In sintonia con l'avversario
La biblioteca di Bruce Lee comprendeva circa 2.000 volumi. Tra questi c'erano anche molti libri sulla psicologia occidentale. In particolare opere di Friedrich Salomon Perls e Alan Watts erano state lette e recepite da Bruce con grande interesse, spesso suggerite da amici a lui molto vicini.
Uno dei concetti più importanti elaborati da questi pensatori (in particolare Perls, fondatore della psicologia della Gestalt) è quello della non-interruzione, concetto a sua volta molto vicino ai princìpi orientali. Il concetto di Perls è che alla base della nevrosi vi è l'interruzione, e in particolare l'auto-interruzione, il fatto cioè di non completare mai neppure un pensiero prima che un altro pensiero intervenga. Questo atteggiamento nevrotico conduce a lungo andare a una sorta di interruzione continua, con un forte disagio per il soggetto, che poi si trasforma in inazione. Il funzionamento naturale, invece, è ininterrotto: ogni evento compare, si manifesta pienamente, scompare. Non esiste veramente una scansione temporale, presente e futuro sono un'unica cosa insieme al passato. Bruce riprende questi concetti in chiave originale e soprattutto funzionale alle sue esigenze di artista marziale, e li reinterpreta attraverso il concetto di ritmo. Espressioni come cadenza, contrattempo, ritmo spezzato, movimento – sembrano prese da un manuale di teoria musicale – abbondano nei suoi appunti e servono a spiegare questo flusso continuo, che non può e non deve essere imprigionato. Nessun condizionamento meccanico deve opprimere la libertà. Il ritmo deve esprimersi. I kata tradizionali (serie di movimenti preordinati e codificati che rappresentano varie tecniche e tattiche di combattimento) vengono visti come qualcosa di assolutamente innaturale. Quella che Bruce Lee chiama con espressione felicissima “disperazione organizzata” è un insieme di mosse precedentemente formulate e artificiosamente ripescate nel momento del combattimento che interrompono sistematicamente il flusso della vita. Una vera e propria intromissione, coltivata in ore e ore di sterile ripetizione. Le arti marziali, fino al suo avvento, erano vuote successioni di kata, cioè di mosse eseguite come formule, ripetitive, asettiche, totalmente insensate.
Il suo punto di vista, brillante e dinamico mise in ridicolo questa successione di figure che assomigliavano a una specie di vuoto balletto senza musica. La furia vitale che pulsava nel suo corpo e nella sua mente non poteva accettare una simile fatua rappresentazione, e Bruce Lee irruppe nel mondo dell'arte marziale con una carica assolutamente esplosiva. Questa energia creatrice scosse poi dalle fondamenta anche il cinema, rivoluzionando le scene di combattimento, che fino a quel momento erano state – specie nei film made in Hong Kong – delle rappresentazioni al limite del cartoonesco. Realismo fu la parola d'ordine di Bruce Lee, anche davanti a una macchina da presa. Del tutto privi di senso, i combattenti che Bruce chiama “stilisti” – cioè aderenti rigidamente a uno stile – si muovono come schiavi in catene, come burattini dai movimenti predisposti, appoggiandosi a modelli che altro non sono che inutili ripetizioni. In questo modo l'atleta finisce non per affrontare realmente l'avversario, bensì per esibirsi, per dare spettacolo con le proprie mosse apprese in palestra, i kata, appunto. “Presta orecchio ai propri gridi”, sopraffatto da routine e preconcetti, commenta severamente Bruce. Va in scena un'esibizione vuota. Anche se non abbiamo mai messo piede in un dojo spesso anche noi compiamo errori simili. Rispondiamo con frasi fatte, ci comportiamo secondo formule del tutto vuote, e di fatto ci sottraiamo al difficile compito di guardare negli occhi la vita. Bruce è molto chiaro anche su questo punto. Appoggiarsi a formule e stilemi è il modo più facile per non conoscere noi stessi, tutti presi dalla confusione dell'esistere. Affrontare un avversario significa sempre conoscere se stessi, essere costretti a guardarsi nel più profondo dell'anima. Noi e l'avversario siamo sempre nuovi, in ogni istante. Com'è possibile non tenerne conto? Chi di noi non ha il coraggio di accettare questo ricorre immediatamente a modelli entro cui trovare riparo, e spera miseramente di vincere il confronto grazie a una specie di “forza esterna”, un super-potere che dovrebbe provenirci dall'osservanza di regole. Sottoposti come automi, o schiavi, a queste regole, affidiamo il nostro successo a questa entità che ha molto a che fare con il cosiddetto dovere morale. Affidiamo a formule la nostra vita, e non capiamo come mai abbiamo fallito.
Il rapporto con l'avversario è l'unica via per accedere alla verità, e questa affermazione è espressa in maniera persino sconvolgente da Bruce: “Bisogna entrare in sintonia con l'avversario”. Il rapporto mobile, vivo con l'avversario è addirittura empatico, persino se l'avversario che abbiamo davanti vuole la nostra morte. La nostra mente e quella dell'avversario si devono muovere in libertà, senza approvazioni, lusinghe, rifiuti. Questa danza tra le fiamme è la manifestazione stessa della bellezza più autentica dell'essere. Un punto ancora merita di essere approfondito, perché foriero di molti fraintendimenti. Coloro che si avvicinano superficialmente al mondo delle filosofie orientali compiono molto spesso un errore grossolano, quando immaginano che meditare (per lo Zen, la meditazione detta zazen è l'essenza stessa della vita) significa concentrarsi. I novelli meditanti allora focalizzano tutte le loro energie su un'immagine, un suono, un pensiero o una sensazione. Questo errore è tanto più grave perché – pur procurando qualche beneficio temporaneo, abbassando per esempio i livelli di ansia e di stress – alimenta un percorso del tutto fuorviante. “Se l'io-sé viene anche appena percepito, più praticate e più vi allontanerete dalla Via, dal Dharma e dallo Zen”, dice il maestro Harada. Questa non è meditazione, perché meditare non significa concentrarsi. La concentrazione è un atto di restringimento del reale, un rimpicciolimento forzoso dello spettro potenzialmente sconfinato della mente. La mente deve invece comprendere ogni cosa, perché deve essere in grado di agire su ogni cosa.
Il concetto reale che sta alla base della meditazione non è quindi la concentrazione, bensì l'attenzione. Il meditante – e anche il combattente – deve essere attento, e per essere totalmente attento deve comportarsi come una coppa, che si svuota per accogliere il contenuto.
Solo chi sarà talmente forte da svuotarsi del proprio ego riuscirà ad accogliere qualunque contenuto, senza giudizi e interrogativi, e a lasciarlo andar via quando sarà il momento. Senza ansie, con pura azione. Senza rimpianti, in pura contemplazione. Così il cerchio tra Occidente e Oriente, tra vita e combattimento, si chiude.
La ricerca di Bruce fu completamente devota al senso di libertà che emanava dalle sue parole. In quanto assertore di una “forma senza forma”, Bruce non asserì mai di seguire un contro-metodo, qualcosa che si opponesse direttamente a questo o quello stile.
La sua crisi spirituale, in fatto di metodi, si spinse al punto di chiudere nel 1970 tutte le sue scuole. Continuò a insegnare, naturalmente, anche perché le cose a Hollywood non andavano come avrebbe sperato, e le difficoltà incontrate nella carriera cinematografica lo costringevano a cercare altre fonti di reddito. Impartiva per lo più lezioni private, a persone molto facoltose, facendosi pagare anche 1000 dollari a settimana, cosa che gli permetteva però di dare anche lezioni gratuite a chi meritava di essere suo allievo ma non poteva consentirsi di pagarlo. Tra i suoi clienti più facoltosi c'era il famoso regista Roman Polanski e molti altri vip di Hollywood e dintorni. Bruce si era anche reso conto come non potesse più proporre un metodo per tutti, ma che la ricerca di ciascuno dovesse compiersi individualmente, come un vero e proprio percorso spirituale.
Ciò che va compreso è che, come dichiarò più volte, Bruce cercava sempre la “radice delle cose”, ciò che conduce alla totalità. I suoi combattimenti erano la quintessenza della semplicità, in lui vibrava incessantemente un ritmo incalzante. Bruce sentiva di possedere dentro di sé una immensa forza creativa e spirituale che si manifestava, per così dire, nella sua mano.
Non pochi tentarono di emularlo, spesso con esiti grotteschi. La sua idea di stile senza stile veniva fraintesa e banalizzata, e Bruce doveva sopportare la presenza di dilettanti particolarmente “creativi” che credevano che, mischiando un po' di mosse alla rinfusa, prese da questo o quello stile del kung fu, avrebbero fatto come lui. Lee mostrò sempre ironico rispetto nei confronti di questi improvvisati innovatori, capaci solo di scimmiottare la sua intuizione superiore.
Il Drago sorrideva sornione, e proseguiva per la sua strada.