quelle reintegrazioni inerenti alla natura delle cose, l'efebo malinconico e soave è divenuto, per la pietà popolare, il sostegno dei deboli e dei miseri, il consolatore dei fanciulli morti. Il volto inciso sulle monete di Bitinia, il profilo del giovinetto quindicenne, dai riccioli al vento, dal sorriso ingenuo e stupefatto che ha conservato per così poco tempo, pende a guisa d'amuleto al collo dei neonati; in qualche cimitero di campagna, lo s'inchioda sulle piccole tombe. Un tempo, quando pensavo alla mia fine, come un pilota, noncurante di sé, trema però per i passeggeri e il carico della nave, mi dicevo amaramente che quel ricordo sarebbe affondato con me; mi sembrava così che quel giovane essere imbalsamato con tanta cura nel fondo della mia memoria dovesse perire una seconda volta. Questo timore, pur tanto giusto, s'è in parte placato: ho compensato come ho potuto quella morte precoce; per qualche secolo almeno sussisterà un'immagine, un riflesso, un'eco fievole di lui. Non si può far molto di più, in materia d'immortalità.
Ho rivisto Fido Aquila, governatore di Antinopoli, in viaggio per la sua nuova sede di Sarmizegetusa. M'ha descritto i riti annuali celebrati in riva al Nilo in onore del dio morto, i pellegrini convenuti a migliaia dalle regioni del Nord e del Sud, le offerte di birra e di grano, le preci; allo scadere di ogni triennio, ad Antinopoli si svolgono giochi anniversari, così come ad Alessandria, a Mantinea e nella mia diletta Atene. Tali feste triennali si rinnoveranno l'autunno prossimo, ma non conto di durare fino a questo nono ritorno del mese di Athyr. A maggior ragione è importante stabilire in anticipo ogni particolare di queste solennità. L'oracolo del defunto agisce nella stanza segreta del tempio che è stato riedificato a mia cura; giornalmente, i sacerdoti distribuiscono centinaia di risposte già pronte alle domande poste dalla speranza o dall'angoscia umana. Mi è stato rimproverato di averne composte più d'una anch'io. Non intendevo con questo mancar di rispetto al mio dio, né di compassione per la moglie di quel soldato che chiede se il marito tornerà vivo da un presidio in Palestina, o per quell'infermo assetato di conforto, né per quel mercante le cui navi beccheggiano sui flutti del Mar Rosso, né per quella coppia che vorrebbe un figlio. Tutt'al più, così facendo, ho prolungato le parti del logografo, le sciarade in versi alle quali, talvolta, giocavamo insieme. E allo stesso modo, qualcuno s'è meravigliato che qui, alla Villa, intorno a questa cappella di Canopo nella quale il suo culto si celebra alla maniera egiziana, io abbia lasciato costruire i padiglioni di piacere di quel quartiere d'Alessandria che porta questo nome, con gli svaghi e le distrazioni che offro ai miei ospiti ed ai quali m'è accaduto di prender parte. Egli s'era avvezzato a queste cose; e non ci si chiude per anni in un pensiero unico senza farvi rientrare, a poco a poco, tutte le abitudini d'una esistenza.
Ho fatto tutto quello che raccomandano: ho atteso. A volte, ho pregato. "Audivi voces divinas"... La sciocca Giulia Balilla credeva d'udire, all'alba, la voce misteriosa di Memnone: io ho ascoltato i fruscii della notte. Ho eseguito le unzioni di miele e di olio di rose che attirano le ombre; ho disposto la coppa di latte, la manciata di sale, la goccia di sangue, ciò che alimentava la loro esistenza, prima. Mi sono disteso sul pavimento di marmo del piccolo santuario; attraverso le fessure della parete, s'insinuava il chiarore degli astri, posava qua e là scintillii inquietanti, pallidi fuochi. Ho ricordato gli ordini sussurrati dai sacerdoti all'orecchio del morto, l'itinerario inciso sulla tomba: «Ed egli riconoscer... il suo cammino... E i guardiani della soglia lo lasceranno passare... E andrà e verrà intorno a coloro che l'amano per milioni di giorni...» A volte, a lunghi intervalli, ho creduto d'avvertire il lieve tocco di qualcuno che s'avvicina, leggero come il contatto delle Ciglia, tiepido come un palmo. «E l'ombra di Patroclo appare al fianco di Achille...» Non saprò mai se questo calore, se questa dolcezza emanavano solo dal più profondo dell'essere mio, prove estreme d'un uomo in lotta contro la solitudine e il freddo della notte. Ma la domanda, che si pone anche in presenza dei nostri amori viventi, oggi non m'interessa più: poco m'importa se i fantasmi da me evocati vengano dai limbi della mia memoria o da quelli d'un altro mondo. La mia anima, se pure ne posseggo una, è fatta della stessa sostanza degli spettri; questo corpo dalle mani gonfie, dalle unghie livide, questa triste carne già per metà in dissoluzione, quest'otre di mali, di ambizioni e di sogni, non è molto più solido né più consistente d'un'ombra. Non mi distinguo dai morti se non per la facoltà di soffocare qualche momento ancora; in un certo senso, la loro esistenza mi sembra più certa della mia. Antinoo e Plotina sono reali almeno quanto me.
La meditazione della morte non insegna a morire; non rende l'esodo più facile, ma non è questo quel ch'io cerco. Piccola figura imbronciata e volontaria, il tuo sacrificio non ha arricchito la mia vita, ma la mia morte. Il suo approssimarsi ristabilisce tra noi due una sorta d'intima complicità: i vivi che mi circondano, i servi devoti, importuni a volte, non sapranno mai sino a qual punto il mondo non c'interessa più. Penso con disgusto ai tetri simboli delle tombe egizie: l'arido scarabeo, la rigida mummia, la rana dei parti eterni. A dar retta ai sacerdoti, t'ho lasciato in quel luogo ove gli elementi d'un essere si lacerano come un abito logoro che si strappa, in quel sinistro crocevia tra ciò che esiste eternamente, ciò che fu, e ciò che sarà. Può darsi che in fin dei conti essi abbiano ragione, che la morte sia fatta della stessa materia fluttuante e informe della vita. Ma tutte le teorie sull'immortalità m'ispirano diffidenza: il sistema delle retribuzioni e delle pene lascia freddo un giudice consapevole della difficoltà d'un giudizio. D'altra parte, mi accade altresì di trovar troppo banale la soluzione opposta, il puro nulla, il vuoto ove risuona la risata d'Epicuro. Osservo la mia fine: questa serie di esperimenti compiuti su me stesso prosegue il lungo studio iniziato nella clinica di Satiro. Fino a ora, sono mutamenti esteriori, quanto quelli che il tempo e le intemperie fanno subire a un monumento di cui non alterano né la materia, né la plastica: a volte, attraverso le crepe, mi sembra di scorgere e toccare le fondamenta indistruttibili, il tufo eterno. Sono quel che ero: muoio senza mutarmi. A prima vista, l'adusto fanciullo dei giardini di Spagna, l'ufficiale ambizioso che rientra nella tenda scrollandosi dalle spalle i fiocchi di neve, sembrano tanto cancellati quanto lo sarò io dopo che sarò passato attraverso il rogo; ma essi son qui; io ne sono inseparabile. L'uomo che ha urlato sul petto d'un morto continua a gemere in un angolo di me stesso, a onta della calma più e meno che umana alla quale partecipo già; il viaggiatore racchiuso nel corpo del malato ormai sedentario per sempre s'interessa alla morte perché essa rappresenta una partenza. Quella forza ch'io fui sembra capace ancora di animare parecchie altre vite, di sollevare dei mondi. Se, per miracolo, qualche secolo venisse aggiunto ai pochi giorni che mi restano, rifarei le stesse cose, persino gli stessi errori, frequenterei gli stessi Olimpi e i medesimi Inferi.
Una constatazione simile è un argomento eccellente in favore dell'utilità della morte, ma nello stesso tempo m'ispira dubbi sulla totale efficacia di essa.
In certi periodi della mia vita, ho preso nota dei sogni; ne discutevo il significato con i sacerdoti, i filosofi, gli astrologhi. La facoltà di sognare, attenuata da anni ormai, mi è stata ridata in questi mesi d'agonia; gl'incidenti dello stato di veglia ci appaiono meno reali, a volte meno importanti dei sogni. Se questo mondo larvale e spettrale, dove si miete l'informe e l'assurdo ancor più largamente che sulla terra, ci offre un'idea delle condizioni dell'anima separata dal corpo, senza dubbio trascorrerò l'eternità a rimpiangere il controllo squisito dei sensi e l'adattamento prospettico della ragione umana. E, tuttavia, non è privo di dolcezza questo immergersi nelle regioni vaghe dei sogni; ivi, possiedo per un istante segreti che subito mi sfuggono; mi disseto a sorgenti. L'altro giorno, mi trovavo nell'oasi di Ammone, la sera della caccia alle belve. Ero felice: tutto si è svolto come ai bei tempi della mia forza; il leone ferito è caduto, poi s'è rialzato; mi sono avventato per finirlo. Ma, questa volta, il mio cavallo, impennatosi, m'ha gettato a terra; l'orribile massa sanguinante mi è precipitata addosso; le sue zanne m'hanno lacerato il petto; sono tornato in me, nella mia camera di Tivoli, invocando aiuto. Ancor più di recente, ho rivisto mio padre, eppure ci penso ben poco; giaceva nel suo letto di malato, in una stanza della nostra casa d'Italica, che ho lasciata subito dopo la sua morte. Aveva sul tavolo una fiala piena d'una pozione sedativa, e l'ho supplicato di darmela. Mi sono destato senza che avesse avuto il tempo di rispondermi. Mi fa meraviglia che la maggior parte degli uomini abbia tanta paura degli spettri, mentre si acconsente così facilmente a parlare con i morti, in sogno.
Anche i presagi si moltiplicano: ormai, tutto sembra un intimazione, un segno. Ho lasciato cadere e infrangersi una preziosa pietra, incastonata in un anello, sulla quale un artigiano greco aveva inciso il mio profilo. Gli auguri scrollano gravemente il capo; io rimpiango semplicemente quel capolavoro. Mi capita di parlare di me stesso al passato: in Senato, discutendo avvenimenti posteriori alla morte di Lucio, mi si è inceppata la lingua e varie volte mi son trovato a parlare di quelle circostanze come se avessero avuto luogo dopo la mia morte. Pochi mesi fa, il giorno del mio anniversario, mentre mi portavano in lettiga su per le scale del Campidoglio, mi son trovato faccia a faccia con un uomo in gramaglie che piangeva: ho visto il mio vecchio Cabria cambiar colore. In quell'epoca, uscivo ancora; continuavo a esercitare le mie funzioni di Pontefice Massimo, di Fratello Arvale, a celebrare io stesso quei riti antichi della religione romana che finisco per preferire alla maggior parte dei culti stranieri. In piedi davanti all'altare, m'apprestavo ad accendere la fiamma; offrivo agli dèi un sacrificio per Antonino. Improvvisamente, il lembo della toga che mi copriva la fronte scivolò e mi ricadde sulla spalla, lasciandomi a testa scoperta; passavo così dal rango di sacrificatore a quello di vittima. E, a dire il vero, è proprio la mia volta.
La mia pazienza dà i suoi frutti: soffro meno; la vita torna a sembrarmi quasi dolce. Non mi bisticcio più con i medici; i loro sciocchi rimedi m'hanno ucciso; ma la loro presunzione, la loro pedanteria ipocrita è opera nostra; mentirebbero meno se noi non avessimo paura di soffrire. Mi mancano le forze per gli attacchi di furore d'altri tempi: so bene, da fonte certa, che Platorio Nepote, che mi è stato molto caro, ha abusato della mia fiducia; ma non ho tentato di sbugiardarlo; non l'ho punito. L'avvenire del mondo non mi angustia più; non m'affatico più per calcolare angosciosamente la durata, più o meno lunga, della pace romana; m'affido agli dèi. Non già ch'io abbia acquisito una maggior fiducia nella loro giustizia, che non è la nostra, o una maggior fede nella saggezza umana; è vero il contrario. La vita è atroce; lo sappiamo. Ma proprio perché aspetto tanto poco dalla condizione umana, i periodi di felicità, i progressi parziali, gli sforzi di ripresa e di continuità mi sembrano altrettanti prodigi che compensano quasi la massa immensa dei mali, degli insuccessi, dell'incuria e dell'errore. Sopravverranno le catastrofi e le rovine; trionferà il caos, ma di tanto in tanto verrà anche l'ordine. La pace s'instaurerà di nuovo tra le guerre; le parole umanità, libertà, giustizia ritroveranno qua e là il senso che noi abbiamo tentato d'infondervi. Non tutti i nostri libri periranno; si restaureranno le nostre statue infrante; altre cupole, altri frontoni sorgeranno dai nostri frontoni, dalle nostre cupole; vi saranno uomini che penseranno, lavoreranno e sentiranno come noi: oso contare su questi continuatori che seguiranno, a intervalli irregolari, lungo i secoli, su questa immortalità intermittente. Se i barbari s'impadroniranno mai dell'impero del mondo saranno costretti ad adottare molti dei nostri metodi; e finiranno per rassomigliarci. Cabria si preoccupa di vedere un giorno il pastoforo di Mitra o il vescovo di Cristo prendere dimora a Roma e rimpiazzarvi il Pontefice Massimo. Se per disgrazia questo giorno venisse, il mio successore lungo i crinali vaticani avrà cessato d'essere il capo d'una cerchia d'affiliati o d'una banda di settari per divenire a sua volta una delle espressioni universali dell'autorità. Erediterà i nostri palazzi, i nostri archivi; differirà da noi meno di quel che si potrebbe credere. Accetto con calma le vicissitudini di Roma eterna.
Le medicine non mi soccorrono più; aumenta l'enfiagione delle mie gambe; e sonnecchio seduto più che disteso. Uno dei vantaggi della morte sarà d'esser disteso ancora, in un letto. Ormai, tocca a me consolare Antonino. Gli ricordo che da tempo, ormai, la morte mi appare la soluzione più elegante dei miei problemi; come sempre, i miei voti finiscono per realizzarsi, ma in modo più lento, più indiretto di quel che potessi mai credere. Mi rallegro che il male m'abbia lasciato la lucidità sino all'ultimo; di non aver dovuto subire la prova dell'estrema vecchiezza, di non esser destinato a conoscere quell'indurimento, quella rigidità, quell'inerzia, quella atroce assenza di desideri. Se i miei calcoli son giusti, mia madre è morta pressappoco all'età alla quale io son giunto; la mia vita è già stata d'una metà più lunga di quella di mio padre, morto a quarant'anni. Tutto è pronto: l'aquila incaricata di recare agli dèi l'anima dell'imperatore è tenuta in riserva per la cerimonia funebre; il mio mausoleo, sulla sommità del quale vengono piantati in questo momento i cipressi destinati a formare contro il cielo una piramide nera, sarà terminato pressappoco in tempo per deporvi le mie ceneri ancor tiepide. Ho pregato Antonino che in seguito vi faccia trasportare Sabina; ho trascurato di farle decretare onori divini alla sua morte, e in fin dei conti le son dovuti; non è male riparare a questa negligenza. E vorrei che i resti di Elio Cesare fossero collocati al mio fianco.
M'hanno portato a Baia; con questo caldo di luglio, il tragitto è stato penoso, ma in riva al mare respiro meglio. L'onda manda sulla riva il suo mormorio, fruscio di seta e carezza; godo ancora le lunghe sere rosate. Ma ormai non reggo più queste tavolette che per occupare le mie mani, che si muovono, mio malgrado. Ho mandato a chiamare Antonino; un corriere lanciato a tutta corsa è partito per Roma. Rimbombano gli zoccoli di Boristene, galoppa il Cavaliere Trace... Il piccolo gruppo degl'intimi si stringe al mio capezzale. Cabria mi fa pena. Le lacrime mal si addicono alle rughe dei vecchi. Il bel volto di Celere è, come sempre, singolarmente calmo; è intento a curarmi senza lasciare trapelar nulla che potrebbe contribuire all'ansia o alla stanchezza d'un malato. Ma Diotimo singhiozza, la testa affondata nei guanciali. Ho assicurato il suo avvenire; non ama l'Italia; potrà realizzare il suo sogno di far ritorno a Gadara e aprirvi con un amico una scuola d'eloquenza; con la mia morte, non ha nulla da perdere. E, tuttavia, l'esile spalla si agita convulsamente sotto le pieghe della tunica; sento sotto le dita queste lacrime deliziose. Fino all'ultimo istante, Adriano sarà stato amato d'amore umano.
Piccola anima smarrita e soave, compagna e ospite del corpo, ora t'appresti a scendere in luoghi incolori, ardui e spogli, ove non avrai più gli svaghi consueti. Un istante ancora, guardiamo insieme le rive familiari, le cose che certamente non vedremo mai più... Cerchiamo d'entrare nella morte a occhi aperti...
AL DIVINO ADRIANO AUGUSTO
FIGLIO DI TRAIANO VINCITORE DEI PARTI
NIPOTE DI NERVA
PONTEFICE MASSIMO
RIVESTITO PER LA VENTIDUESIMA VOLTA
DELLA POTESTA' TRIBUNICIA
TRE VOLTE CONSOLE DUE VOLTE TRIONFATORE
PADRE DELLA PATRIA
E ALLA SUA DIVINA CONSORTE
SABINA
ANTONINO LORO FIGLIO
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A LUCIO ELIO CESARE
FIGLIO DEL DIVINO ADRIANO
DUE VOLTE CONSOLE