#110 – 1977, l'anno dei fiori e delle pistole
Trascrizione dal podcast Salvatore racconta, episodio pubblicato il 29 aprile 2023.
Distribuito con licenza Creative Commons CC-BY 4.0 non commerciale.
C'è una foto famosa in Italia che risale agli anni Settanta, e in particolare al 1977.
Ritrae un uomo in mezzo alla strada, indossa un passamontagna e tra le mani ha una pistola.
Ha le ginocchia piegate, per tenersi più in basso. Per sparare all'altezza giusta. Ad altezza d'uomo.
La foto è famosissima, ma il suo protagonista è sconosciuto.
Non sappiamo chi fosse. E in fondo non importa granché.
La sua foto ha valore storico perché ci racconta una normalità che oggi è incredibile.
La normalità per cui si poteva stare per strada a Milano con una pistola carica tra le mani, pronti a uccidere.
Su questo podcast, abbiamo già parlato del terrorismo neofascista come di quello comunista.
Era la violenza ad alta intensità, quella organizzata, che portava avanti obiettivi politici di lungo termine.
Ma c'era anche una violenza a bassa intensità. Fatta di scontri per strada e nelle università.
Figlia di una società italiana sempre più fragile. Di una politica quasi sempre in ritardo.
La violenza di strada nel 1977 è uno dei frutti, non certo l'unico, della grande energia sociale di quegli anni.
Un'energia che ha prodotto dolore, ma anche letteratura, arte, musica.
Un'energia che è durata poco ma ha lasciato tracce che vediamo ancora oggi.
Nel 1977 all'apparenza non cambia quasi niente, ma in profondità cambia quasi tutto.
Nelle puntate precedenti della serie di Storia, abbiamo parlato delle bombe neofasciste e del terrorismo politico delle Brigate Rosse. Dicendo che lo Stato, nel frattempo, non ci stava capendo nulla.
È vero, i vari governi di quegli anni hanno fatto una fatica enorme a capire le motivazioni che portavano le persone a scegliere la violenza.
Negli stessi anni, tuttavia, sono riusciti a mantenere in piedi la repubblica e in parte anche a rispondere ai problemi dei cittadini.
Era arrivata una legge per i diritti dei lavoratori, una che consentiva il divorzio e varie altre che hanno dato una spinta in avanti alla società italiana.
Parliamo per il sud Italia, di riforme delle pensioni, persino della liberalizzazione della pillola contraccettiva.
Non sono state tutte scelte lungimiranti, alcune hanno causato problemi di cui oggi paghiamo le conseguenze, ma di certo sono state importanti per l'epoca.
Quelle scelte erano il prodotto del cosiddetto centro-sinistra, l'accordo tra il partito di centro della Democrazia Cristiana e i vari partiti della sinistra, escluso il Partito Comunista.
I comunisti rimanevano sempre all'opposizione e questo gli dava un certo vantaggio strategico. Potevano attirare il malcontento di tanti pezzi della popolazione che non vedeva migliorare la propria qualità di vita.
Gli iscritti al PCI nel '76 erano milioni e il segretario, Enrico Berlinguer, era molto popolare. Anche perché provava a essere rassicurante. Allontanandosi dall'Unione Sovietica e dichiarando che non avrebbe mai voluto l'uscita italiana dalla Nato.
Berlinguer aveva un inaspettato alleato nella Democrazia Cristiana, Aldo Moro. Un politico cattolico e moderato, ma allo stesso tempo convinto della necessità di un accordo con i comunisti per sbloccare la situazione.
Alle elezioni del 1976 il risultato è: Democrazia Cristiana prima e Partito Comunista secondo. Come sempre. Ma la distanza questa volta è ridotta al minimo.
DC 38,7 %, PCI 34,4%.
I comunisti non potevano più essere solo l'opposizione, ormai rappresentavano più di un terzo degli italiani. Era il momento della responsabilità.
Allo stesso tempo, era chiaro a tutti che fare un'alleanza di governo con la democrazia cristiana sarebbe stato impossibile.
Un'alternativa però c'era. La DC avrebbe fatto il governo da sola, ma il PCI non avrebbe fatto opposizione dura.
Gli alleati dell'Italia, erano fortemente contrari a questo scenario. Temevano che un governo appoggiato dai comunisti avrebbe cambiato i delicatissimi equilibri della guerra fredda.
Ciononostante, non potevano farci niente. Nel 1976, il nuovo governo presieduto da Giulio Andreotti riceve la fiducia delle camere. Niente ministri o ruoli di governo ai comunisti, ma il partito di Berlinguer non fa opposizione.
Tra i simpatizzanti di sinistra, qualcuno è contento, ma molti no. Che senso ha arrivare così vicino a vincere se poi si aiutano gli avversari a governare?
Il PCI risponde che sono tempi difficili, che la situazione è drammatica e che c'è bisogno di unità e di responsabilità.
La risposta però arriva dalle piazze ed è un netto e brutale no.
Abbiamo detto che il PCI ha cercato di convincere i suoi elettori parlando di responsabilità.
Ma in che senso?
Nel senso che, nella seconda metà degli anni 70, dopo un periodo di grande crescita economica per l'Italia arriva un periodo di flessione.
Causato dalla crisi del petrolio che in quel periodo mette in ginocchio tutto il mondo occidentale.
Nella vita di tutti i giorni, questo significa meno riscaldamento nelle scuole, città più buie, meno lavoro nelle fabbriche.
Questo porta disagi e difficoltà, soprattutto ai gruppi sociali che già soffrono di più. Le persone più povere, gli operai, i disoccupati, gli studenti.
A loro, che sono quasi tutti di sinistra e quasi tutti votano PCI, il loro partito chiede di fare un sacrificio e di accettare l'austerità.
E molti rispondono: austerità un corno. Perché dobbiamo essere sempre noi a pagare?
La diffidenza arriva soprattutto tra gli studenti e i giovani operai.
Alcuni decidono di lottare, altri semplicemente di godersi la vita al massimo e non interessarsi a niente.
Da questo humus nasce quello che oggi chiamiamo il Movimento del 77.
Lo chiamiamo così perché è esploso nel 1977 ed è finito nello stesso anno. Chiamarlo Movimento però è una semplificazione.
Erano quasi tutti giovani, quasi tutti di sinistra, quasi tutti convinti degli stessi ideali, ma non c'era una vera unità interna.
Il Movimento infatti era fatto di tanti piccoli gruppi, ognuno con la sua identità e i suoi principi, e le differenze non mancavano.
C'erano gruppi apertamente violenti. Quelli che andavano alle manifestazioni facendo con le dita il gesto di una pistola. O a volte, portandola davvero una pistola.
C'erano gruppi dichiaratamente non violenti, che avevano un approccio puramente edonistico, anche a costo di arrivare all'autodistruzione.
C'erano gruppi femministi che contestavano il ruolo della donna nella società italiana, paritaria sulla carta ma patriarcale nella realtà.
C'erano quelli che organizzavano rapine nei supermercati e le chiamavano espropri proletari.
Insomma, c'è un enorme trambusto tra i giovani di sinistra. Il PCI, che ora pensa ad appoggiare da fuori un governo moderato, non capisce la forza di quel movimento, non riesce a parlarci, non sa e non vuole rappresentarlo.
E questo porta i giovani a una radicalizzazione ancora più estrema.
Li porta a usare parole forti. E le parole diventano velocemente atti. Proteste, risse, e infine anche morti.
In particolare, in tre momenti chiave.
Tra gennaio e febbraio del 1977, all'Università La Sapienza di Roma la tensione si taglia con il coltello. I gruppi della sinistra radicale e quelli della destra radicale combattono una specie di guerra civile tra le aule dell'ateneo romano. Gli studenti di sinistra occupano le facoltà, quelli di destra provano a cacciarli con l'uso delle armi, quelli di sinistra rispondono e si va avanti così.
Dal mondo politico arrivano condanne bipartisan. Ci sono le critiche dal centro e dalla destra, com'è normale, ma anche quelle dei deputati e senatori del PCI.
Per gli studenti, e gli operai che lottano insieme a loro, è la goccia che fa traboccare il vaso. Da tempo sospettavano che il PCI fosse diventato un partito come gli altri. E quella di quei giorni è la conferma.
Il partito comunista, da parte sua, tenta una mediazione.
Il 17 febbraio del 1977 organizzano un comizio politico proprio alla Sapienza. Il protagonista sarà Luciano Lama, il segretario della CGIL, il più grande sindacato italiano e molto legato al Partito Comunista.
Solo che gli studenti di ascoltare Lama non ne vogliono sapere. Per loro è l'ennesimo vecchio in giacca e cravatta che gli vuole dire cosa devono fare.
Lama a stento inizia il suo discorso, mentre gli studenti cantano cori offensivi verso di lui e poi cominciano anche a tirargli addosso delle pietre. Il sindacalista è costretto a scappare.
E questo è solo l'inizio.
L'11 marzo di quello stesso anno, a Bologna, le cose vanno ancora peggio.
La città emiliana è una città dove il PCI è fortissimo.
Ma è anche una città piena di studenti sempre più arrabbiati e radicali.
Quel giorno di marzo, all'università di Bologna dovrebbe tenersi il convegno di Comunione e Liberazione, un'organizzazione cattolica conservatrice molto influente.
Gli studenti di sinistra provano a sabotare il convegno e in poche ore scoppia il caos.
Scoppiano risse furibonde con lanci di pietre, pugni, calci. E poi anche proiettili.
Quel giorno muore uno studente comunista, Francesco Lorusso, colpito da un proiettile alla schiena probabilmente sparato da un carabiniere.
La morte tragica di Lorusso convince gli studenti che quella è diventata una guerra, tra loro e lo Stato.
E lo Stato, da parte sua, non fa niente per convincerli del contrario. Anzi. Il ministro degli interni, il democristiano Francesco Cossiga, nei giorni successivi alla morte di Lorusso, decide di mandare a Bologna l'esercito con i carri armati.
Comincia una fase di repressione molto dura. Polizia ed esercito arrestano molti militanti. Attaccano e distruggono la sede di una piccola radio libera di Bologna, Radio Alice, che in quei giorni fa la cronaca degli scontri.
Gli studenti e gli altri gruppi del movimento cominciano ad attaccare personalmente il ministro Cossiga. Scrivono sui muri delle città il suo nome con la K al posto della C e le due S disegnate come due fulmini. Come nel simbolo delle SS naziste. Il riferimento è chiaro.
Cossiga comunque decide di vietare qualsiasi manifestazione di piazza non autorizzata dal governo.
Due mesi dopo si svolge una di queste manifestazioni. La organizza il Partito Radicale, un partito politico liberale, liberista e libertino. A differenza delle proteste dei mesi precedenti, questa volta è davvero un corteo pacifico. Ma il governo decide comunque di mandare 5000 poliziotti a controllare la situazione.
Una situazione che inevitabilmente diventa molto tesa, è impossibile tenerla sotto controllo. Iniziano gli scontri, il lancio di sassi, molte persone vanno nel panico e provano a scappare.
Tra loro c'è una giovane studentessa romana, si chiama Giorgiana Masi. A un certo punto, mentre corre, improvvisamente cade a terra. Non è inciampata. Qualcuno le ha sparato. La portano in ospedale, ma è troppo tardi. Giorgiana Masi è morta.
Chi ha sparato? Bella domanda.
Il ministro Cossiga dà la colpa al cosiddetto “fuoco amico”. I manifestanti rispondono che è stato uno dei tantissimi poliziotti in borghese che si erano mimetizzati con i manifestanti.
Comunque sia, la morte di Giorgiana Masi mette una pietra molto pesante sopra il bilancio finale del 77.
Quel clima radicale ha portato creatività, energia, voglia di partecipare, ma anche morti, violenza e paura.
Il Movimento del 77 si chiude con un evento a Bologna dove si incontrano tutti i gruppi attivi quell'anno. È un modo per dirsi addio, per chiudere un'esperienza brevissima, ma anche intensissima, che ancora oggi è difficile presentare bene.
La parte più libertina del movimento del 77 apre la strada al consumo di droghe pesanti. La ricerca di un piacere puro e proibito è il primo passo che porta un'intera generazione nel tunnel mortale dell'eroina.
La parte più politica del movimento, invece, permette in qualche modo la legittimazione della violenza.
Ma di questo parleremo un'altra volta.