4. SAECULUM AUREUM (5)
La morte è penosa, ma anche la vita può esserlo. Ogni cosa aveva un volto deforme. La fondazione di Antinopoli non era che un gioco derisorio: una nuova città, un asilo offerto alle frodi dei mercanti, alle crudeli esazioni dei funzionari, alla prostituzione, al disordine, ai vili che piangono i loro morti prima di dimenticarli. L'apoteosi era vana: quegli onori pubblici non sarebbero serviti ad altro che a fare del fanciullo un pretesto a viltà o a ironie, un oggetto postumo di cupidigia o di scandalo, una di quelle leggende un po' marce che ingombrano i recessi della storia. Il mio lutto non era che una forma di incontinenza, una dissolutezza grossolana: restavo colui che profitta, colui che gode, colui che prova tutto: il mio prediletto mi consegnava la sua morte. Un uomo deluso piangeva su se stesso. Le idee stridevano, le parole giravano a vuoto; le voci avevano il ronzio delle cavallette o delle mosche su un mucchio di rifiuti; le nostre barche dalle vele turgide come petti di colombe trasportavano intrighi e menzogne; la stupidità faceva mostra di sè sulle fronti umane. Dappertutto trapelava la morte, sotto il suo aspetto di decrepitezza o di putrefazione: il frutto bacato, l'orlo della tenda impercettibilmente liso, una carogna sulla sponda, i foruncoli d'un viso, il segno delle vergate sulla schiena dei marinai. Le mie mani mi sembravano sempre un po' sporche. All'ora del bagno, quando tendevo agli schiavi le gambe da depilare, guardavo con disgusto questo corpo solido, questa macchina quasi indistruttibile, che digeriva, camminava, riusciva a dormire, e, un giorno o l'altro, sarebbe tornata ai gesti dell'amore. Non tolleravo più che la presenza dei pochi servi che si ricordavano del morto: a modo loro, anch'essi lo avevano amato. Il mio lutto trovava un'eco nel dolore un po' vano d'un massaggiatore, o del vecchio negro addetto alle lampade. Ma il dispiacere non gli impediva di ridere sommessamente tra loro, mentre prendevano il fresco sulla riva. Una mattina, mentr'ero appoggiato al parapetto, scorsi, nel quadrato delle cucine, uno schiavo che ripuliva uno di quei pollastrelli che l'Egitto fa pullulare a migliaia nei forni poco puliti; lo schiavo, a un certo punto, prese a piene mani il mucchio vischioso delle interiora, e lo gettò in acqua. Feci appena a tempo a voltar la testa per vomitare. Allo scalo di File, durante una festa offertaci dal governatore, un bimbo di tre anni, nero come il bronzo, figlio d'un numida, s'infilò nelle gallerie del primo piano per guardare le danze. Cadde di sotto. Fecero del loro meglio per nascondermi l'incidente; il padre tratteneva i singhiozzi per non disturbare gli ospiti del suo padrone; lo si fece uscire con il cadavere dalla porta di cucina; malgrado tutto, intravidi quelle spalle che si alzavano e si abbassavano convulse come sotto una sferza. Avevo la sensazione di assumere su di me quel dolore paterno come quello di Ercole, quello di Alessandro, quello di Platone che piangevano i loro amici scomparsi. Feci portare qualche moneta d'oro a quel misero; che cosa si può fare di più? Due giorni dopo, lo rividi; si spidocchiava beatamente, sdraiato sulla soglia.
Affluirono i messaggi di cordoglio. Pancrate mi inviò il suo poema, finalmente terminato; non era che un mediocre centone di esametri omerici, ma, per me, il nome che vi tornava quasi ad ogni riga me lo rendeva più commovente di mille capolavori.
Noumenio mi fece recapitare una Consolazione in piena regola: trascorsi una notte a leggerla, non vi mancava un solo luogo comune. Quelle esili barriere elevate dall'uomo contro la morte si sviluppavano su due linee: la prima consisteva nel presentarcela come un male inevitabile; nel ricordarci che né la bellezza, né la giovinezza, né l'amore sfuggono alla putrefazione; nel provarci infine che la vita e la sua infinita teoria di sciagure sono ancor più orrende che la morte, e val meglio perire che invecchiare: verità propinateci per indurci alla rassegnazione; ma esse giustificano soprattutto la disperazione. La seconda linea di argomenti è in contraddizione con la prima, ma i nostri filosofi non vanno molto per il sottile: non si tratta più di rassegnarsi alla morte, ma di negarla. Solo l'anima conta; e veniva posta con arroganza, come un dato di fatto, l'immortalità di questa entità vaga, che non abbiamo mai vista operare senza il suo corpo, prima ancora di darsi la pena di provarcene l'esistenza. Non ne ero affatto certo: svaniti il sorriso, lo sguardo, la voce, le realtà imponderabili, perché non l'anima? Essa non mi pareva necessariamente più immateriale del calore del corpo. Ci si discostava da quella spoglia entro la quale l'anima non era più: eppure, era la sola cosa che mi restasse, l'unica prova che avevo che quel vivente fosse esistito. L'immortalità della specie doveva mitigare il dolore di ogni morte umana: ma ben poco m'importava che generazioni di Bitini si succedessero fino alla fine dei tempi, in riva al Sangario. Si parlava di gloria, una bella parola che ci gonfia il cuore, ma si faceva di tutto per stabilire tra questa e l'immortalità una confusione ingannevole, come se la traccia d'un essere fosse la stessa cosa della sua presenza. Mi si mostrava il dio radioso, al posto del cadavere; quel dio l'avevo fatto io; io ci credevo a modo mio, ma il destino postumo più luminoso, tra le sfere stellari, non compensava quella breve esistenza; quel dio non sostituiva il vivo che avevo perduto. M'indignava quella smania dell'uomo di sdegnare i fatti a vantaggio delle ipotesi, di non riconoscere le sue fantasie per quel che sono. Ben diversamente vedevo i miei obblighi di sopravvissuto. Quella morte sarebbe stata vana se mi mancava il coraggio di guardarla in faccia, di attaccarmi a quelle realtà - il freddo, il silenzio, il sangue coagulato, le membra inerti, - che l'uomo s'affretta a rivestire di terra e d'ipocrisia; preferivo andare a tentoni nel buio senza l'aiuto di deboli lampade. Sentivo, intorno a me, che si cominciava a deplorare un dolore così lungo e così intenso. Del resto, scandalizzava più la sua veemenza che non la sua causa. Se mi fossi lasciato andare agli stessi lamenti per la morte d'un fratello o d'un figlio, mi si sarebbe rimproverato egualmente di piangere come una donna. La memoria della maggior parte degli uomini è un cimitero abbandonato, dove giacciono senza onori i morti che essi hanno cessato di amare. Ogni dolore prolungato è un insulto al loro oblio.
Le barche ci ricondussero in quel punto del fiume dove cominciava a sorgere Antinopoli. Erano meno numerose che all'andata: Lucio, che avevo rivisto poche volte, era ripartito per Roma dove la sua giovane sposa aveva dato alla luce un bambino. La sua partenza mi liberava da parecchi intriganti e curiosi. I lavori iniziati alteravano l'aspetto delle coste; si profilava la pianta degli edifici futuri fra i mucchi di terreno sterrato; ma non riconobbi più il punto esatto del sacrificio. Gli imbalsamatori consegnarono la loro opera: la sottile bara di cedro fu deposta dentro un sepolcro di porfido, nella sala più segreta del tempio. Mi avvicinai timidamente al morto. Sembrava mascherato: la rigida acconciatura egizia gli copriva i capelli. Le gambe fasciate dalle bende non erano più che un lungo involucro bianco, ma il suo profilo di falco giovinetto non era mutato; le ciglia gettavano sulle gote dipinte un'ombra che riconoscevo. Prima di portare a termine la fasciatura delle mani, tennero a farmi ammirare le unghie d'oro. Ebbero inizio le litanie; per bocca dei sacerdoti, il morto dichiarava d'essere stato sempre veritiero, sempre casto, sempre caritatevole e giusto, e vantava virtù che, se le avesse praticate davvero, lo avrebbero messo per sempre al bando dei vivi. L'odore disfatto dell'incenso riempiva la sala; al di là d'una voluta, cercavo di dare a me stesso l'illusione del suo sorriso; e il bel viso immobile pareva tremare. Ho assistito ai riti magici mediante i quali i sacerdoti costringono l'anima del defunto a incarnare una particella di sé nelle statue che ne conserveranno la memoria; e ad altre ingiunzioni, ancor più singolari. Quando tutto fu finito, si applicò la maschera d'oro modellata sulla cera funebre: aderiva strettamente alle sue fattezze. Ben presto, quella bella superficie incorruttibile avrebbe riassorbito in sé ogni possibilità di luce e di calore; e sarebbe giaciuta per sempre in quella cassa ermeticamente chiusa, simbolo inerte d'immortalità. Fu posto un fascio d'acace sul petto. Una dozzina d'uomini sollevarono il pesante coperchio. Ma esitavo ancora sulla località del sepolcro. Ricordavo che, mentre avevo ordinato dappertutto feste e apoteosi, giochi funebri, monete di nuovo conio, statue sulle pubbliche piazze, avevo fatto un'eccezione per Roma: avevo temuto di aggravare ulteriormente l'animosità che circonda quasi tutti i favoriti stranieri. Mi dissi che io non sarei stato sempre a Roma, per proteggere quella sepoltura. Anche il monumento previsto, alle porte di Antinopoli, sembrava troppo esposto e poco sicuro. Seguii il consiglio dei sacerdoti. Essi m'indicarono, sul fianco d'una montagna della catena arabica, a tre leghe circa dalla città, una di quelle caverne che un tempo i re d'Egitto destinavano a servir loro da sepolcri. Un carro tirato da buoi trascinò il sarcofago su quella salita. Con le corde, lo si fece scivolare giù per quei cunicoli da miniera; lo si addossò a una parete di roccia. Il fanciullo di Claudiopoli scendeva nella tomba come un Faraone, come un Tolomeo. Lo lasciammo solo. Entrava in quella durata senz'aria, senza luce, senza stagioni e senza fine, al cui confronto ogni vita appare breve; aveva raggiunto quella stabilità, quella calma forse. I secoli ancora celati nel seno opaco del tempo sarebbero passati a migliaia su quella tomba, senza rendergli l'esistenza, è vero, ma anche senza contribuire a quella morte, senza poter impedire che egli sia esistito. Ermogene mi afferrò per il braccio per aiutarmi a risalire all'aperto; fu quasi una gioia ritrovarsi alla superficie, rivedere il freddo cielo turchino tra due costoni di roccia fulva. Il resto del viaggio fu breve. Ad Alessandria, l'imperatrice s'imbarcò per Roma.