#74 – La nascita della Repubblica italiana
Trascrizione dal podcast Salvatore racconta, episodio pubblicato il 6 agosto 2022.
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L'Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro.
Comincia così, con queste esatte parole, l'articolo 1 della Costituzione italiana. La base di tutte le leggi che oggi esistono in Italia.
Sono parole che quasi tutte e quasi tutti conosciamo a memoria. Le abbiamo imparate a scuola, viste e ascoltate alla radio o in tv, sentite proclamare durante discorsi e comizi.
Parole importanti e solenni che sembrano eterne.
Tuttavia, eterne non lo sono affatto. Hanno una data di nascita molto precisa, e nemmeno così lontana.
Risalgono al primo gennaio del 1948, il primo giorno di vita della Costituzione. E sono il frutto di un anno e mezzo di lavoro intenso, che è a sua volta il frutto di anni di riflessioni, compromessi e scontri.
Fino a tre anni prima non era affatto scontato che l'Italia sarebbe diventata una Repubblica. Anzi, non era affatto scontato fino a poche settimane prima che si cominciasse a scrivere la Costituzione.
La scelta l'hanno presa gli italiani e, per la prima volta nella storia, anche le italiane. Con un referendum tenutosi il 2 giugno del 1946 e che poneva una domanda molto semplice: la nuova Italia dovrà essere una monarchia o una repubblica?
Oggi sappiamo com'è finita, ma la storia di quegli anni concitati non è semplice come può sembrare.
È una storia interessante e anche importante per capire chi sono gli italiani oggi. A partire da quello che hanno scelto il 2 giugno del '46 tra monarchia e repubblica.
Iniziamo dal contesto. Se fai fatica a capire alcuni riferimenti, ti invito ad ascoltare prima l'episodio 60 di Salvatore racconta dedicato alla seconda guerra mondiale dell'Italia.
Perché la storia della nascita della repubblica parte dagli ultimi anni della guerra. L'8 settembre del 1943, il re Vittorio Emanuele III esautora Benito Mussolini dal ruolo di Presidente del Consiglio.
Il nuovo capo del governo è il generale Pietro Badoglio che firma la resa dell'Italia nella guerra. In poche parole, l'esercito italiano non combatterà più a fianco della Germania nazista contro gli angloamericani, che nel frattempo hanno occupato il sud Italia.
Il giorno dopo, il 9 settembre, il re e il governo scappano da Roma per rifugiarsi al sud protetti dagli americani, mentre tutto il centro-nord Italia è lasciato in balia dei tedeschi -ex alleati e ora nemici- e dei nostalgici di Mussolini che fondano uno Stato collaborazionista chiamato Repubblica Sociale Italiana. Mentre al sud la guerra è praticamente finita, nel centro-nord sono attivi gruppi di resistenza partigiana che combattono contro i nazisti come possono in attesa dell'arrivo degli angloamericani.
L'organizzazione della resistenza è in mano ai partiti antifascisti riuniti dentro un'organizzazione chiamata CLN, Comitato di Liberazione Nazionale. Il loro compito al centro-nord è di coordinare la resistenza, e al sud di preparare il terreno per l'Italia che verrà dopo la fine della guerra.
I partiti del CLN sono molto diversi tra loro. Ci sono comunisti, socialisti, liberali, democristiani. Fra pochi anni si guarderanno in cagnesco, ma per ora sono insieme uniti contro il fascismo nemico della democrazia. I dirigenti di questi partiti, quando ancora la guerra non è finita, costituiscono dei governi di emergenza, ma soprattutto si interrogano sulla forma che avrà la nuova Italia.
Dicevamo che sono uniti dall'odio per il fascismo, ma non è solo quello. Condividono quasi tutti un sincero disprezzo per la monarchia, e in particolare per il re attualmente sul trono, Vittorio Emanuele III. Perché il sovrano è responsabile di alcune cose molto gravi: ha permesso l'ascesa del fascismo, ha firmato le leggi razziali contro gli ebrei, ha approvato la disastrosa entrata in guerra dell'Italia. Poi sì, è vero, l'8 settembre ha fatto cadere il fascismo. Ma solo dopo che le prime bombe americane avevano ucciso migliaia di civili, e poi ha fatto subito armi e bagagli ed è scappato lasciando Roma, la capitale, in mano ai nemici.
Insomma, nel CNL sono tutti convinti che il re sia troppo compromesso con il fascismo. Sarebbe impresentabile nella nuova Italia.
Alcuni ministri, in particolare quelli comunisti e socialisti, sono molto netti: il problema non è Vittorio Emanuele III né la dinastia Savoia. Il problema è la monarchia in sé, come istituzione. L'Italia, se vuole essere democratica e tagliare i ponti con il fascismo, deve essere una repubblica.
Anche i partiti più moderati la pensano così, ma all'inizio trattano il re con i guanti di velluto. Perché sono consapevoli che i loro futuri elettori saranno contadini, preti, persone semplici e tradizionaliste che hanno sempre visto nel sovrano un simbolo immutabile. Quindi ok, facciamo questa cosa, ma andiamoci piano.
Anche perché, come diciamo in italiano, tra il dire e il fare c'è di mezzo il mare. Dire ‘facciamo la repubblica' è facile, ma come si può mettere in atto una cosa così?
Si decide di aspettare la fine della guerra e la liberazione. Per vedere poi, con calma, cosa fare.
Intanto però una cosa si può e si deve fare. Cioè, convincere Vittorio Emanuele III perlomeno a lasciare il posto al figlio, Umberto II. È un passaggio necessario. Serve che l'uomo co-responsabile del fascismo faccia un passo indietro.
Vittorio Emanuele III non ci pensa nemmeno ad abdicare, ma infine accetta un compromesso offerto dai partiti antifascisti e presentato al re da quello che allora era un famoso giurista napoletano e soprattutto fedele monarchico, Enrico De Nicola. Segnatevi questo nome.
De Nicola, a colloquio con il re, lo convince ad accettare una soluzione che vada bene a tutti. Tecnicamente, sarà ancora lui il Re d'Italia. Ma passerà i poteri formali a suo figlio, con il ruolo di Luogotenente del regno non appena le truppe alleate libereranno a Roma.
Poche settimane dopo, il governo formato dai partiti antifascisti emette un decreto che cancella lo Statuto albertino, ovvero la costituzione allora vigente in Italia, e dichiara che i cittadini e le cittadine sceglieranno le forme istituzionali della nuova Italia attraverso l'elezione di un'assemblea che avrà il compito di scrivere la nuova Costituzione. Insomma, si apre l'idea che dopo la guerra scelgano gli elettori e non il governo.
Quando e come, però, quello è un altro paio di maniche. Anche perché, la coalizione antifascista è divisa su tanti temi. Non è facile trovare una quadra. Ci riesce alla fine l'uomo chiave di questa fase politica. L'ultimo presidente del consiglio del Regno d'Italia e il primo presidente del consiglio della repubblica italiana. Alcide De Gasperi.
De Gasperi all'epoca è il segretario della Democrazia Cristiana, ha contatti personali con il Papa ed è l'interlocutore preferito degli alleati angloamericani, che non vedono di buon occhio i partiti di sinistra della coalizione. L'idea del referendum arriva proprio da De Gasperi, capisce che una decisione così importante sulle istituzioni deve spettare alla popolazione e non al governo.
Nel frattempo, la guerra è finita, Mussolini è morto e ci sono le condizioni per pensare con calma al futuro.
Gli italiani e le italiane voteranno per un'assemblea costituente, sceglieranno cioè i loro rappresentanti per scrivere la costituzione. Ma lo stesso giorno, sceglieranno loro direttamente tra monarchia e repubblica.
Si trova anche una data. Si voterà il 2 giugno 1946.
Nell'Italia liberata, l'idea viene accolta con grande entusiasmo. Tutti hanno voglia di votare, dopo che per vent'anni, sotto il fascismo, non è stato possibile.
Ma per chi voteranno gli italiani e le italiane? La sensazione generale è che la repubblica sia in grande vantaggio. Soprattutto al centro-nord, dove l'abbandono del re ha causato tre anni di sanguinosa guerra civile, molti non vedono l'ora di sbarazzarsi della monarchia.
A quel punto, il 9 maggio, il re Vittorio Emanuele III tenta un colpo di coda. Decide di abdicare e lasciare il trono a suo figlio Umberto II. Questa volta, in modo completo. Probabilmente spera che gli elettori più conservatori possano apprezzare il suo gesto e che scelgano comunque di mantenere la monarchia.
Nel frattempo, arriva il 2 giugno. Alle 8 del mattino aprono i seggi e si inizia a votare. L'affluenza è altissima, vanno a votare in tanti. La grande novità è la partecipazione delle donne, coinvolte per la prima volta nella storia italiana per delle elezioni nazionali.
Nella notte, arrivano a Roma i primi risultati. Vengono comunicati per primi i dati del sud Italia, che lasciano di stucco i dirigenti antifascisti. Moltissimi voti sono per la monarchia. Al governo credevano di avere la vittoria in tasca, e invece rischiano la beffa. Più tardi, arrivano però anche i voti del nord a riequilibrare il conteggio. È una notte complicata, i dati arrivano a spizzichi e bocconi e non sono chiari.
Nei giorni successivi, i giornali sono cauti. Nessun titolo dice niente di ufficiale. Fino al 5 giugno. Tre giorni dopo il voto.
Quel pomeriggio, il ministro dell'interno dichiara i risultati ufficiali. Per la repubblica hanno votato poco più di 12 milioni di elettori ed elettrici. Per la monarchia, poco più di 10 milioni. E dunque, ha vinto la repubblica, no?
Non è così semplice. In teoria, per convalidare il dato è necessario conoscere anche il numero di schede bianche e schede nulle. Non basta che la repubblica abbia avuto più voti, ma deve avere raggiunto il 50% + 1 dei consensi.
C'è molta tensione. I monarchici accusano i repubblicani di brogli, cioè di avere cambiato illegalmente il risultato del voto. I giornali intanto iniziano a usare titoli più precisi e diretti. Per loro è chiaro che ha vinto la Repubblica. C'è solo un problema. Il nuovo re, Umberto II, non è d'accordo.
Per i partiti al governo, il risultato è chiaro. Con o senza le schede bianche e nulle, la repubblica ha vinto e il re deve farsi da parte.
I monarchici continuano ad accusare i repubblicani di brogli. Sanno di essere tanti. Molti più di quanto loro stessi pensassero. In alcune città, ci sono addirittura scontri e tafferugli. La situazione è tesa.
Poi per fortuna, il 13 giugno, Umberto II accetta la sconfitta. Emana un proclama molto duro contro il governo, ma dice che abbandonerà l'Italia per evitare ulteriori scontri tra la popolazione. Quel pomeriggio, prende un aereo diretto a Lisbona. È stato Re d'Italia per 34 giorni. L'ultimo.
Il giorno successivo, viene dato il risultato ufficiale. L'Italia è una repubblica.
I dati elettorali, tuttavia, mostrano un'altra cosa. La repubblica ha vinto per due milioni di voti, ma lo ha fatto solo grazie al centro-nord. In Campania, in Sicilia, in Calabria, il risultato della monarchia è nettamente superiore. In parte è dovuto al fatto che al sud la guerra è effettivamente finita prima, e pochi hanno vissuto sulla loro pelle la guerra civile arrivata dopo l'8 settembre. In parte, invece, è il sintomo politico del fatto che l'Italia meridionale è mediamente più tradizionalista e conservatrice, cosa che dura ancora oggi.
Insomma, con il voto del 2 giugno, ufficializzato il 18 dello stesso mese, l'Italia diventa ufficialmente una Repubblica, ma a questo punto chi è il Capo dello Stato? Non c'è più un Re, e dunque servirebbe un Presidente. Solo che la Costituzione non è stata ancora scritta, e quindi la carica di Presidente non esiste ancora.
Si decide allora di nominare una figura di passaggio, un Capo Provvisorio dello Stato che poi sia anche il primo -vero- Presidente della Repubblica. In quest'occasione, i capi repubblicani del governo prendono una decisione di grande lucidità politica. In una situazione di così grave spaccatura della nazione, con il sud Italia che ha votato in massa per la monarchia, scelgono proprio un monarchico del sud. Il napoletano Enrico De Nicola.
Dove lo abbiamo già sentito nominare? È l'uomo che anni prima aveva proposto al Re Vittorio Emanuele III il compromesso per salvare la faccia. E ora, da monarchico e amico dell'ex-sovrano, si prepara a diventare il primo volto della Repubblica italiana.
Il primo di una storia complessa, con tante luci e tantissime ombre. Una storia che, però, racconteremo un'altra volta.