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Cristo si è fermato a Eboli - Carlo Levi, Parte 20

Parte 20

Gagliano mi riprese e richiuse, come l'acqua verde di un pantano raccoglie la rana, indugiatasi sulla proda ad asciugarsi al sole. Mi pareva ancora piú lontano e solitario di prima; nessun suono mi giungeva dal mondo di fuori: qui non passavano attori né mercanti. La strega mi aspettava sull'uscio di casa, come al solito, con il suo gran corpo nero senza età. Don Luigino mi aspettava sulla piazza, contento di riavermi in suo potere. I malati mi aspettavano nelle loro casupole, più numerosi per quella settimana di abbandono. E ricominciò la serie dei giorni uguali, come prima.

Il tempo si fece freddo. Dal fondo dei burroni il vento saliva con i suoi vortici gelidi, soffiava continuo, come venisse da tutte le parti, penetrava nelle ossa, e si perdeva, ruggendo, nelle gole dei camini. La notte, solo nella mia casa, lo ascoltavo: era un grido senza interruzione, un urlo, un lamento, come se tutti gli spiriti della terra si lagnassero insieme della loro sconsolata prigionia. Vennero le piogge, lunghe, abbondanti, senza fine: il paese si coprì di nebbie biancastre che stagnavano nelle valli: le cime dei colli sorgevano da quello sfatto biancore, come isole su un informe mare di noia. Le argille cominciarono a sciogliersi, a colare lente per i pendii, scivolando in basso, grigi torrenti di terra in un mondo liquefatto. Nella mia stanza, il suono metallico delle gocce che cadevano sulla terrazza risuonava come su una pelle tesa, e si univa ai ringhi e ai sibili del vento: ero come sotto una tenda in un deserto. Dalle finestre entrava una luce fosca e incerta: le colline parevano addormentarsi dolorosamente in quello squallore. Soltanto Barone correva lieto all'aperto, nell'acqua, come un folletto, annusando gli odori della terra bagnata, e rientrava saltellante, scuotendosi la pelliccia inzuppata. La violenza del vento contrario ricacciava il fumo del camino nelle camere: il fumo acre e odoroso dei ceppi di ginepro e di brugo, delle some che una contadina mi portava, sul suo asino, dal bosco. Dovevo gelare, o lagrimare. Con gli occhi che mi bruciavano, lasciavo passare le ore, in quella acquosa atmosfera di dissoluzione. Poi venne la neve, le mani delle donne si arrossarono per il gelo, sopra i veli bianchi apparvero le grandi mantiglie di lana nera; e un'immobilità più ferma, un silenzio più fitto del consueto parve addensarsi sulle distese solitarie dei monti. Una sera che un vento selvaggio aveva portato qualche squarcio di sereno, udii squillare la tromba del banditore, e rullare il tamburo; la strana voce del becchino ripeteva, davanti a tutte le case, con la sua unica nota alta e strascicata, il suo appello. - Donne, è arrivato il sanaporcelle! Domattina, alle sette, tutte al Timbone della Fontana con le vostre porcelle. Donne, è arrivato il sanaporcelle! - La mattina il tempo era incerto, ma fra le nuvole basse appariva qualche lembo di cielo. La neve era quasi tutta sciolta: restava, a chiazze, qua e là, nei luoghi dove il vento l'aveva accumulata. Uscii presto di casa, e mi avviai.

Il Timbone della Fontana era un largo spiazzo, quasi piano, fra i monticelli di argilla, nei pressi dell'antica sorgente, un po' fuori del paese, a destra della chiesa. Quando ci arrivai, nella luce ancora grigia lo vidi già pieno di folla. Quasi tutte le donne, giovani e vecchie, erano là; e molte tenevano al guinzaglio, come un cane, la loro scrofa: le altre le accompagnavano, e venivano ad assistere alla sanatura. Veli bianchi e scialli neri ondeggiavano al vento: un gran sussurrio, un frastuono di voci, di grida, di risa, di grugniti, si spargeva nell'aria tagliente. Le donne erano tutte eccitate, rosse in viso, piene di apprensione e di appassionata attesa. I ragazzi correvano, i cani abbaiavano, tutto era movimento. In mezzo al Timbone stava ritto un uomo alto quasi due metri, e robusto, col viso acceso, i capelli rossi, gli occhi azzurri e dei gran baffi spioventi, che lo facevano assomigliare a un barbaro antico, a un Vercingetorige, capitato per caso in questi paesi di uomini neri. Era il sanaporcelle. Sanare le porcelle significa castrarle, quelle che non si tengono a far razza, perché ingrassino meglio, e abbiano carni più delicate. La cosa, per i maiali, non è difficile, e i contadini la fanno da soli, quando le bestie sono giovani. Ma alle femmine bisogna togliere le ovaie, e questo richiede una vera operazione di alta chirurgia. Questo rito è dunque eseguito dai sanaporcelle, mezzi sacerdoti e mezzi chirurghi. Ce ne sono pochissimi: è un'arte rara, che si tramanda di padre in figlio. Quello che io vidi, era un sanaporcelle famoso, figlio e nipote di sanaporcelle; e passava di paese in paese, due volte all'anno, a eseguire la sua opera. Aveva fama d'essere abilissimo: era ben raro che una bestia gli morisse dopo l'operazione. Ma le donne trepidavano ugualmente, per il rischio e l'amore per l'animale familiare. L'uomo rosso si ergeva possente in mezzo allo spiazzo, e affilava il coltello. Teneva in bocca, per aver libere le mani, un grosso ago da materassaio; uno spago, infilato nella cruna, gli pendeva sul petto; e aspettava la prossima vittima. Le donne esitavano attorno a lui: ciascuna spingeva la vicina o l'amica a portare per prima la sua bestia, con grandi esclamazioni e deprecazioni. Anche le scrofe pareva sapessero la sorte che le aspettava, e puntavano i piedi, o tiravano sulle corde per fuggire, e strillavano come ragazze impaurite, con quelle loro voci così umane. Una giovane donna si fece innanzi con la sua bestia, e due contadini che facevano da aiutanti afferrarono subito la maialina rosea, che si dibatteva e gridava di spavento. Tenendola ben ferma per le zampe, che legarono a dei paletti conficcati in terra, la sdraiarono a pancia all'aria. La scrofa urlava, la giovane si fece il segno della croce, e invocò la Madonna di Viggiano, fra il mormorio di partecipe consenso di tutte le altre donne; e l'operazione cominciò. Il sanaporcelle, rapido come il vento, fece un taglio col suo coltello ricurvo nel fianco dell'animale: un taglio sicuro e profondo, fino alla cavità dell'addome. Il sangue sprizzò fuori, mescolandosi al fango e alla neve: ma l'uomo rosso non perse tempo: ficcò la mano fino al polso nella ferita, afferrò l'ovaia e la trasse fuori. L'ovaia delle scrofe è attaccata con un legamento all'intestino: trovata l'ovaia sinistra, si trattava di estrarre anche la destra, senza fare una seconda ferita. Il sanaporcelle non tagliò la prima ovaia, ma la fissò con il suo grosso ago, alla pelle del ventre della scrofa; e, assicuratosi così che non sfuggisse, cominciò con le due mani a estrarre l'intestino, dipanandolo come una matassa. Metri e metri di budella uscivano dalla ferita, rosate viola e grige, con le vene azzurre e i bioccoli di grasso giallo, all'inserzione dell'omento: ce n'era sempre ancora, pareva non dovesse finir più. Finché a un certo punto, attaccata all'intestino, compariva l'altra ovaia, quella di destra. Allora, senza usare il coltello, con uno strattone, l'uomo strappò via la ghiandola che era uscita allora, e quella che aveva appuntata alla pelle; e le buttò, senza voltarsi, dietro a sé, ai suoi cani. Erano quattro enormi maremmani bianchi, con le grandi code a pennacchio, i rossi occhi feroci, e i collari a punte di ferro, che li proteggono dai morsi dei lupi. I cani aspettavano il lancio, e prendevano al volo, nelle loro bocche, le ovaie sanguinanti e poi si chinavano a leccare il sangue sparso per terra. L'uomo non si interrompeva. Strappate le ghiandole, rificcò, pezzo a pezzo, spingendolo con le dita, l'intestino dentro il ventre, ricacciandolo a forza quando quello, gonfio d'aria come un pneumatico, stentava a rientrare. Quando tutto fu rimesso a posto, l'uomo rosso si cavò di bocca, di sotto i gran baffi, l'ago infilato, e con un punto, e un nodo da chirurgo, chiuse la ferita. La scrofa, liberata dai ceppi, restò un attimo come incerta, poi si rizzò in piedi, si scrollò, e strillando si mise a correre per lo spiazzo inseguita dalle donne, mentre la giovane padrona, liberata dall'ansia, cercava nella tasca, sotto la sottana, le due lire di compenso per il sanaporcelle. L'operazione non era durata in tutto che tre o quattro minuti; e già un'altra bestia era afferrata dagli aiutanti, e coricata con la schiena a terra, pronta al sacrificio. La scena di prima si ripeté: e, una dopo l'altra, per tutta la mattina, senza interruzione, le scrofe furono sanate. Il giorno era chiaro ormai, con un gran vento freddo, che portava qua e là degli stracci di nuvole. L'odore del sangue gravava nell'aria: i cani erano ormai sazi di quella carne ancor viva. La terra e la neve erano rosse; le voci delle donne si erano fatte più alte, le scrofe sanate e quelle ancora da sanare strillavano insieme, ogni volta che una era buttata in terra, rispondendosi e commiserandosi, come un coro di lamentatrici. Ma la gente era allegra, nessuna bestia pareva dovesse morire. Era ormai mezzogiorno; il meraviglioso sanaporcelle si rizzò in tutta la sua statura, e disse che avrebbe rimandato al pomeriggio quelle poche bestie che restavano da sanare. Le donne cominciarono ad andarsene, con i loro animali al guinzaglio, commentando: il sanaporcelle, seguito dai suoi cani, contando le monete del suo guadagno, si avviò alla casa della vedova per mangiare; e anch'io me ne andai dietro a lui. Per qualche giorno, in paese, non si parlò d'altro: si trepidava al pensiero che qualche complicazione potesse far morire qualcuna delle scrofe sanate: ma tutto andò bene, i cuori si rassicurarono e ogni apprensione sparì. Il sanaporcelle era partito la sera stessa per Stigliano, coperto di benedizioni, con i suoi baffi rossi da sacerdote druidico, e il coltello del sacrificio.

La notte scendeva ormai prestissimo; le serate, accanto al fuoco che strideva e sfriggeva e soffiava e fumava, erano lunghe e tristi, mentre Barone tendeva l'orecchio agli urli del vento e al richiamo lontano dei lupi. Il lavoro dei contadini si riduceva sempre più; nei giorni di cattivo tempo era inutile andare nei campi: restavano a casa, vicino ai loro fuochi stenti, o s'incontravano nelle grotte del vino, a giocare interminabili passatelle. Anche don Luigino, per fortuna, era appassionato di questo gioco popolare e oratorio: si chiudeva in cantina per dei pomeriggi interi, con l'altro maestro, l'avvocato P., l'eterno studente di Bologna, quattro o cinque altri proprietari, e magari, per dimostrare il suo spirito democratico, e per far numero, la guardia comunale, o il barbiere americano; e non ne usciva che a sera tarda, reggendosi a stento sulle gambe, e con gli occhi lustri. Si poteva ormai traversare la piazza senza pericolo di incontrarlo. Ma gli mancava, da qualche giorno, il suo miglior compagno di giochi, il suo braccio secolare, il partecipe necessario e inseparabile della sua potenza. Il brigadiere dei carabinieri, finito di racimolare, a quel che si diceva, una quarantina di migliaia di lire in quel paese ormai troppo sfruttato, aveva chiesto di essere trasferito in un'altra sede più ricca. Il nuovo brigadiere era l'opposto di quello che se n'era andato. Era giovanissimo, un biondino con gli occhi azzurri, di Bari, e sembrava un ragazzo. Usciva allora dalla scuola: questo era il suo primo servizio; ci metteva dell'onesto zelo, convinto e desideroso di servire la Giustizia. Era pieno di idealismo e di disinteresse, si sentiva davvero il protettore della vedova e dell'orfano, e non tardò ad accorgersi di essere capitato in una miserabile tana di lupi e di volpi. Quando, in pochi giorni, ebbe finito di conoscere tutti i signori del paese, e si rese conto delle loro liti e passioni, e del loro odio per i contadini, e della miseria, e capì che egli avrebbe potuto far ben poco contro quella rete di ragno dell'abitudine, dell'impunità e della rassegnazione, il suo cuore giovanile si riempì di amarezza. M'incontrava nella piazza, e mi guardava sconsolato. - Dio mio, dottore! che paese! - mi diceva. - Di persone per bene ce ne sono due sole: lei ed io -. Lo confortavo come potevo: - Siamo più di due, brigadiere. Del resto, due giusti soli sarebbero bastati a salvare Sodoma e Gomorra dall'ira del cielo. Ma qui ci sono molti giusti tra i contadini, li conoscerà a poco a poco. E poi, c'è don Cosimino. Don Cosimino stava dietro il suo sportello, alla Posta, tutto avvolto in una tunica di tela nera che gli copriva la gobba, e ascoltava i discorsi di tutti, guardava con i suoi occhi arguti e melanconici, e sorrideva col suo sorriso pieno di amara bontà. Aveva preso l'abitudine, di sua iniziativa, di consegnare di nascosto, a me e agli altri confinati, la posta in arrivo, prima che passasse censura. - C'è una lettera, dottore, - mi sussurrava dallo sportello; - venga più tardi, quando non ci sia nessuno -. E mi passava la lettera, nascosta, per prudenza, sotto un giornale. Egli avrebbe dovuto prendere tutta la nostra posta in arrivo e spedirla a Matera, alla censura: di qui poi, dopo una settimana, sarebbe tornata per esserci distribuita. Io leggevo subito, grazie a don Cosimino, le cartoline, e gliele restituivo senz'altro, perché le mandasse alla questura: le lettere le portavo a casa, le aprivo con cura, e, se l'operazione era riuscita senza che la busta si rompesse o ne restassero tracce, le riportavo a don Cosimino l'indomani: così non si correva rischi che la censura si stupisse di restar senza lavoro. Nessuno aveva pregato quell'angelo gobbo di questo favore: l'aveva fatto spontaneamente, per naturale bontà. Le prime volte, mi spiaceva quasi di prendere le lettere, per timore di comprometterlo: era lui a mettermele in mano, e mi forzava ad accettarle, con una sorta di sorridente autorità. Le lettere in partenza dovevano passare anch'esse da Matera per essere censurate: anche qui c'era la noia dell'enorme ritardo; e don Cosimino non poteva, con la massima buona volontà, essere di alcun aiuto. In quei giorni avvenne nella censura un cambiamento. La questura, che forse aveva troppo lavoro, incaricò del controllo sulla posta in partenza, il podestà: il che accrebbe l'autorità e la gloria di don Luigino. Anziché consegnare le lettere chiuse a don Cosimino perché le mandasse a Matera, si dovevano ora portare, aperte, al podestà, che le leggeva e s'incaricava di spedirle direttamente a destinazione. Questa novità avrebbe dovuto portare una maggior rapidità nella posta, e forse era fatta proprio a questo scopo; ma il bene che ne derivava era minore della noia di essere controllati sul luogo, di dover far sapere tutti i fatti propri e intimi a un uomo curioso e infantile, e che si incontrava per strada dieci volte al giorno. Don Luigino avrebbe potuto esercitare il suo ufficio pro forma: dare un'occhiata alle lettere, e sbarazzarsene al più presto; ma non c'era da sperarlo. La censura postale era per lui un nuovo onore, un nuovo e insperato mezzo di soddisfare il suo latente sadismo e la sua fantasia da romanzo giallo. Era in quei giorni arrivato un nuovo confinato: un grosso mercante d'olio di Genova, mandato qui non per ragioni politiche, ma piuttosto per gelosia di mestiere o per concorrenza in affari. Era un vecchio, abituato a una vita comoda, seriamente malato di cuore, un brav'uomo, insieme pratico e sentimentale, che i disagi e la lontananza dalla famiglia rendevano, in quei primi tempi, veramente angosciato. Egli aveva dovuto lasciare sospesi, da un momento all'altro, tutti i suoi affari, che erano molti e complicati, e doveva perciò dare un'infinità di disposizioni. Scrisse dunque delle lettere, col solito frasario e le solite abbreviazioni convenzionali dei commercianti: «A preg. / vs. / del 7 corr. / ecc.» e un'infinità di cifre, di date, di numeri di assegni e di scadenze. Erano le più innocenti lettere del mondo; ma don Luigino non conosceva il gergo degli affari, ed era tutto caldo della sua nuova autorità. Egli immaginò subito che quelle frasi tronche e quei numeri fossero un cifrario segreto: pensò di essere sulle fila di chissà quale importantissimo complotto. Non spedì le lettere, e per molti giorni cercò invano di decifrarle, per scoprirne gli inesistenti significati reconditi, e intanto fece sorvegliare il buon mercante d'olio; mandò le lettere alla questura di Matera, e infine non poté più trattenersi, e fece al vecchio genovese una scenataccia violenta, piena di oscure minacce. Soltanto dopo molti giorni si calmò, ma non credo si sia mai del tutto persuaso che i suoi sospetti erano infondati. Per me, la cosa era molto diversa. Gli consegnavo le mie lettere; don Luigino le portava a casa, e le leggeva con attenzione. Nei giorni seguenti, ogni volta che mi incontrava, lodava le mie qualità letterarie. - Come scrive bene, don Carlo! È un vero scrittore. Mi leggo le sue lettere a poco a poco è una delizia. Quella di tre giorni fa, me la sto copiando; è un capolavoro -. Don Luigino copiava tutte le mie lettere, non so se davvero per ammirazione stilistica o per zelo poliziesco, o per tutte e due le cose insieme: questo lavoro richiedeva molto tempo, e la mia corrispondenza non partiva mai.


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Gagliano mi riprese e richiuse, come l'acqua verde di un pantano raccoglie la rana, indugiatasi sulla proda ad asciugarsi al sole. Mi pareva ancora piú lontano e solitario di prima; nessun suono mi giungeva dal mondo di fuori: qui non passavano attori né mercanti. La strega mi aspettava sull'uscio di casa, come al solito, con il suo gran corpo nero senza età. Don Luigino mi aspettava sulla piazza, contento di riavermi in suo potere. I malati mi aspettavano nelle loro casupole, più numerosi per quella settimana di abbandono. E ricominciò la serie dei giorni uguali, come prima.

Il tempo si fece freddo. Dal fondo dei burroni il vento saliva con i suoi vortici gelidi, soffiava continuo, come venisse da tutte le parti, penetrava nelle ossa, e si perdeva, ruggendo, nelle gole dei camini. La notte, solo nella mia casa, lo ascoltavo: era un grido senza interruzione, un urlo, un lamento, come se tutti gli spiriti della terra si lagnassero insieme della loro sconsolata prigionia. Vennero le piogge, lunghe, abbondanti, senza fine: il paese si coprì di nebbie biancastre che stagnavano nelle valli: le cime dei colli sorgevano da quello sfatto biancore, come isole su un informe mare di noia. Le argille cominciarono a sciogliersi, a colare lente per i pendii, scivolando in basso, grigi torrenti di terra in un mondo liquefatto. Nella mia stanza, il suono metallico delle gocce che cadevano sulla terrazza risuonava come su una pelle tesa, e si univa ai ringhi e ai sibili del vento: ero come sotto una tenda in un deserto. Dalle finestre entrava una luce fosca e incerta: le colline parevano addormentarsi dolorosamente in quello squallore. Soltanto Barone correva lieto all'aperto, nell'acqua, come un folletto, annusando gli odori della terra bagnata, e rientrava saltellante, scuotendosi la pelliccia inzuppata. La violenza del vento contrario ricacciava il fumo del camino nelle camere: il fumo acre e odoroso dei ceppi di ginepro e di brugo, delle some che una contadina mi portava, sul suo asino, dal bosco. The violence of the contrary wind drove the smoke from the fireplace back into the rooms: the acrid and fragrant smoke of the stumps of juniper and heather, of the loads that a peasant woman brought me, on her donkey, from the woods. Dovevo gelare, o lagrimare. Con gli occhi che mi bruciavano, lasciavo passare le ore, in quella acquosa atmosfera di dissoluzione. Poi venne la neve, le mani delle donne si arrossarono per il gelo, sopra i veli bianchi apparvero le grandi mantiglie di lana nera; e un'immobilità più ferma, un silenzio più fitto del consueto parve addensarsi sulle distese solitarie dei monti. Una sera che un vento selvaggio aveva portato qualche squarcio di sereno, udii squillare la tromba del banditore, e rullare il tamburo; la strana voce del becchino ripeteva, davanti a tutte le case, con la sua unica nota alta e strascicata, il suo appello. - Donne, è arrivato il sanaporcelle! Domattina, alle sette, tutte al Timbone della Fontana con le vostre porcelle. Donne, è arrivato il sanaporcelle! - La mattina il tempo era incerto, ma fra le nuvole basse appariva qualche lembo di cielo. La neve era quasi tutta sciolta: restava, a chiazze, qua e là, nei luoghi dove il vento l'aveva accumulata. Uscii presto di casa, e mi avviai.

Il Timbone della Fontana era un largo spiazzo, quasi piano, fra i monticelli di argilla, nei pressi dell'antica sorgente, un po' fuori del paese, a destra della chiesa. Quando ci arrivai, nella luce ancora grigia lo vidi già pieno di folla. Quasi tutte le donne, giovani e vecchie, erano là; e molte tenevano al guinzaglio, come un cane, la loro scrofa: le altre le accompagnavano, e venivano ad assistere alla sanatura. Veli bianchi e scialli neri ondeggiavano al vento: un gran sussurrio, un frastuono di voci, di grida, di risa, di grugniti, si spargeva nell'aria tagliente. Le donne erano tutte eccitate, rosse in viso, piene di apprensione e di appassionata attesa. I ragazzi correvano, i cani abbaiavano, tutto era movimento. In mezzo al Timbone stava ritto un uomo alto quasi due metri, e robusto, col viso acceso, i capelli rossi, gli occhi azzurri e dei gran baffi spioventi, che lo facevano assomigliare a un barbaro antico, a un Vercingetorige, capitato per caso in questi paesi di uomini neri. Era il sanaporcelle. Sanare le porcelle significa castrarle, quelle che non si tengono a far razza, perché ingrassino meglio, e abbiano carni più delicate. La cosa, per i maiali, non è difficile, e i contadini la fanno da soli, quando le bestie sono giovani. Ma alle femmine bisogna togliere le ovaie, e questo richiede una vera operazione di alta chirurgia. Questo rito è dunque eseguito dai sanaporcelle, mezzi sacerdoti e mezzi chirurghi. Ce ne sono pochissimi: è un'arte rara, che si tramanda di padre in figlio. Quello che io vidi, era un sanaporcelle famoso, figlio e nipote di sanaporcelle; e passava di paese in paese, due volte all'anno, a eseguire la sua opera. Aveva fama d'essere abilissimo: era ben raro che una bestia gli morisse dopo l'operazione. Ma le donne trepidavano ugualmente, per il rischio e l'amore per l'animale familiare. L'uomo rosso si ergeva possente in mezzo allo spiazzo, e affilava il coltello. Teneva in bocca, per aver libere le mani, un grosso ago da materassaio; uno spago, infilato nella cruna, gli pendeva sul petto; e aspettava la prossima vittima. Le donne esitavano attorno a lui: ciascuna spingeva la vicina o l'amica a portare per prima la sua bestia, con grandi esclamazioni e deprecazioni. Anche le scrofe pareva sapessero la sorte che le aspettava, e puntavano i piedi, o tiravano sulle corde per fuggire, e strillavano come ragazze impaurite, con quelle loro voci così umane. Una giovane donna si fece innanzi con la sua bestia, e due contadini che facevano da aiutanti afferrarono subito la maialina rosea, che si dibatteva e gridava di spavento. Tenendola ben ferma per le zampe, che legarono a dei paletti conficcati in terra, la sdraiarono a pancia all'aria. La scrofa urlava, la giovane si fece il segno della croce, e invocò la Madonna di Viggiano, fra il mormorio di partecipe consenso di tutte le altre donne; e l'operazione cominciò. Il sanaporcelle, rapido come il vento, fece un taglio col suo coltello ricurvo nel fianco dell'animale: un taglio sicuro e profondo, fino alla cavità dell'addome. Il sangue sprizzò fuori, mescolandosi al fango e alla neve: ma l'uomo rosso non perse tempo: ficcò la mano fino al polso nella ferita, afferrò l'ovaia e la trasse fuori. L'ovaia delle scrofe è attaccata con un legamento all'intestino: trovata l'ovaia sinistra, si trattava di estrarre anche la destra, senza fare una seconda ferita. Il sanaporcelle non tagliò la prima ovaia, ma la fissò con il suo grosso ago, alla pelle del ventre della scrofa; e, assicuratosi così che non sfuggisse, cominciò con le due mani a estrarre l'intestino, dipanandolo come una matassa. Metri e metri di budella uscivano dalla ferita, rosate viola e grige, con le vene azzurre e i bioccoli di grasso giallo, all'inserzione dell'omento: ce n'era sempre ancora, pareva non dovesse finir più. Meters and meters of intestines came out of the wound, pink, purple and gray, with blue veins and yellow fat curls, at the insertion of the omentum: there was always more, it seemed it would never end. Finché a un certo punto, attaccata all'intestino, compariva l'altra ovaia, quella di destra. Allora, senza usare il coltello, con uno strattone, l'uomo strappò via la ghiandola che era uscita allora, e quella che aveva appuntata alla pelle; e le buttò, senza voltarsi, dietro a sé, ai suoi cani. Erano quattro enormi maremmani bianchi, con le grandi code a pennacchio, i rossi occhi feroci, e i collari a punte di ferro, che li proteggono dai morsi dei lupi. I cani aspettavano il lancio, e prendevano al volo, nelle loro bocche, le ovaie sanguinanti e poi si chinavano a leccare il sangue sparso per terra. L'uomo non si interrompeva. Strappate le ghiandole, rificcò, pezzo a pezzo, spingendolo con le dita, l'intestino dentro il ventre, ricacciandolo a forza quando quello, gonfio d'aria come un pneumatico, stentava a rientrare. Quando tutto fu rimesso a posto, l'uomo rosso si cavò di bocca, di sotto i gran baffi, l'ago infilato, e con un punto, e un nodo da chirurgo, chiuse la ferita. La scrofa, liberata dai ceppi, restò un attimo come incerta, poi si rizzò in piedi, si scrollò, e strillando si mise a correre per lo spiazzo inseguita dalle donne, mentre la giovane padrona, liberata dall'ansia, cercava nella tasca, sotto la sottana, le due lire di compenso per il sanaporcelle. L'operazione non era durata in tutto che tre o quattro minuti; e già un'altra bestia era afferrata dagli aiutanti, e coricata con la schiena a terra, pronta al sacrificio. La scena di prima si ripeté: e, una dopo l'altra, per tutta la mattina, senza interruzione, le scrofe furono sanate. Il giorno era chiaro ormai, con un gran vento freddo, che portava qua e là degli stracci di nuvole. L'odore del sangue gravava nell'aria: i cani erano ormai sazi di quella carne ancor viva. La terra e la neve erano rosse; le voci delle donne si erano fatte più alte, le scrofe sanate e quelle ancora da sanare strillavano insieme, ogni volta che una era buttata in terra, rispondendosi e commiserandosi, come un coro di lamentatrici. Ma la gente era allegra, nessuna bestia pareva dovesse morire. Era ormai mezzogiorno; il meraviglioso sanaporcelle si rizzò in tutta la sua statura, e disse che avrebbe rimandato al pomeriggio quelle poche bestie che restavano da sanare. Le donne cominciarono ad andarsene, con i loro animali al guinzaglio, commentando: il sanaporcelle, seguito dai suoi cani, contando le monete del suo guadagno, si avviò alla casa della vedova per mangiare; e anch'io me ne andai dietro a lui. Per qualche giorno, in paese, non si parlò d'altro: si trepidava al pensiero che qualche complicazione potesse far morire qualcuna delle scrofe sanate: ma tutto andò bene, i cuori si rassicurarono e ogni apprensione sparì. Il sanaporcelle era partito la sera stessa per Stigliano, coperto di benedizioni, con i suoi baffi rossi da sacerdote druidico, e il coltello del sacrificio.

La notte scendeva ormai prestissimo; le serate, accanto al fuoco che strideva e sfriggeva e soffiava e fumava, erano lunghe e tristi, mentre Barone tendeva l'orecchio agli urli del vento e al richiamo lontano dei lupi. Il lavoro dei contadini si riduceva sempre più; nei giorni di cattivo tempo era inutile andare nei campi: restavano a casa, vicino ai loro fuochi stenti, o s'incontravano nelle grotte del vino, a giocare interminabili passatelle. Anche don Luigino, per fortuna, era appassionato di questo gioco popolare e oratorio: si chiudeva in cantina per dei pomeriggi interi, con l'altro maestro, l'avvocato P., l'eterno studente di Bologna, quattro o cinque altri proprietari, e magari, per dimostrare il suo spirito democratico, e per far numero, la guardia comunale, o il barbiere americano; e non ne usciva che a sera tarda, reggendosi a stento sulle gambe, e con gli occhi lustri. Si poteva ormai traversare la piazza senza pericolo di incontrarlo. Ma gli mancava, da qualche giorno, il suo miglior compagno di giochi, il suo braccio secolare, il partecipe necessario e inseparabile della sua potenza. Il brigadiere dei carabinieri, finito di racimolare, a quel che si diceva, una quarantina di migliaia di lire in quel paese ormai troppo sfruttato, aveva chiesto di essere trasferito in un'altra sede più ricca. Il nuovo brigadiere era l'opposto di quello che se n'era andato. Era giovanissimo, un biondino con gli occhi azzurri, di Bari, e sembrava un ragazzo. Usciva allora dalla scuola: questo era il suo primo servizio; ci metteva dell'onesto zelo, convinto e desideroso di servire la Giustizia. Era pieno di idealismo e di disinteresse, si sentiva davvero il protettore della vedova e dell'orfano, e non tardò ad accorgersi di essere capitato in una miserabile tana di lupi e di volpi. Quando, in pochi giorni, ebbe finito di conoscere tutti i signori del paese, e si rese conto delle loro liti e passioni, e del loro odio per i contadini, e della miseria, e capì che egli avrebbe potuto far ben poco contro quella rete di ragno dell'abitudine, dell'impunità e della rassegnazione, il suo cuore giovanile si riempì di amarezza. M'incontrava nella piazza, e mi guardava sconsolato. - Dio mio, dottore! che paese! - mi diceva. - Di persone per bene ce ne sono due sole: lei ed io -. Lo confortavo come potevo: - Siamo più di due, brigadiere. Del resto, due giusti soli sarebbero bastati a salvare Sodoma e Gomorra dall'ira del cielo. Ma qui ci sono molti giusti tra i contadini, li conoscerà a poco a poco. E poi, c'è don Cosimino. Don Cosimino stava dietro il suo sportello, alla Posta, tutto avvolto in una tunica di tela nera che gli copriva la gobba, e ascoltava i discorsi di tutti, guardava con i suoi occhi arguti e melanconici, e sorrideva col suo sorriso pieno di amara bontà. Aveva preso l'abitudine, di sua iniziativa, di consegnare di nascosto, a me e agli altri confinati, la posta in arrivo, prima che passasse censura. - C'è una lettera, dottore, - mi sussurrava dallo sportello; - venga più tardi, quando non ci sia nessuno -. E mi passava la lettera, nascosta, per prudenza, sotto un giornale. Egli avrebbe dovuto prendere tutta la nostra posta in arrivo e spedirla a Matera, alla censura: di qui poi, dopo una settimana, sarebbe tornata per esserci distribuita. Io leggevo subito, grazie a don Cosimino, le cartoline, e gliele restituivo senz'altro, perché le mandasse alla questura: le lettere le portavo a casa, le aprivo con cura, e, se l'operazione era riuscita senza che la busta si rompesse o ne restassero tracce, le riportavo a don Cosimino l'indomani: così non si correva rischi che la censura si stupisse di restar senza lavoro. Nessuno aveva pregato quell'angelo gobbo di questo favore: l'aveva fatto spontaneamente, per naturale bontà. Le prime volte, mi spiaceva quasi di prendere le lettere, per timore di comprometterlo: era lui a mettermele in mano, e mi forzava ad accettarle, con una sorta di sorridente autorità. Le lettere in partenza dovevano passare anch'esse da Matera per essere censurate: anche qui c'era la noia dell'enorme ritardo; e don Cosimino non poteva, con la massima buona volontà, essere di alcun aiuto. In quei giorni avvenne nella censura un cambiamento. La questura, che forse aveva troppo lavoro, incaricò del controllo sulla posta in partenza, il podestà: il che accrebbe l'autorità e la gloria di don Luigino. Anziché consegnare le lettere chiuse a don Cosimino perché le mandasse a Matera, si dovevano ora portare, aperte, al podestà, che le leggeva e s'incaricava di spedirle direttamente a destinazione. Questa novità avrebbe dovuto portare una maggior rapidità nella posta, e forse era fatta proprio a questo scopo; ma il bene che ne derivava era minore della noia di essere controllati sul luogo, di dover far sapere tutti i fatti propri e intimi a un uomo curioso e infantile, e che si incontrava per strada dieci volte al giorno. Don Luigino avrebbe potuto esercitare il suo ufficio pro forma: dare un'occhiata alle lettere, e sbarazzarsene al più presto; ma non c'era da sperarlo. La censura postale era per lui un nuovo onore, un nuovo e insperato mezzo di soddisfare il suo latente sadismo e la sua fantasia da romanzo giallo. Era in quei giorni arrivato un nuovo confinato: un grosso mercante d'olio di Genova, mandato qui non per ragioni politiche, ma piuttosto per gelosia di mestiere o per concorrenza in affari. Era un vecchio, abituato a una vita comoda, seriamente malato di cuore, un brav'uomo, insieme pratico e sentimentale, che i disagi e la lontananza dalla famiglia rendevano, in quei primi tempi, veramente angosciato. Egli aveva dovuto lasciare sospesi, da un momento all'altro, tutti i suoi affari, che erano molti e complicati, e doveva perciò dare un'infinità di disposizioni. Scrisse dunque delle lettere, col solito frasario e le solite abbreviazioni convenzionali dei commercianti: «A preg. / vs. / del 7 corr. / ecc.» e un'infinità di cifre, di date, di numeri di assegni e di scadenze. Erano le più innocenti lettere del mondo; ma don Luigino non conosceva il gergo degli affari, ed era tutto caldo della sua nuova autorità. Egli immaginò subito che quelle frasi tronche e quei numeri fossero un cifrario segreto: pensò di essere sulle fila di chissà quale importantissimo complotto. Non spedì le lettere, e per molti giorni cercò invano di decifrarle, per scoprirne gli inesistenti significati reconditi, e intanto fece sorvegliare il buon mercante d'olio; mandò le lettere alla questura di Matera, e infine non poté più trattenersi, e fece al vecchio genovese una scenataccia violenta, piena di oscure minacce. Soltanto dopo molti giorni si calmò, ma non credo si sia mai del tutto persuaso che i suoi sospetti erano infondati. Per me, la cosa era molto diversa. Gli consegnavo le mie lettere; don Luigino le portava a casa, e le leggeva con attenzione. Nei giorni seguenti, ogni volta che mi incontrava, lodava le mie qualità letterarie. - Come scrive bene, don Carlo! È un vero scrittore. Mi leggo le sue lettere a poco a poco è una delizia. Quella di tre giorni fa, me la sto copiando; è un capolavoro -. Don Luigino copiava tutte le mie lettere, non so se davvero per ammirazione stilistica o per zelo poliziesco, o per tutte e due le cose insieme: questo lavoro richiedeva molto tempo, e la mia corrispondenza non partiva mai.