Parte 13
I grandi calori andavano passando, in quel settembre avanzato, e cedevano al primo fresco precursore dell'autunno. I venti mutavano direzione, non portavano più l'arsura bruciante dei deserti, ma un vago sentore marino; e i tramonti allungavano per delle ore le loro strisce di rossi fuochi, sui monti di Calabria, nell'aria piena dei voli delle cornacchie e dei pipistrelli. Sulla mia terrazza il cielo era immenso, pieno di nubi mutevoli: mi pareva di essere sul tetto del mondo, o sulla tolda di una nave, ancorata su un mare pietrificato. A monte, verso levante, le casupole di Gagliano di Sotto nascondevano agli sguardi il resto del paese, che, costruito sulla cresta di un'onda di terra, a saliscendi, non si riesce mai a vedere intero da nessuna parte: dietro i loro tetti giallastri spuntava la costa di un monte, al di sopra del cimitero, e di là, prima del cielo, si sentiva il vuoto della valle. Sulla mia sinistra, a mezzogiorno, c'era la stessa vista che dal palazzo: la distesa sconfinata delle argille, con le macchie chiare dei paesi, fino ai confini del mare invisibile. Alla mia destra, a mezzanotte, scendeva la frana sul burrone rinchiuso fra i monti, che mostravano la loro faccia spelacchiata e brulla: in fondo al burrone il sentiero, dove vedevo muoversi, non più grandi di formiche, i contadini che andavano e venivano dai campi. La Giulia si meravigliava che io sapessi distinguere, a una tale distanza, i gaglianesi dai forestieri, i contadini dai mercanti ambulanti: e, per quanto la mia vista fosse buona, non avrei davvero potuto farlo se non per divinazione o per magia. Ma avevo notato il loro diverso modo di camminare: i contadini avanzavano rigidi, senza muovere le braccia. Ogni volta che io vedevo uno di quei puntini neri muoversi oscillando con un dondolío e un'aria quasi di danza, potevo esser certo che era uno di città: presto la tromba del banditore becchino avrebbe annunciato il suo arrivo e chiamate le donne all'acquisto delle sue mercanzie. Dinanzi a me, verso occidente, dietro le larghe foglie verdi e grige del fico dell'orto e i tetti delle ultime catapecchie digradanti in pendio, sorgeva il Timbone della Madonna degli Angeli, un monticciuolo di terra tutto incavi e sporgenze, con poca erba rada qua e là nella parte meno dirupata, come un osso di morto, la testa di un femore gigantesco, che portasse ancora attaccati dei brandelli secchi di carne e di pelle. A sinistra del Timbone, per un tratto lunghissimo, fino laggiù in fondo, verso 1'Agri, dove il terreno si spianava in un luogo detto il Pantano, era un seguirsi digradante di monticelli, di buche, di coni di erosione rigati dall'acqua, di grotte naturali, di piagge, fossi e collinette di argilla uniformemente bianca, come se la terra intera fosse morta, e ne fosse rimasto al sole il solo scheletro imbiancato e lavato dalle acque. Dietro questo ossame desolato era nascosto, su una piccola altura sul fiume malarico, Gaglianello, e piú lontano si vedeva il greto dell'Agri. Di là dall'Agri, su una prima fila di colline grigie, sorgeva bianco Sant'Arcangelo, il paese di Giulia, e dietro, più azzurre, si levavano altre colline ed altre ancora, schierate più indietro, con dei paesi vaghi nella distanza, e più in là ancora i borghi degli albanesi, sulle prime pendici del Pollino, e dei monti di Calabria che chiudevano l'orizzonte. Un po' a sinistra e piú in alto di Sant'Arcangelo, appariva, a mezza costa di un'altura, il biancore di una chiesa. Qui usavano convenire in pellegrinaggio le genti della valle: era un luogo di molta devozione, sede di una madonna miracolosa. In questa chiesa erano conservate le corna di un drago che infestava, nei tempi antichi, la regione. Tutti, a Gagliano, le avevano vedute. Io purtroppo non potei mai andarci, come avrei desiderato. Il drago, a quello che mi raccontarono, abitava in una grotta vicino al fiume, e divorava i contadini, riempiva le terre del suo fiato pestifero, rapiva le fanciulle, distruggeva i raccolti. Non si poteva più vivere, in quel tempo, a Sant'Arcangelo. I contadini avevano cercato di difendersi, ma non potevano far nulla contro quella bestiale potenza mostruosa. Ridotti alla disperazione, costretti a disperdersi come animali su per i monti, pensarono infine di rivolgersi per soccorso al più potente signore dei luoghi, al principe Colonna di Stigliano.
Il principe venne, tutto armato, sul suo cavallo, andò alla grotta del drago e lo sfidò a battaglia. Ma la forza del mostro, dalla bocca che lanciava fuoco e dalle enormi ali di pipistrello, era immensa, e la spada del principe pareva impotente di fronte a lui. A un certo momento, quel valoroso si sentì tremare il cuore, e stava quasi per darsi alla fuga o per cadere fra gli artigli del drago, quando gli apparve, vestita di azzurro, la Madonna, che gli disse con un sorriso: - Coraggio, principe Colonna! - e rimase da una parte, appoggiata alla parete di terra della caverna, a guardare la lotta. A questa visione, a queste parole, l'ardimento del principe si centuplicò, e tanto fece che il dragone cadde morto ai suoi piedi. Il principe gli tagliò la testa, ne staccò le corna, e fece edificare la chiesa perché vi fossero per sempre conservate.
Passato il terrore, liberato il paese, i santarcangelesi tornarono alle loro case, e così fecero quelli di Noepoli e di Senise e degli altri paesi lì attorno, che, come loro, avevano dovuto fuggire pei monti. Bisognava ora compensare il principe per il servizio reso: in quei tempi antichi, i signori, per quanto cavallereschi e amanti di gloria, e protetti personalmente dalla Madonna, non usavano muoversi per nulla. Si radunarono perciò gli abitanti di tutti i paesi fatti sicuri dalla morte del drago, per deliberare. Quelli di Noepoli e di Senise proposero di dare al principe alcune loro terre in signoria feudale: ma quelli di Sant'Arcangelo, che ancora oggi sono reputati avari e astuti, e che volevano salvare la terra, fecero una diversa proposta. - Il drago, - dissero, - abitava nel fiume, era una bestia dell'acqua. Il principe si prenda dunque il fiume, diventi il signore della corrente -. Il loro consiglio prevalse: 1'Agri fu offerto al Colonna, e quello lo accettò. I contadini di Sant'Arcangelo credevano di aver fatto un buon affare, e di aver ingannato il loro salvatore: ma avevano fatto male i loro conti. L'acqua dell'Agri serviva ad irrigare i campi, e da allora bisognò pagarla al principe e ai signori feudali suoi discendenti, per tutti i secoli. Così ebbe origine una servitù che si è conservata fino alla seconda metà del secolo scorso. Non so se esistano ancora oggi dei discendenti diretti di quell'antico paladino, e se vantino ancora i loro diritti sull'acqua. Un mio amico, il direttore d'orchestra Colonna, che discende da un ramo collaterale dei principi di Stigliano e potrebbe portarne il titolo, non sapeva neppure, quando dopo molti anni gliene parlai, dove fosse Stigliano, il suo feudo, e tanto meno sapeva nulla del drago, gloria della sua famiglia. Ma i contadini, che hanno pagato l'acqua per molti secoli, e che vanno ancora in pellegrinaggio a contemplare le corna del mostro, si ricordano del drago e della Madonna, e del principe. Che ci fossero, da queste parti, dei draghi, nei secoli medioevali (i contadini e la Giulia, che me ne parlavano, dicevano: - In tempi lontani, più di cent'anni fa, molto prima del tempo dei briganti -) non fa meraviglia: né farebbe meraviglia se ricomparissero ancora, anche oggi, davanti all'occhio atterrito del contadino. Tutto è realmente possibile, quaggiù, dove gli antichi iddii dei pastori, il caprone e l'agnello rituale, ripercorrono, ogni giorno, le note strade, e non vi è alcun limite sicuro a quello che è umano verso il mondo misterioso degli animali e dei mostri. Ci sono a Gagliano molti esseri strani, che partecipano di una doppia natura. Una donna, una contadina di mezza età, maritata e con figli, e che non mostrava, a vederla, nulla di particolare, era figlia di una vacca. Così diceva tutto il paese, e lei stessa lo confermava. Tutti i vecchi ricordavano la sua madre vacca, che la seguiva dappertutto quando era bambina, e la chiamava muggendo, e la leccava con la sua lingua ruvida. Questo non impediva che fosse esistita anche una madre donna, che ora era morta, come da molti anni era morta anche la madre vacca. Nessuno trovava, in questa doppia natura e in questa doppia nascita, nessuna contraddizione: e la contadina, che anch'io conoscevo, viveva, placida e tranquilla come le sue madri, con la sua eredità animalesca. Alcuni assumono questa mescolanza di umano e di bestiale soltanto in particolari occasioni. I sonnambuli diventano lupi, licantropi, dove non si distingue più l'uomo dalla belva. Ce n'era qualcuno anche a Gagliano, e uscivano nelle notti d'inverno, per trovarsi con i loro fratelli, i lupi veri. - Escono la notte, - mi raccontava la Giulia, - e sono ancora uomini, ma poi diventano lupi e si radunano tutti insieme, con i veri lupi, attorno alla fontana. Bisogna star molto attenti quando ritornano a casa. Quando battono all'uscio la prima volta, la loro moglie non deve aprire. Se aprisse vedrebbe il marito ancora tutto lupo, e quello la divorerebbe, e fuggirebbe per sempre nel bosco. Quando battono per la seconda volta, ancora la donna non deve aprire: lo vedrebbe con il corpo fatto già di uomo, ma con la testa di lupo. Soltanto quando battono all'uscio per la terza volta, si aprirà: perché allora si sono del tutto trasformati, ed è scomparso il lupo e riapparso l'uomo di prima. Non bisogna mai aprire la porta prima che abbiano battuto tre volte. Bisogna aspettare che si siano mutati, che abbiano perso anche lo sguardo feroce del lupo, e anche la memoria di essere stati bestie. Poi, quelli non si ricordano più di nulla.-
La doppia natura è talvolta spaventosa e orrenda, come per i licantropi; ma porta con sé, sempre, una attrattiva oscura, e genera il rispetto, come a qualcosa che partecipa della divinità. Qualcosa di questo genere era riconosciuta da tutti, in paese, per il mio cane, che non era riguardato come un cane normale, ma come un essere straordinario, diverso da tutti gli altri cani, e degno di essere particolarmente onorato. Anch'io, del resto, ho sempre pensato che in lui ci fosse un elemento infantilmente angelico o demoniaco, e che i contadini non avessero torto nel trovargli quella ambiguità che obbliga all'adorazione. Già, la sua origine era misteriosa. Questo cane era stato trovato in treno, sulla linea che da Napoli va a Taranto, con un cartellino appeso al collare che diceva: «Il mio nome è Barone. Chi mi trova abbia cura di me». Non si seppe dunque mai di dove venisse: forse dalla grande città, poteva essere il figlio di un re. Lo presero i ferrovieri, e lo tennero per qualche tempo alla stazione di Tricarico; quelli di Tricarico lo regalarono ai ferrovieri della stazione di Grassano. Il podestà di Grassano lo vide, se lo fece dare dai ferrovieri, e lo tenne nella sua casa con i suoi bambini, ma poiché faceva troppo chiasso, ne fece dono a suo fratello, segretario del sindacato dei contadini di Grassano, che lo portava sempre con sé, nei suoi giri per la campagna. Tutti conoscevano Barone, e tutti, a Grassano, lo consideravano un essere straordinario.
Un giorno, nei tempi in cui vivevo solo laggiù, mi avvenne di dire per caso a dei miei amici contadini e artigiani che non mi sarebbe dispiaciuto avere un cane, per la compagnia. La mattina dopo mi portarono subito un cucciolo, uno dei soliti cani gialli da caccia. Lo tenni qualche tempo, ma non mi piaceva: non mi riusciva di allevarlo, sporcava dappertutto, e non mi pareva intelligente: perciò lo restituii a quelli che me l'avevano regalato, e non pensai più a cani. Ma quando arrivò improvvisamente l'ordine di partire per Gagliano, e quella buona gente che mi si era affezionata ne fu spiacentissima, come di una disgrazia che li avesse ingiustamente colpiti, i contadini vollero lasciarmi un regalo, che mi seguisse e mi rammentasse che a Grassano c'erano dei buoni cristiani che mi volevano bene. Si ricordarono di quel mio vecchio desiderio, che io mi ero ormai dimenticato, e decisero di regalarmi un cane. Ma nessun altro cane era degno di me, se non il famoso Barone; e Barone doveva essere mio. Tanto dissero e tanto fecero, che riuscirono a farselo dare dal suo padrone, lo pulirono, lo lavarono, gli cercarono un bel collare, una museruola, e un guinzaglio. Antonino Roselli, il giovane barbiere e flautista, che sognava di seguirmi in capo al mondo come mio segretario, lo tosò da leoncino, lasciandogli il lungo pelo sul davanti, e rasandolo sul dietro, con un grosso ciuffo in cima alla coda; e ingentilito, bianco, profumato e travestito, Barone, il selvaggio Barone, mi fu offerto in dono, a ricordo eterno della buona città di Grassano, il giorno prima della mia partenza. Così truccato e abbellito, io stesso non capivo che cane fosse: mi pareva uno strano miscuglio di cane barbone e di cane da pastore. In verità era forse un cane da pastore, ma di una razza o incrocio non comune: non ne ho mai incontrati altri identici. Era di media grandezza, tutto bianco, con una macchia nera sulla punta delle orecchie, che aveva lunghissime e pendenti ai lati del viso. Questo era molto bello, come quello di un drago cinese, spaventoso nei momenti di furore, o quando mostrava i denti, ma con due occhi rotondi e umani, color nocciola, coi quali mi seguiva senza voltare il capo, pieno volta a volta di dolcezza, di libertà e di una certa infantile misteriosa arguzia. Il pelo era lungo quasi fino a terra, ricciuto, morbido e lucente come la seta: la coda, che egli portava arcuata e svolazzante come un pennacchio di guerriero orientale, era grossa come quella di una volpe. Era un essere allegro, libero e selvaggio: si affezionava, ma senza servilità; ubbidiva, ma conservava la sua indipendenza; una specie di folletto o di spiritello familiare, bonario, ma, in fondo, irraggiungibile. Più che camminare, saltava, a grandi balzi, con un ondeggiare delle orecchie e del pelo; inseguiva le farfalle e gli uccelli, spaventava le capre, lottava con i cani e coi gatti, correva da solo pei campi guardando le nuvole, sempre pronto, scattante, in un continuo gioco aereo, come seguisse il filo ondulante di un innocente pensiero inumano, l'elastico incarnarsi di un bizzarro spirito dei boschi. Fin dal nostro primo arrivo a Gagliano, l'attenzione di tutti si posò su questo mio strano compagno: e i contadini, che vivono immersi nell'incanto animalesco, si accorsero subito della sua natura misteriosa. Non avevano mai visto una bestia simile: in paese ci sono soltanto i segugi bastardi, buoni cacciatori talvolta, ma miseri, umiliati, plebei; e solo di rado passa, dietro i greggi ed i pastori, qualche maremmano feroce, col collare irto di punte di ferro, contro il morso dei lupi. E poi, il mio cane si chiamava Barone. In questi paesi, i nomi significano qualcosa: c'è in loro un potere magico: una parola non è mai una convenzione o un fiato di vento, ma una realtà, una cosa che agisce. Egli era dunque, davvero, un barone; un signore, un essere potente, che bisognava rispettare. Se, fin dal primo giorno, io fui guardato dai popolani con simpatia e quasi con ammirazione, lo dovetti certo un poco anche al mio cane. Quando egli passava, pazzamente saltando e abbaiando nella sua folle libertà naturale, i contadini se lo additavano, e i ragazzi gridavano: - Guarda, guarda! Mezzo barone e mezzo leone! - Barone per loro era un animale araldico, il leone rampante sullo scudo di un signore. E tuttavia era soltanto un cane, un frusco come tutti gli altri: ma questa sua doppia natura era meravigliosa. Anch'io lo amavo per la sua semplice molteplicità. Ora egli è morto, come mio padre a cui l'avevo regalato, ed è sepolto sotto un mandorlo in faccia al mare di Liguria, in quella mia terra dove io non posso mettere il piede, poiché pare che i potenti, nel loro terrore del sacro, abbiano scoperto che anche in me è una doppia natura, e che, anch'io, sono mezzo barone e mezzo leone. Tutto, per i contadini, ha un doppio senso. La donnavacca, l'uomo- lupo, il Barone-leone, la capra-diavolo non sono che immagini particolarmente fissate e rilevanti: ma ogni persona, ogni albero, ogni animale, ogni oggetto, ogni parola partecipa di questa ambiguità. La ragione soltanto ha un senso univoco, e, come lei, la religione e la storia. Ma il senso dell'esistenza, come quello dell'arte e del linguaggio e dell'amore, è molteplice, all'infinito. Nel mondo dei contadini non c'è posto per la ragione, per la religione e per la storia. Non c'è posto per la religione, appunto perché tutto partecipa della divinità, perché tutto è, realmente e non simbolicamente, divino, il cielo come gli animali, Cristo come la capra. Tutto è magia naturale. Anche le cerimonie della chiesa diventano dei riti pagani, celebratori della indifferenziata esistenza delle cose, degli infiniti terrestri dèi del villaggio.
Eravamo alla metà di settembre, la domenica della Madonna. Fin dal mattino le strade erano piene di contadini vestiti di nero, c'erano dei forestieri, i musicanti di Stigliano e gli artificieri di Sant'Arcangelo, venuti a disporre le bombe e i mortaretti. Il cielo era chiaro e leggero, e ogni tanto giungeva, per l'aria, con il suono funebre delle campane, lo sparo di qualche fucilata. I contadini, con i loro schioppi lucidi, inauguravano la festa. Il pomeriggio, dopo le ore del caldo, cominciò la processione. Uscì dalla chiesa, e percorse tutto il paese. Risalì dapprima fino al cimitero, poi ridiscese alla piazza, alla piazzetta, giù fino a Gagliano di Sotto e alla crollata Madonna degli Angeli, per tornare poi, per la stessa strada, al punto di partenza, e rientrare in chiesa. Davanti camminavano dei giovanotti con delle pertiche, su cui, a guisa di stendardi, erano attaccati dei panni, dei lenzuoli bianchi, e li agitavano e sventolavano; e i suonatori della banda di Stigliano con le trombe lucenti e fragorose. Poi, su un baldacchino retto da due lunghe stanghe, portato a turno da una dozzina di uomini, veniva la Madonna. Era una povera Madonna di cartapesta dipinta, una copia modesta della celebre e potentissima Madonna di Viggiano, e aveva, come quella, il viso nero: era tutta coperta di abiti di gala, di collane e di braccialetti. Dietro la Madonna camminava don Trajella, con una stola bianca sulla vecchia sottana bisunta, e il suo solito aspetto stanco, smunto e annoiato; poi il podestà e il brigadiere, e poi i signori, e poi le donne, tutte insieme, con un grande ondeggiare di veli bianchi, i ragazzi e i contadini. Si era levato un gran vento fresco, che alzava nuvole di polvere, e faceva volare le sottane, i veli e le bandiere: forse sarebbe venuta la pioggia, in tanti mesi di arsura invano invocata e desiderata. Al passaggio della processione, scoppiava con fragore una doppia fila di mortaretti, disposti lungo tutta la strada. Le micce si accendevano, le strisce di polvere prendevano fuoco, le bombe detonavano, i contadini si affacciavano sulle soglie con i fucili, e sparavano in aria. Il crepitio, il frastuono erano continui, interrotti soltanto dal rumore improvviso di qualche carica più grossa, che rimbombava e svegliava gli echi dei burroni. In questo chiasso di battaglia non si vedeva, negli occhi delle persone, felicità o estasi religiosa, ma una specie di follia, una pagana smoderatezza, e come uno stordimento a cui si lasciavano andare. Tutti erano eccitati. Gli animali correvano spaventati, le capre saltavano, gli asini ragliavano, i cani abbaiavano, i ragazzi urlavano, le donne cantavano.
Sugli usci di tutte le case i contadini aspettavano la processione con in mano un cesto di grano, e al suo passaggio ne buttavano piene manciate sulla Madonna, perché si ricordasse dei raccolti e portasse la buona fortuna. I chicchi volavano per l'aria, cadevano sulle pietre del selciato e rimbalzavano con un rumore leggero, come di grandine. La Madonna dal viso nero, tra il grano e gli animali, gli spari e le trombe, non era la pietosa Madre di Dio, ma una divinità sotterranea, nera delle ombre del grembo della terra, una Persefone contadina, una dea infernale delle messi.
Davanti alla porta di alcune case, qua e là dove la strada si allargava, erano preparati dei tavoli coperti da una tovaglia bianca, come dei piccoli rustici altari. La processione faceva sosta qui davanti, don Trajella biascicava qualche benedizione, e i contadini e le donne correvano a portare le offerte. Attaccavano agli abiti della Madonna delle monete, dei biglietti da cinque e da dieci lire, e perfino dei dollari, avanzo geloso delle fatiche americane.
Ma i più le appendevano al collo grandi collane di fichi secchi, o posavano ai suoi piedi frutta e uova, e correvano con altre offerte quando già la processione si era rimessa in cammino, e si univano alla folla e allo strepito delle trombe, degli spari e delle grida. Più la processione avanzava, più si faceva numerosa e tumultuante, finché, ripercorso tutto il paese, non rientrò nella chiesa. Cadeva qualche grossa goccia di pioggia, ma presto il vento spazzò le nubi, il temporale si allontanò e tornò il sereno, con le prime stelle della sera. Cosi non si sarebbe sciupato lo spettacolo dei fuochi. Tutti mangiarono un boccone in fretta: appena buio tutto il paese si riversò ai bordi del burrone, di dove, qualche metro più in basso, dovevano partire le bombe. Fu allora che vidi dei gruppi di giovanotti salire sul tetto del monumento della piazzetta, per meglio godere, di là, lo spettacolo. In onore della Madonna anche noi confinati potevamo restare un'ora di piú fuori di casa. Era la grande giornata, la festa dei raccolti, la sera del fuoco. Si erano spese tremila lire per i fuochi artificiali, e questa era un'annata cattiva: altre volte si era arrivati anche alle cinque e alle seimila: i paesi più grandi consumano, nei giorni dei loro santi, cifre anche molto piú grosse. Tremila lire, per Gagliano, sono una somma enorme, il risparmio totale di mezza annata, ma per i fuochi si buttano volentieri, e nessuno le rimpiange. Si erano consultati, a gara, gli artificieri più noti della provincia: se si avesse avuto più denaro si sarebbero scelti quelli di Montemurro o quelli di Ferrandina, ma ci si era dovuti accontentare dei santarcangelesi, che, del resto, erano buonissimi. Ed ecco, fra gli applausi, le grida di spavento e di ammirazione delle donne e dei bambini, la prima candela romana saliva diritta verso il cielo pieno di stelle e poi un'altra, e un'altra ancora, e poi le girandole, i bengala, le bombe, le grandi piogge d'oro: uno spettacolo meraviglioso. Erano le dieci, e dovevo rientrare. Dalla mia terrazza, con Barone che guardava eccitato in aria e abbaiava agli spari, rimasi ancora a lungo a contemplare le luci che salivano e ricadevano sfriggendo sull'argilla del Timbone, e ad ascoltare il rimbombo degli scoppi. Poi ci fu il lancio accelerato di venti fuochi, e il gran colpo finale; e udii a poco a poco la gente disperdersi, i passi sulle pietre, lo sbattere degli usci. Il giorno della festa contadina era finito, con la sua agitazione frenetica e infocata; gli animali dormivano, e sul paese buio era tornato il silenzio e l'oscurità vuota del cielo.