8. Il deserto dei Tartari (C. 11-12)
Quasi due anni dopo Giovanni Drogo dormiva una notte nella sua camera della Fortezza. Ventidue mesi erano passati senza portare niente di nuovo e lui era rimasto fermo ad aspettare, come se la vita dovesse avere per lui una speciale indulgenza. Eppure ventidue mesi sono lunghi e possono succedere molte cose: c'è tempo perché si formino nuove famiglie, nascano bambini e incomincino anche a parlare, perché una grande casa sorga dove prima c'era soltanto prato, perché una bella donna invecchi e nessuno più la desideri, perché una malattia, anche delle più lunghe, si prepari (e intanto l'uomo continua a vivere spensierato), consumi lentamente il corpo, si ritiri per brevi parvenze di guarigione, riprenda più dal fondo, succhiando le ultime speranze, rimane ancora tempo perché il morto sia sepolto e dimenticato, perché il figlio sia di nuovo capace di ridere e alla sera conduca le ragazze nei viali, inconsapevole, lungo le cancellate del cimitero.
L'esistenza di Drogo invece si era come fermata. La stessa giornata, con le identiche cose, si era ripetuta centinaia di volte senza fare un passo innanzi. Il fiume del tempo passava sopra la Fortezza, screpolava le mura, trascinava in basso polvere e frammenti di pietra, limava gli scalini e le catene, ma su Drogo passava invano; non era ancora riuscito ad agganciarlo nella sua fuga.
Anche quella notte sarebbe stata uguale a tutte le altre se Drogo non avesse fatto un sogno. Egli era tornato bambino e si trovava di notte al davanzale di una finestra.
Al di là di una profonda rientranza della casa, vedeva la facciata di un palazzo ricchissimo illuminato dalla luna. E l'attenzione di Drogo bambino era tutta attratta verso un'alta sottile finestra, coronata da un baldacchino di marmo. La luna, entrando attraverso i vetri, batteva su un tavolo dove c'erano un tappeto, un vaso e alcune statuette di avorio. E questi pochi oggetti visibili facevano immaginare che nel buio, dietro, si aprissero le intimità di un vasto salone, il primo di una interminabile serie, pieni di cose preziose, e il palazzo intero dormisse, di quel sonno assoluto e provocante che conoscono le dimore della gente ricca e felice. "Che gioia" pensò Drogo "poter vivere in quei saloni, girare per ore scoprendo sempre nuovi tesori." Tra la finestra a cui era affacciato e il meraviglioso palazzo - un intervallo di una ventina di metri - avevano intanto cominciato a fluttuare fragili parvenze, simili a fate forse, che si trascinavano dietro strascichi di velo, rilucenti alla luna.
Nel sogno la presenza di simili creature, mai viste nel mondo reale, non stupiva Giovanni. Esse ondeggiavano nell'aria in lenti vortici, sfiorando insistentemente la sottile finestra.
Per la loro natura esse apparivano logiche pertinenze del palazzo, ma il fatto che non badassero affatto a Drogo, mai avvicinandosi alla sua casa, lo mortificava. Anche le fate dunque rifuggivano dai bambini comuni per badare soltanto alla gente fortunata che non le stava neppure a guardare ma dormiva indifferente sotto baldacchini di seta?
"Pst…pst…" fece Drogo due o tre volte, timidamente, per attirare l'attenzione dei fantasmi, ben sapendo però in cuor suo che sarebbe stato inutile. Nessuno di quelli infatti parve sentire, nessuno si accostò sia pure di un metro al suo davanzale.
Ma ecco una di quelle magiche creature aggrapparsi al bordo della opposta finestra con una specie di braccio e battere il vetro discretamente come per chiamare qualcuno.
Non passarono molti istanti che una esile figura, oh quanto piccola in confronto della monumentale finestra, comparve dietro i vetri e Drogo riconobbe Angustina, pure lui bambino.
Angustina, di un impressionante pallore, portava un vestito di velluto con un collo di pizzo bianco e non pareva per nulla soddisfatto di quella silenziosa serenata.
Drogo pensò che il compagno, se non altro per cortesia, lo avrebbe invitato a giocare insieme coi fantasmi. Ma non fu così. Angustina non parve notare l'amico e neppure quando Giovanni lo chiamò "Angustina!
Angustina!" rivolse gli sguardi a lui.
Con gesto stanco l'amico invece aprì la finestra e si chinò verso lo spirito appeso al davanzale come se fosse con lui in dimestichezza e volesse dirgli una cosa. Lo spirito fece un cenno e seguendo la direzione di quel gesto Drogo volse gli sguardi a una grande piazza, assolutamente deserta, che si stendeva dinanzi alle case. Sopra questa piazza, a una decina di metri dal suolo avanzava per l'aria un piccolo corteo di altri spiriti che trascinavano una portantina.
Fatta, apparentemente della loro medesima essenza, la portantina traboccava di veli e pennacchi. Angustina, con la sua caratteristica espressione di distacco e di noia, la guardava avvicinarsi; era evidente che veniva per lui.
L'ingiustizia feriva il cuore di Drogo. Perché tutto ad Angustina e a lui niente? Pazienza un altro, ma proprio Angustina, sempre così superbo e arrogante. Drogo guardò le altre finestre per vedere se ci fosse qualcuno che potesse eventualmente parteggiare per lui ma non riuscì a scorgere nessuno.
Finalmente la portantina si fermò, dondolando proprio dinanzi alla finestra e tutti i fantasmi d'un balzo si appollaiarono attorno formando una palpitante corona: tutti erano protesi ad Angustina non più ossequiosi bensì con curiosità avida e quasi maligna. Abbandonata a se stessa, la portantina si sosteneva nell'aria come appesa a fili invisibili.
Di colpo Drogo si svuotò di ogni invidia poiché capì ciò che stava accadendo. Vedeva Angustina, ritto al davanzale della finestra, e i suoi occhi fissare la portantina. Sì, erano venuti da lui i messaggeri delle fate quella notte, ma per quale ambasciata! A un lungo viaggio dunque doveva servire la portantina, e non sarebbe ritornata prima dell'alba e neppure la notte successiva né la terza notte, né mai. I saloni del palazzo avrebbero aspettato invano il padroncino, due mani di donna avrebbero cautamente richiuso la finestra lasciata aperta dal fuggitivo e anche tutte le altre sarebbero state sprangate, a covare nel buio il pianto e la desolazione.
I fantasmi, già amabili, non erano dunque venuti a giocare coi raggi della luna, non erano usciti, innocenti creature, da giardini profumati, ma provenivano dall'abisso.
Gli altri bambini avrebbero pianto, avrebbero chiamato la mamma, invece Angustina non aveva paura e confabulava pacatamente con gli spiriti, come per stabilire certe modalità ch'era necessario chiarire. Stretti intorno alla finestra, simili a un panneggiamento di spuma, quelli si accavallavano l'uno sull'altro, premendo verso il bambino e lui faceva con la testa di sì come per dire: va bene, va bene, tutto perfettamente d'accordo. Alla fine lo spirito che si era aggrappato per primo al davanzale, forse il capo, fece un piccolo gesto imperioso. Angustina, sempre con la sua aria annoiata, scavalcò il davanzale (pareva già divenuto lieve come i fantasmi) e si sedette nella portantina, da signore, accavallando le gambe. Il grappolo di fantasmi si disciolse in un ondeggiamento di veli, la fatata carrozza mosse dolcemente per partire.
Si compose un corteo, le parvenze fecero una evoluzione semicircolare nella rientranza delle case, per sollevarsi quindi nel cielo, in direzione della luna. Nel descrivere il semicerchio anche la portantina passò a pochi metri dalla finestra di Drogo che agitando le braccia tentò di gridare "Angustina! Angustina!" supremo saluto. L'amico morto volse allora finalmente il capo verso Giovanni, fissandolo qualche istante, e a Drogo sembrò di leggervi una serietà assolutamente eccessiva per così piccolo bambino. Ma il volto di Angustina lentamente si apriva a un sorriso di complicità, come se Drogo e lui potessero capire molte cose sconosciute ai fantasmi; una estrema voglia di scherzare, l'ultima occasione per far vedere che lui Angustina non aveva bisogno della pietà di nessuno: un episodio qualsiasi, pareva dire, sarebbe stato stupido meravigliarsene. Traendolo via la portantina, Angustina staccò gli sguardi da Drogo e volse il capo dinanzi, in direzione del corteo, con una specie di curiosità divertita e diffidente. Sembrava che esperimentasse per la prima volta un giocattolo a cui non teneva affatto ma che per convenienza non aveva potuto rifiutare.
Così si allontanò nella notte, con nobiltà quasi inumana. Non diede uno sguardo al suo palazzo, non uno alla piazza sottostante, o alle altre case, o alla città in cui era vissuto. Il corteo andò serpeggiando lentamente nel cielo, sempre più in alto, divenne una confusa scia, poi un minimo ciuffetto di nebbia, poi nulla. La finestra era rimasta aperta, i raggi della luna ancora illuminavano il tavolo, il vaso, le statuette di avorio, che avevano continuato a dormire. Là dentro, in altra stanza disteso sul letto, al lume tremolante dei ceri, forse stava disteso un piccolo corpo umano privo di vita, il cui volto assomigliava ad Angustina; e doveva avere un vestito di velluto, un grande collo di pizzo, sulle bianche labbra raggelato un sorriso.
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Capitolo 12
Il giorno dopo Giovanni Drogo comandò la guardia alla Ridotta Nuova. Era questa un fortino staccato a tre quarti d'ora di strada dalla Fortezza, in cima a un cono di roccia, incombente sulla pianura dei Tartari. Era il presidio più importante, completamente isolato e doveva dare l'allarme se qualche minaccia si avvicinava.
Drogo uscì alla sera dalla Fortezza al comando di una settantina di uomini: tanti soldati occorrevano perché i posti di sentinella erano dieci senza contare due cannoniere. Era la prima volta che egli metteva piede al di là del passo, praticamente si era già fuori confine.
Giovanni pensava alle responsabilità del servizio ma soprattutto meditava il sogno su Angustina. Questo sogno gli aveva lasciato nell'animo una risonanza ostinata. Gli pareva che ci dovessero essere oscuri collegamenti con le cose future, benché lui non fosse specialmente superstizioso.
Entrarono nella Ridotta Nuova, si fece il cambio delle sentinelle, poi la guardia smontante se n'andò e dal ciglio della terrazza Drogo stette ad osservarla che si allontanava attraverso i ghiaioni. La Fortezza di là appariva come un lunghissimo muro, un semplice muro con dietro niente. Le sentinelle non si scorgevano perché troppo lontane. Solo la bandiera di tanto in tanto era visibile quando veniva agitata dal vento.
Per ventiquattr'ore nella solitaria ridotta l'unico comandante sarebbe stato Drogo. Qualsiasi cosa fosse successa non si potevano domandare aiuti. Anche se fossero arrivati nemici, il fortino doveva bastare a se stesso. Il Re medesimo fra quelle mura per ventiquattr'ore contava meno di Drogo.
Aspettando che venisse la notte Giovanni restò a guardare la pianura settentrionale. Dalla Fortezza non ne aveva potuto vedere che un piccolo triangolo, per via delle montagne davanti. Adesso la poteva invece scorgere tutta, fino ai limiti estremi dell'orizzonte dove ristagnava la solita barriera di nebbia. Era una specie di deserto, lastricato di rocce, qua e là macchie di bassi cespugli polverosi. A destra, in fondo in fondo, una striscia nera poteva essere anche una foresta. Ai fianchi la aspra catena delle montagne. Ve n'erano di bellissime con sterminati muraglioni a picco e la vetta bianca per la prima neve autunnale. Eppure nessuno le guardava; tutti, Drogo e i soldati, tendevano istintivamente a guardare verso nord, alla desolata pianura, priva di senso e misteriosa.
Fosse il pensiero di essere completamente solo a comandare il fortino, fosse la vista della disabitata landa, fosse il ricordo del sogno di Angustina, Drogo sentiva ora crescergli attorno, col dilatarsi della notte, una sorda inquietudine.