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La coscienza di Zeno - Italo Svevo (Zeno's Conscience), 4.8 La Moglie e l'Amante

4.8 La Moglie e l'Amante

Non ricordo neppure bene il pretesto che addussi per allontanarmi subito. Affannosamente mi misi a vestirmi. Parlai di una chiave che avevo dimenticato di consegnare a mia moglie per cui essa, se le fosse occorso, non avrebbe potuto entrare in casa. Feci vedere la chiave che non era altra che quella che io avevo sempre in tasca, ma che fu presentata come la prova tangibile della verità delle mie asserzioni. Carla non tentò neppure di fermarmi; si vestì e m'accompagnò fin giù per farmi luce. Nell'oscurità delle scale, mi parve ch'essa mi squadrasse con un'occhiata inquisitrice che mi turbò: cominciava essa a intendermi? Non era tanto facile, visto ch'io sapevo simulare troppo bene. Per ringraziarla perché mi lasciava andare, continuavo di tempo in tempo ad applicare la mie labbra sulle sue guancie e simulavo di essere pervaso tuttavia dallo stesso entusiasmo che m'aveva condotto da lei. Non ebbi poi ad avere alcun dubbio della buona riuscita della mia simulazione. Poco prima, con un'ispirazione d'amore, Carla m'aveva detto che il brutto nome di Zeno, che m'era stato appioppato dai miei genitori, non era certamente quello che spettava alla mia persona. Essa avrebbe voluto ch'io mi chiamassi Dario e lì, nell'oscurità, si congedò da me appellandomi così. Poi s'accorse che il tempo era minaccioso e m'offerse di andar a prendere per me un ombrello. Ma io assolutamente non potevo sopportarla più oltre, e corsi via tenendo sempre quella chiave in mano nella cui autenticità cominciavo a credere anch'io.

L'oscurità profonda della notte veniva interrotta di tratto in tratto da bagliori abbacinanti. Il mugolio del tuono pareva lontanissimo. L'aria era ancora tranquilla e soffocante quanto nella stessa stanzetta di Carla. Anche i radi goccioloni che cadevano erano tiepidi. In alto, evidente, c'era la minaccia ed io mi misi a correre. Ebbi la ventura di trovare in Corsia Stadion un portone ancora aperto e illuminato in cui mi rifugiai proprio a tempo! Subito dopo il nembo s'abbatté sulla via. Lo scroscio di pioggia fu interrotto da una ventata furiosa che parve portasse con sé anche il tuono tutt'ad un tratto vicinissimo. Trasalii! Sarebbe stato un vero compromettermi se fossi stato ammazzato dal fulmine, a quell'ora, in Corsia Stadion! Meno male ch'ero noto anche a mia moglie come un uomo dai gusti bizzarri che poteva correre fin là di notte e allora c'è sempre la scusa a tutto.

Dovetti rimanere in quel portone per più di un'ora. Pareva sempre che il tempo volesse mitigarsi, ma subito riprendeva il suo furore sempre in altra forma. Ora grandinava.

Era venuto a tenermi compagnia il portinaio della casa e dovetti regalargli qualche soldo perché ritardasse la chiusura del portone. Poi entrò nel portone un signore vestito di bianco e grondante d'acqua. Era vecchio, magro e secco. Non lo rividi mai più, ma non so dimenticarlo per la luce del suo occhio nero e per l'energia ch'emanava da tutta la sua personcina. Bestemmiava per essere stato infradiciato a quel modo.

A me è sempre piaciuto d'intrattenermi con la gente che non conosco. Con loro mi sento sano e sicuro. È addirittura un riposo. Devo stare attento di non zoppicare, e sono salvo.

Quando finalmente il tempo si mitigò, io mi recai subito non a casa mia, ma da mio suocero. Mi pareva in quel momento di dover correre subito all'appello e vantarmi di esservi.

Mio suocero s'era addormentato e Augusta, ch'era aiutata da una suora, poté venire da me. Essa disse che avevo fatto bene di venire e si gettò piangente fra le mie braccia. Aveva visto soffrire suo padre orrendamente.

S'accorse ch'ero tutto bagnato. Mi fece adagiare in una poltrona e mi coperse con delle coperte. Poi per qualche tempo poté restarmi accanto. Io ero molto stanco e anche nel breve tempo in cui essa poté restare con me, lottai col sonno. Mi sentivo molto innocente perché intanto non l'avevo tradita restando lontano dal domicilio coniugale per tutta una notte. Era tanto bella l'innocenza che tentai di aumentarla. Incominciai a dire delle parole che somigliavano ad una confessione. Le dissi che mi sentivo debole e colpevole e, visto che a questo punto essa mi guardò domandando delle spiegazioni, subito ritirai la testa nel guscio e, gettandomi nella filosofia, le raccontai che il sentimento della colpa io l'avevo ad ogni mio pensiero, ad ogni mio respiro.

— Così pensano anche i religiosi, - disse Augusta; - chissà che non sia per le colpe che ignoriamo che veniamo puniti così!

Diceva delle parole adatte ad accompagnare le sue lacrime che continuavano a scorrere. A me parve ch'essa non avesse ben compresa la differenza che correva fra il mio pensiero e quello dei religiosi, ma non volli discutere e al suono monotono del vento che s'era rinforzato, con la tranquillità che mi dava anche quel mio slancio alla confessione, m'addormentai di un lungo sonno ristoratore.

Quando venne la volta del maestro di canto, tutto fu regolato in poche ore. Io da tempo l'avevo scelto, e, per dire il vero, m'ero arrestato al suo nome, prima di tutto perché era il maestro più a buon mercato di Trieste. Per non compromettermi, fu Carla stessa che andò a parlare con lui. Io non lo vidi mai, ma devo dire che oramai so molto di lui ed è una delle persone che più stimo a questo mondo. Dev'essere un semplicione sano ciò che è strano per un artista che viveva per la sua arte, come questo Vittorio Lali. Insomma un uomo invidiabile, perché geniale e anche sano.

Intanto sentii subito che la voce di Carla s'ammorbidì e divenne più flessibile e più sicura. Noi avevamo avuto paura che il maestro le avesse imposto uno sforzo come aveva fatto quello scelto dal Copler. Forse egli s'adattò al desiderio di Carla, ma sta di fatto che restò sempre nel genere da lei prediletto. Solo molti mesi dopo essa s'accorse di essersene lievemente allontanata, affinandosi. Non cantava più le canzonette triestine e poi neppure le napoletane, ma era passata ad antiche canzoni italiane e a Mozart e Schubert. Ricordo specialmente una «Ninna nanna» attribuita al Mozart, e nei giorni in cui sento meglio la tristezza della vita e rimpiango l'acerba fanciulla che fu mia e che io non amai, la «Ninna nanna» mi echeggia all'orecchio come un rimprovero. Rivedo allora Carla travestita da madre che trae dal suo seno i suoni più dolci per conquistare il sonno al suo bambino. Eppure essa, ch'era stata un'amante indimenticabile, non poteva essere una buona madre, dato ch'era una cattiva figlia. Ma si vede che saper cantare da madre è una caratteristica che copre ogni altra.

Da Carla seppi la storia del suo maestro. Egli aveva fatto qualche anno di studii al Conservatorio di Vienna ed era poi venuto a Trieste ove aveva avuto la fortuna di lavorare per il nostro maggiore compositore colpito da cecità. Scriveva le sue composizioni sotto dettatura, ma ne aveva anche la fiducia, che i ciechi devono concedere intera. Così ne conobbe i propositi, le convinzioni tanto mature e i sogni sempre giovanili. Presto egli ebbe nell'anima tutta la musica, anche quella che occorreva a Carla. Mi fu descritto anche il suo aspetto; giovine, biondo, piuttosto robusto, dal vestire negletto, una camicia molle non sempre di bucato, una cravatta che doveva essere stata nera, abbondante e sciolta, un cappello a cencio dalle falde spropositate. Di poche parole - a quanto mi diceva Carla e devo crederle perché pochi mesi appresso con lei si fece ciarliero ed essa me lo disse subito, - e tutt'intento al compito che s'era assunto.

Ben presto la mia giornata subì delle complicazioni. Alla mattina portavo da Carla oltre che amore anche un'amara gelosia, che diveniva molto meno amara nel corso della giornata. Mi pareva impossibile che quel giovinotto non approfittasse della buona, facile preda. Carla pareva stupita ch'io potessi pensare una cosa simile, ma io lo ero altrettanto al vederla stupita. Non ricordava più come le cose si erano svolte fra me e lei?

Un giorno arrivai a lei furibondo di gelosia ed essa spaventata si dichiarò subito pronta di congedare il maestro. Io non credo che il suo spavento fosse prodotto solo dalla paura di vedersi privata del mio appoggio, perché in quell'epoca io ebbi da lei delle manifestazioni di affetto di cui non posso dubitare e che alle volte mi resero beato, mentre, quando mi trovavo in altro stato d'animo, mi seccarono sembrandomi atti ostili ad Augusta ai quali, e per quanto mi costasse, ero obbligato d'associarmi. La sua proposta m'imbarazzò. Che mi trovassi nel momento dell'amore o del pentimento, io non volevo accettare un suo sacrificio. Doveva pur esserci qualche comunicazione fra' miei due stati d'essere ed io non volevo diminuire la mia già scarsa libertà di passare dall'uno all'altro. Perciò non sapevo accettare una tale proposta che invece mi rese più cauto così che anche quando ero esasperato dalla gelosia, seppi celarla. Il mio amore si fece più iroso e finì che quando la desideravo e anche quando non la desideravo affatto, Carla mi sembrò un essere inferiore. Mi tradiva o di lei non m'importava nulla. Quando non l'odiavo non ricordavo che ci fosse. Io appartenevo all'ambiente di salute e di onestà in cui regnava Augusta a cui ritornavo subito col corpo e l'anima non appena Carla mi lasciava libero.

Data l'assoluta sincerità di Carla, io so esattamente per quanto lunghissimo tempo essa fu tutta mia, e la mia gelosia ricorrente di allora non può essere considerata che quale una manifestazione di un recondito senso di giustizia. Doveva pur toccarmi quello che meritavo. Prima s'innamorò il maestro. Credo il primo sintomo del suo amore sia consistito in certe parole che Carla mi riferì con aria di trionfo ritenendo segnassero il primo suo grande successo artistico pel quale le competesse una mia lode. Egli le avrebbe detto che oramai s'era tanto affezionato al suo compito di maestro che, se essa non avesse potuto pagarlo, egli avrebbe continuato ad impartirle gratuitamente le sue lezioni. Io le avrei dato uno schiaffo, ma venne poi il momento in cui potei pretendere di saper gioire di quel suo vero trionfo. Essa poi dimenticò il crampo che alla prima aveva colto tutta la mia faccia come di chi ficca i denti in un limone e accettò serena la lode tardiva. Egli le aveva raccontati tutti gli affari proprii che non erano molti: musica, miseria e famiglia. La sorella gli aveva dati dei grandi dispiaceri ed egli aveva saputo comunicare a Carla una grande antipatia per quella donna ch'essa non conosceva. Quell'antipatia mi parve molto compromettente. Cantavano ora insieme delle canzoni sue che mi parvero povera cosa tanto quando amavo Carla quanto allorché la sentivo come una catena. Può tuttavia essere che fossero buone ad onta che io poi non ne abbia più sentito parlare. Egli diresse poi delle orchestre negli Stati Uniti e forse colà si cantano anche quelle canzoni.

Ma un bel giorno essa mi raccontò ch'egli le aveva chiesto di diventare sua moglie e ch'essa aveva rifiutato. Allora io passai due quarti d'ora veramente brutti: il primo quando mi sentii tanto invaso dall'ira che avrei voluto aspettare il maestro per gettarlo fuori a furia di calci, ed il secondo quando non trovai il verso per conciliare la possibilità della continuazione della mia tresca, con quel matrimonio ch'era in fondo una bella e morale cosa e una ben più sicura semplificazione della mia posizione che non la carriera di Carla ch'essa immaginava d'iniziare in mia compagnia.

Perché quel benedetto maestro s'era scaldato a quel modo e tanto presto? Oramai, in un anno di relazione, tutto s'era attenuato fra me e Carla, anche il cipiglio mio quando l'abbandonavo. I rimorsi miei erano oramai sopportabilissimi e quantunque Carla avesse ancora ragione di dirmi rude in amore, pareva ch'essa ci si fosse abituata. Ciò doveva esserle riuscito anche facile, perché io non fui mai più tanto brutale come nei primi giorni della nostra relazione e, sopportato quel primo eccesso, il resto dovette esserle sembrato in confronto mitissimo.

Perciò anche quando di Carla non m'importava più tanto, mi fu sempre facile prevedere che il giorno appresso io non sarei stato contento di venir a cercare la mia amante e di non trovarla più. Certo sarebbe stato bellissimo allora di saper ritornare ad Augusta senza il solito intermezzo con Carla ed in quel momento io me ne sentivo capacissimo; ma prima avrei voluto provare. Il mio proposito in quel momento dev'essere stato circa il seguente: «Domani la pregherò di accettare la proposta del maestro, ma oggi gliel'impedirò». E con grande sforzo continuai a comportarmi da amante. Adesso, dicendone, dopo di aver registrate tutte le fasi della mia avventura, potrebbe sembrare ch'io facessi il tentativo di far sposare da altri la mia amante e di conservarla mia, ciò che sarebbe stata la politica di un uomo più avveduto di me e più equilibrato, sebbene altrettanto corrotto. Ma non è vero: essa doveva sposare il maestro, ma doveva decidervisi solo la dimane. È perciò che solo allora cessò quel mio stato ch'io m'ostino a qualificare d'innocenza. Non era più possibile adorare Carla per un breve periodo della giornata eppoi odiarla per ventiquattr'ore continue, e levarsi ogni mattina ignorante come un neonato a rivivere la giornata, tanto simile alle precedenti, per sorprendersi delle avventure ch'essa apportava e che avrei dovuto sapere a mente. Ciò non era più possibile. Mi si prospettava l'eventualità di perdere per sempre la mia amante se non avessi saputo domare il mio desiderio di liberarmene. Io subito lo domai!

Ed è così che quel giorno, quando di lei non m'importò più, feci a Carla una scena d'amore che per la sua falsità e la sua furia somigliava a quella che, preso dal vino, avevo fatto ad Augusta quella notte in vettura. Solo che qui mancava il vino ed io finii col commovermi veramente al suono delle mie parole. Le dichiarai ch'io l'amavo, che non sapevo più restare senza di lei e che d'altronde mi pareva di esigere da lei il sacrificio della sua vita, visto che io non potevo offrirle niente che potesse eguagliare quanto le veniva offerto dal Lali.

Fu proprio una nota nuova nella nostra relazione che pur aveva avuto tante ore di grande amore. Essa stava a sentire le mie parole beandovisi. Molto tardi si accinse a convincermi che non era il caso di affliggersi tanto perché il Lali s'era innamorato. Essa non ci pensava affatto!

Io la ringraziai, sempre col medesimo fervore che ora però non arrivava più a commovermi. Sentivo un certo peso allo stomaco: evidentemente ero più compromesso che mai. Il mio apparente fervore invece che diminuire aumentò, solo per permettermi di dire qualche parola d'ammirazione pel povero Lali. Io non volevo mica perderlo, io volevo salvarlo, ma per il giorno dopo.

Quando si trattò di risolvere se tenere o congedare il maestro, andammo presto d'accordo. Io non avrei poi voluto privarla oltre che del matrimonio anche della carriera. Anche lei confessò che al suo maestro ci teneva: ad ogni lezione aveva la prova della necessità della sua assistenza. M'assicurò che potevo vivere tranquillo e fiducioso: essa amava me e nessun altro.

Evidentemente il mio tradimento s'era allargato ed esteso. M'ero attaccato alla mia amante di una nuova affettuosità che legava di nuovi legami e invadeva un territorio finora riservato solo al mio affetto legittimo. Ma, ritornato a casa mia, anche quest'affettuosità non esisteva più e si riversava aumentata su Augusta. Per Carla non avevo altro che una profonda sfiducia. Chissà che cosa c'era di vero in quella proposta di matrimonio! Non mi sarei meravigliato se un bel giorno, senz'aver sposato quell'altro, Carla m'avesse regalato un figlio dotato di un grande talento per la musica. E ricominciarono i ferrei propositi che m'accompagnavano da Carla, per abbandonarmi quand'ero con lei e per riprendermi quando non l'avevo ancora lasciata. Tutta roba senza conseguenze di nessun genere.

E non vi furono altre conseguenze da queste novità. L'estate passò e si portò via mio suocero. Io ebbi poi un gran da fare nella nuova casa commerciale di Guido ove lavorai più che in qualunque altro luogo, comprese le varie facoltà universitarie. Di questa mia attività dirò più tardi. Passò anche l'inverno eppoi sbocciarono nel mio giardinetto le prime foglie verdi e queste non mi videro mai tanto accasciato come quelle dell'anno prima. Nacque mia figlia Antonia. Il maestro di Carla era sempre a nostra disposizione, ma Carla tuttavia non ne voleva sapere affatto ed io neppure, ancora.

Vi furono invece delle gravi conseguenze nei miei rapporti con Carla per avvenimenti che veramente non si sarebbero creduti importanti. Passarono quasi inavvertiti e furono rilevati solo dalle conseguenze che lasciarono.

Precisamente agli albori di quella primavera, io dovetti accettare di andar a passeggiare con Carla al Giardino Pubblico. Mi sembrava una grave compromissione, ma Carla desiderava tanto di camminare al braccio mio al sole, che finii col compiacerla. Non doveva mai esserci concesso di vivere neppure per brevi istanti da marito e moglie ed anche questo tentativo finì male.

Per gustare meglio il nuovo improvviso tepore che veniva dal cielo nel quale sembrava il sole avesse riacquistato da poco l'imperio, sedemmo su una banchina. Il giardino, nelle mattine dei giorni feriali, era deserto e a me sembrava, che non movendomi, il rischio di venir osservato fosse ancora diminuito. Invece, appoggiato con l'ascella alla sua gruccia, a passi lenti, ma enormi, s'avvicinò a noi Tullio, quello dai cinquantaquattro muscoli e, senza guardarci, s'assise proprio accanto a noi. Poi levò la testa, il suo si scontrò nel mio sguardo e mi salutò:

— Dopo tanto tempo! Come stai? Hai finalmente meno da fare?

S'era messo a sedere proprio accanto a me e nella prima sorpresa io mi movevo in modo da impedirgli la vista di Carla. Ma lui, dopo di avermi stretta la mano, mi domandò:

— La tua Signora?

S'aspettava di venir presentato.

Mi sottomisi:

— La signorina Carla Gerco, un'amica di mia moglie.

Poi continuai a mentire e so da Tullio stesso che la seconda menzogna bastò a rivelargli tutto. Con un sorriso forzato, dissi:

— Anche la signorina sedette a questo banco per caso accanto a me senza vedermi.

Il mentitore dovrebbe tener presente che per essere creduto non bisogna dire che le menzogne necessarie. Col suo buon senso popolare, quando c'incontrammo di nuovo, Tullio mi disse:

— Spiegasti troppe cose ed io indovinai perciò che mentivi e che quella bella signorina era la tua amante.

Io allora avevo già perduta Carla e con grande voluttà gli confermai ch'egli aveva colto nel segno, ma gli raccontai con tristezza che oramai essa m'aveva abbandonato. Non mi credette ed io gliene fui grato. Mi pareva che la sua incredulità fosse un buon auspicio.

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4.8 La Moglie e l'Amante 4.8 Die Ehefrau und der Liebhaber 4.8 Η σύζυγος και ο εραστής 4.8 The Wife and the Lover 4.8 La femme et l'amant 4.8 A mulher e o amante 4.8 Hustrun och älskaren

Non ricordo neppure bene il pretesto che addussi per allontanarmi subito. Affannosamente mi misi a vestirmi. Parlai di una chiave che avevo dimenticato di consegnare a mia moglie per cui essa, se le fosse occorso, non avrebbe potuto entrare in casa. Feci vedere la chiave che non era altra che quella che io avevo sempre in tasca, ma che fu presentata come la prova tangibile della verità delle mie asserzioni. Carla non tentò neppure di fermarmi; si vestì e m'accompagnò fin giù per farmi luce. Nell'oscurità delle scale, mi parve ch'essa mi squadrasse con un'occhiata inquisitrice che mi turbò: cominciava essa a intendermi? Non era tanto facile, visto ch'io sapevo simulare troppo bene. Per ringraziarla perché mi lasciava andare, continuavo di tempo in tempo ad applicare la mie labbra sulle sue guancie e simulavo di essere pervaso tuttavia dallo stesso entusiasmo che m'aveva condotto da lei. Non ebbi poi ad avere alcun dubbio della buona riuscita della mia simulazione. Poco prima, con un'ispirazione d'amore, Carla m'aveva detto che il brutto nome di Zeno, che m'era stato appioppato dai miei genitori, non era certamente quello che spettava alla mia persona. Essa avrebbe voluto ch'io mi chiamassi Dario e lì, nell'oscurità, si congedò da me appellandomi così. Poi s'accorse che il tempo era minaccioso e m'offerse di andar a prendere per me un ombrello. Ma io assolutamente non potevo sopportarla più oltre, e corsi via tenendo sempre quella chiave in mano nella cui autenticità cominciavo a credere anch'io.

L'oscurità profonda della notte veniva interrotta di tratto in tratto da bagliori abbacinanti. Il mugolio del tuono pareva lontanissimo. L'aria era ancora tranquilla e soffocante quanto nella stessa stanzetta di Carla. Anche i radi goccioloni che cadevano erano tiepidi. In alto, evidente, c'era la minaccia ed io mi misi a correre. Ebbi la ventura di trovare in Corsia Stadion un portone ancora aperto e illuminato in cui mi rifugiai proprio a tempo! Subito dopo il nembo s'abbatté sulla via. Lo scroscio di pioggia fu interrotto da una ventata furiosa che parve portasse con sé anche il tuono tutt'ad un tratto vicinissimo. Trasalii! Sarebbe stato un vero compromettermi se fossi stato ammazzato dal fulmine, a quell'ora, in Corsia Stadion! Meno male ch'ero noto anche a mia moglie come un uomo dai gusti bizzarri che poteva correre fin là di notte e allora c'è sempre la scusa a tutto.

Dovetti rimanere in quel portone per più di un'ora. Pareva sempre che il tempo volesse mitigarsi, ma subito riprendeva il suo furore sempre in altra forma. Ora grandinava.

Era venuto a tenermi compagnia il portinaio della casa e dovetti regalargli qualche soldo perché ritardasse la chiusura del portone. Poi entrò nel portone un signore vestito di bianco e grondante d'acqua. Era vecchio, magro e secco. Non lo rividi mai più, ma non so dimenticarlo per la luce del suo occhio nero e per l'energia ch'emanava da tutta la sua personcina. Bestemmiava per essere stato infradiciato a quel modo.

A me è sempre piaciuto d'intrattenermi con la gente che non conosco. Con loro mi sento sano e sicuro. È addirittura un riposo. Devo stare attento di non zoppicare, e sono salvo.

Quando finalmente il tempo si mitigò, io mi recai subito non a casa mia, ma da mio suocero. Mi pareva in quel momento di dover correre subito all'appello e vantarmi di esservi.

Mio suocero s'era addormentato e Augusta, ch'era aiutata da una suora, poté venire da me. Essa disse che avevo fatto bene di venire e si gettò piangente fra le mie braccia. Aveva visto soffrire suo padre orrendamente.

S'accorse ch'ero tutto bagnato. Mi fece adagiare in una poltrona e mi coperse con delle coperte. Poi per qualche tempo poté restarmi accanto. Io ero molto stanco e anche nel breve tempo in cui essa poté restare con me, lottai col sonno. Mi sentivo molto innocente perché intanto non l'avevo tradita restando lontano dal domicilio coniugale per tutta una notte. Era tanto bella l'innocenza che tentai di aumentarla. Incominciai a dire delle parole che somigliavano ad una confessione. Le dissi che mi sentivo debole e colpevole e, visto che a questo punto essa mi guardò domandando delle spiegazioni, subito ritirai la testa nel guscio e, gettandomi nella filosofia, le raccontai che il sentimento della colpa io l'avevo ad ogni mio pensiero, ad ogni mio respiro.

— Così pensano anche i religiosi, - disse Augusta; - chissà che non sia per le colpe che ignoriamo che veniamo puniti così!

Diceva delle parole adatte ad accompagnare le sue lacrime che continuavano a scorrere. A me parve ch'essa non avesse ben compresa la differenza che correva fra il mio pensiero e quello dei religiosi, ma non volli discutere e al suono monotono del vento che s'era rinforzato, con la tranquillità che mi dava anche quel mio slancio alla confessione, m'addormentai di un lungo sonno ristoratore.

Quando venne la volta del maestro di canto, tutto fu regolato in poche ore. Io da tempo l'avevo scelto, e, per dire il vero, m'ero arrestato al suo nome, prima di tutto perché era il maestro più a buon mercato di Trieste. Per non compromettermi, fu Carla stessa che andò a parlare con lui. Io non lo vidi mai, ma devo dire che oramai so molto di lui ed è una delle persone che più stimo a questo mondo. Dev'essere un semplicione sano ciò che è strano per un artista che viveva per la sua arte, come questo Vittorio Lali. Insomma un uomo invidiabile, perché geniale e anche sano.

Intanto sentii subito che la voce di Carla s'ammorbidì e divenne più flessibile e più sicura. Noi avevamo avuto paura che il maestro le avesse imposto uno sforzo come aveva fatto quello scelto dal Copler. Forse egli s'adattò al desiderio di Carla, ma sta di fatto che restò sempre nel genere da lei prediletto. Solo molti mesi dopo essa s'accorse di essersene lievemente allontanata, affinandosi. Non cantava più le canzonette triestine e poi neppure le napoletane, ma era passata ad antiche canzoni italiane e a Mozart e Schubert. Ricordo specialmente una «Ninna nanna» attribuita al Mozart, e nei giorni in cui sento meglio la tristezza della vita e rimpiango l'acerba fanciulla che fu mia e che io non amai, la «Ninna nanna» mi echeggia all'orecchio come un rimprovero. Rivedo allora Carla travestita da madre che trae dal suo seno i suoni più dolci per conquistare il sonno al suo bambino. Eppure essa, ch'era stata un'amante indimenticabile, non poteva essere una buona madre, dato ch'era una cattiva figlia. Ma si vede che saper cantare da madre è una caratteristica che copre ogni altra.

Da Carla seppi la storia del suo maestro. Egli aveva fatto qualche anno di studii al Conservatorio di Vienna ed era poi venuto a Trieste ove aveva avuto la fortuna di lavorare per il nostro maggiore compositore colpito da cecità. Scriveva le sue composizioni sotto dettatura, ma ne aveva anche la fiducia, che i ciechi devono concedere intera. Così ne conobbe i propositi, le convinzioni tanto mature e i sogni sempre giovanili. Presto egli ebbe nell'anima tutta la musica, anche quella che occorreva a Carla. Mi fu descritto anche il suo aspetto; giovine, biondo, piuttosto robusto, dal vestire negletto, una camicia molle non sempre di bucato, una cravatta che doveva essere stata nera, abbondante e sciolta, un cappello a cencio dalle falde spropositate. Di poche parole - a quanto mi diceva Carla e devo crederle perché pochi mesi appresso con lei si fece ciarliero ed essa me lo disse subito, - e tutt'intento al compito che s'era assunto.

Ben presto la mia giornata subì delle complicazioni. Alla mattina portavo da Carla oltre che amore anche un'amara gelosia, che diveniva molto meno amara nel corso della giornata. Mi pareva impossibile che quel giovinotto non approfittasse della buona, facile preda. Carla pareva stupita ch'io potessi pensare una cosa simile, ma io lo ero altrettanto al vederla stupita. Non ricordava più come le cose si erano svolte fra me e lei?

Un giorno arrivai a lei furibondo di gelosia ed essa spaventata si dichiarò subito pronta di congedare il maestro. Io non credo che il suo spavento fosse prodotto solo dalla paura di vedersi privata del mio appoggio, perché in quell'epoca io ebbi da lei delle manifestazioni di affetto di cui non posso dubitare e che alle volte mi resero beato, mentre, quando mi trovavo in altro stato d'animo, mi seccarono sembrandomi atti ostili ad Augusta ai quali, e per quanto mi costasse, ero obbligato d'associarmi. La sua proposta m'imbarazzò. Che mi trovassi nel momento dell'amore o del pentimento, io non volevo accettare un suo sacrificio. Doveva pur esserci qualche comunicazione fra' miei due stati d'essere ed io non volevo diminuire la mia già scarsa libertà di passare dall'uno all'altro. Perciò non sapevo accettare una tale proposta che invece mi rese più cauto così che anche quando ero esasperato dalla gelosia, seppi celarla. Il mio amore si fece più iroso e finì che quando la desideravo e anche quando non la desideravo affatto, Carla mi sembrò un essere inferiore. Mi tradiva o di lei non m'importava nulla. Quando non l'odiavo non ricordavo che ci fosse. Io appartenevo all'ambiente di salute e di onestà in cui regnava Augusta a cui ritornavo subito col corpo e l'anima non appena Carla mi lasciava libero.

Data l'assoluta sincerità di Carla, io so esattamente per quanto lunghissimo tempo essa fu tutta mia, e la mia gelosia ricorrente di allora non può essere considerata che quale una manifestazione di un recondito senso di giustizia. Doveva pur toccarmi quello che meritavo. Prima s'innamorò il maestro. Credo il primo sintomo del suo amore sia consistito in certe parole che Carla mi riferì con aria di trionfo ritenendo segnassero il primo suo grande successo artistico pel quale le competesse una mia lode. Egli le avrebbe detto che oramai s'era tanto affezionato al suo compito di maestro che, se essa non avesse potuto pagarlo, egli avrebbe continuato ad impartirle gratuitamente le sue lezioni. Io le avrei dato uno schiaffo, ma venne poi il momento in cui potei pretendere di saper gioire di quel suo vero trionfo. Essa poi dimenticò il crampo che alla prima aveva colto tutta la mia faccia come di chi ficca i denti in un limone e accettò serena la lode tardiva. Egli le aveva raccontati tutti gli affari proprii che non erano molti: musica, miseria e famiglia. La sorella gli aveva dati dei grandi dispiaceri ed egli aveva saputo comunicare a Carla una grande antipatia per quella donna ch'essa non conosceva. Quell'antipatia mi parve molto compromettente. Cantavano ora insieme delle canzoni sue che mi parvero povera cosa tanto quando amavo Carla quanto allorché la sentivo come una catena. Può tuttavia essere che fossero buone ad onta che io poi non ne abbia più sentito parlare. Egli diresse poi delle orchestre negli Stati Uniti e forse colà si cantano anche quelle canzoni.

Ma un bel giorno essa mi raccontò ch'egli le aveva chiesto di diventare sua moglie e ch'essa aveva rifiutato. Allora io passai due quarti d'ora veramente brutti: il primo quando mi sentii tanto invaso dall'ira che avrei voluto aspettare il maestro per gettarlo fuori a furia di calci, ed il secondo quando non trovai il verso per conciliare la possibilità della continuazione della mia tresca, con quel matrimonio ch'era in fondo una bella e morale cosa e una ben più sicura semplificazione della mia posizione che non la carriera di Carla ch'essa immaginava d'iniziare in mia compagnia.

Perché quel benedetto maestro s'era scaldato a quel modo e tanto presto? Oramai, in un anno di relazione, tutto s'era attenuato fra me e Carla, anche il cipiglio mio quando l'abbandonavo. I rimorsi miei erano oramai sopportabilissimi e quantunque Carla avesse ancora ragione di dirmi rude in amore, pareva ch'essa ci si fosse abituata. Ciò doveva esserle riuscito anche facile, perché io non fui mai più tanto brutale come nei primi giorni della nostra relazione e, sopportato quel primo eccesso, il resto dovette esserle sembrato in confronto mitissimo.

Perciò anche quando di Carla non m'importava più tanto, mi fu sempre facile prevedere che il giorno appresso io non sarei stato contento di venir a cercare la mia amante e di non trovarla più. Certo sarebbe stato bellissimo allora di saper ritornare ad Augusta senza il solito intermezzo con Carla ed in quel momento io me ne sentivo capacissimo; ma prima avrei voluto provare. Il mio proposito in quel momento dev'essere stato circa il seguente: «Domani la pregherò di accettare la proposta del maestro, ma oggi gliel'impedirò». E con grande sforzo continuai a comportarmi da amante. Adesso, dicendone, dopo di aver registrate tutte le fasi della mia avventura, potrebbe sembrare ch'io facessi il tentativo di far sposare da altri la mia amante e di conservarla mia, ciò che sarebbe stata la politica di un uomo più avveduto di me e più equilibrato, sebbene altrettanto corrotto. Ma non è vero: essa doveva sposare il maestro, ma doveva decidervisi solo la dimane. È perciò che solo allora cessò quel mio stato ch'io m'ostino a qualificare d'innocenza. Non era più possibile adorare Carla per un breve periodo della giornata eppoi odiarla per ventiquattr'ore continue, e levarsi ogni mattina ignorante come un neonato a rivivere la giornata, tanto simile alle precedenti, per sorprendersi delle avventure ch'essa apportava e che avrei dovuto sapere a mente. Ciò non era più possibile. Mi si prospettava l'eventualità di perdere per sempre la mia amante se non avessi saputo domare il mio desiderio di liberarmene. Io subito lo domai!

Ed è così che quel giorno, quando di lei non m'importò più, feci a Carla una scena d'amore che per la sua falsità e la sua furia somigliava a quella che, preso dal vino, avevo fatto ad Augusta quella notte in vettura. Solo che qui mancava il vino ed io finii col commovermi veramente al suono delle mie parole. Le dichiarai ch'io l'amavo, che non sapevo più restare senza di lei e che d'altronde mi pareva di esigere da lei il sacrificio della sua vita, visto che io non potevo offrirle niente che potesse eguagliare quanto le veniva offerto dal Lali.

Fu proprio una nota nuova nella nostra relazione che pur aveva avuto tante ore di grande amore. Essa stava a sentire le mie parole beandovisi. Molto tardi si accinse a convincermi che non era il caso di affliggersi tanto perché il Lali s'era innamorato. Essa non ci pensava affatto!

Io la ringraziai, sempre col medesimo fervore che ora però non arrivava più a commovermi. Sentivo un certo peso allo stomaco: evidentemente ero più compromesso che mai. Il mio apparente fervore invece che diminuire aumentò, solo per permettermi di dire qualche parola d'ammirazione pel povero Lali. Io non volevo mica perderlo, io volevo salvarlo, ma per il giorno dopo.

Quando si trattò di risolvere se tenere o congedare il maestro, andammo presto d'accordo. Io non avrei poi voluto privarla oltre che del matrimonio anche della carriera. Anche lei confessò che al suo maestro ci teneva: ad ogni lezione aveva la prova della necessità della sua assistenza. M'assicurò che potevo vivere tranquillo e fiducioso: essa amava me e nessun altro.

Evidentemente il mio tradimento s'era allargato ed esteso. M'ero attaccato alla mia amante di una nuova affettuosità che legava di nuovi legami e invadeva un territorio finora riservato solo al mio affetto legittimo. Ma, ritornato a casa mia, anche quest'affettuosità non esisteva più e si riversava aumentata su Augusta. Per Carla non avevo altro che una profonda sfiducia. Chissà che cosa c'era di vero in quella proposta di matrimonio! Non mi sarei meravigliato se un bel giorno, senz'aver sposato quell'altro, Carla m'avesse regalato un figlio dotato di un grande talento per la musica. E ricominciarono i ferrei propositi che m'accompagnavano da Carla, per abbandonarmi quand'ero con lei e per riprendermi quando non l'avevo ancora lasciata. Tutta roba senza conseguenze di nessun genere.

E non vi furono altre conseguenze da queste novità. L'estate passò e si portò via mio suocero. Io ebbi poi un gran da fare nella nuova casa commerciale di Guido ove lavorai più che in qualunque altro luogo, comprese le varie facoltà universitarie. Di questa mia attività dirò più tardi. Passò anche l'inverno eppoi sbocciarono nel mio giardinetto le prime foglie verdi e queste non mi videro mai tanto accasciato come quelle dell'anno prima. Nacque mia figlia Antonia. Il maestro di Carla era sempre a nostra disposizione, ma Carla tuttavia non ne voleva sapere affatto ed io neppure, ancora.

Vi furono invece delle gravi conseguenze nei miei rapporti con Carla per avvenimenti che veramente non si sarebbero creduti importanti. Passarono quasi inavvertiti e furono rilevati solo dalle conseguenze che lasciarono.

Precisamente agli albori di quella primavera, io dovetti accettare di andar a passeggiare con Carla al Giardino Pubblico. Mi sembrava una grave compromissione, ma Carla desiderava tanto di camminare al braccio mio al sole, che finii col compiacerla. Non doveva mai esserci concesso di vivere neppure per brevi istanti da marito e moglie ed anche questo tentativo finì male.

Per gustare meglio il nuovo improvviso tepore che veniva dal cielo nel quale sembrava il sole avesse riacquistato da poco l'imperio, sedemmo su una banchina. Il giardino, nelle mattine dei giorni feriali, era deserto e a me sembrava, che non movendomi, il rischio di venir osservato fosse ancora diminuito. Invece, appoggiato con l'ascella alla sua gruccia, a passi lenti, ma enormi, s'avvicinò a noi Tullio, quello dai cinquantaquattro muscoli e, senza guardarci, s'assise proprio accanto a noi. Poi levò la testa, il suo si scontrò nel mio sguardo e mi salutò:

— Dopo tanto tempo! Come stai? Hai finalmente meno da fare?

S'era messo a sedere proprio accanto a me e nella prima sorpresa io mi movevo in modo da impedirgli la vista di Carla. Ma lui, dopo di avermi stretta la mano, mi domandò:

— La tua Signora?

S'aspettava di venir presentato.

Mi sottomisi:

— La signorina Carla Gerco, un'amica di mia moglie.

Poi continuai a mentire e so da Tullio stesso che la seconda menzogna bastò a rivelargli tutto. Con un sorriso forzato, dissi:

— Anche la signorina sedette a questo banco per caso accanto a me senza vedermi.

Il mentitore dovrebbe tener presente che per essere creduto non bisogna dire che le menzogne necessarie. Col suo buon senso popolare, quando c'incontrammo di nuovo, Tullio mi disse:

— Spiegasti troppe cose ed io indovinai perciò che mentivi e che quella bella signorina era la tua amante.

Io allora avevo già perduta Carla e con grande voluttà gli confermai ch'egli aveva colto nel segno, ma gli raccontai con tristezza che oramai essa m'aveva abbandonato. Non mi credette ed io gliene fui grato. Mi pareva che la sua incredulità fosse un buon auspicio.