×

Utilizziamo i cookies per contribuire a migliorare LingQ. Visitando il sito, acconsenti alla nostra politica dei cookie.


image

Dialoghi fra generazioni, CULTURA DI MASSA

CULTURA DI MASSA

Eccoci qui, buonasera a tutti e benvenuti al settimo incontro di Interregno, che per

chi di noi ci segue è uno spazio di confronto intergenerazionale in cui si cerca di capire

quali sono le differenti opinioni e differenti punti di vista tra generazioni, quindi tra

passato, presente e futuro.

Grazie come sempre ai editori La Terza che ha creato questo spazio e che ci ospita e

grazie ai nostri ospiti che questa sera sono Ilde Forgione, creativa del team di TikTok

delle Gallerie degli Uffizi e PhD, perché poi ci racconterai anche in che cosa hai un

PhD, Virginia Ricci, creative writer, e Alberto Banti, storico e professore.

Quindi grazie a voi per essere qui stasera.

Io faccio una piccolissima introduzione ma sarà molto breve perché non vedo l'ora di

ascoltare le vostre opinioni.

Ho letto un capitolo del libro Capitalist Realism di Mark Fisher che cita una frase

che mi ha molto colpito.

È più facile immaginare la fine del mondo che immaginare la fine del capitalismo.

E lui la collega alla questione culturale, cioè si chiede come può una cultura persistere

senza il nuovo?

Cosa succede se i giovani non sono più in grado di produrre novità?

E qui arriviamo al tema di oggi, che è la cultura di massa, ma anche la controcultura,

anche la cultura underground, anche i social, anche la censura.

E ci interrogheremo oggi per cercare di capire da che parte ci dobbiamo girare perché siamo

evidentemente un po' confusi.

Partirei, nonostante appunto di solito io faccia il contrario, da Alberto.

Quindi grazie tanto di essere qui.

Nel tuo libro tu parli, dici che la cultura di massa nasce nel XX secolo negli Stati Uniti

e si trasforma presto in uno strumento di soft power.

Ci spieghi che cosa si intendeva per cultura di massa all'epoca e se questa definizione

è valida ancora oggi?

Sì, diciamo che è un processo più lungo nel senso che la cultura di massa nasce almeno

dalla metà del XIX secolo con non solo trasformazioni culturali ma anche trasformazioni tecnologiche,

innovazioni tecnologiche applicate alla stampa, la registrazione fonografica, la radiofonia,

il cinema e tante altre cose a seguire e trasformazioni sociali.

Il fatto che ci sia un mercato di massa, cioè che ci siano molte persone, uomini, donne,

che hanno un po' di soldi da dedicare all'acquisto di prodotti culturali è soprattutto fondamentale

il tempo libero.

La conquista del tempo libero, che è un bene non a disposizione di tutti nell'epoca medievale

e moderna, è una questione chiave.

Io riflettendo sulla cultura di massa ho identificato gli anni 30, del XX secolo, e le produzioni

culturali negli Stati Uniti come produzioni chiave perché mi sembra che in quel periodo

si strutturi un sistema metadiscorsivo che poi ha una lunga durata, cioè su piattaforme

mediatiche varie, attraverso generi narrativi anche molto differenti, viene costruito un

sistema discorsivo, un sistema narrativo che ha delle convergenze molto forti.

Le riassumo in questo modo.

Storie che sono organizzate intorno a un'etica molto mal idea, i buoni da una parte e i cattivi

dall'altra.

Storie che hanno un intento pedagogico, o implicito o esplicito.

Ti voglio spiegare da che parte devi andare, ti voglio spiegare qual è il bene e qual

è il male.

E una modalità narrativa non è l'unica, adesso tanto per essere un pochino sintetici,

che domina abbastanza è questa.

Una comunità armonica arriva a una minaccia, la minaccia può essere del tipo più svariato,

possono essere gli indiani, possono essere i comunisti, gli alieni, una nebbia, uno squalo,

un virus e a quel punto la comunità rischia di essere distrutta.

Interviene un eroe, o un'eroina, o un team eroico che rischiando di essere ante loro

sopraffatti però alla fine sconfiggono la minaccia, restituiscono l'armonia alla comunità

e c'è il lieto fine con una specie di mast narrativo ed etico che struttura queste narrazioni.

Non è l'unica modalità narrativa, trovo che sia però un sistema narrativo forte che

ha un grande successo negli anni 30 per le sue capacità di consolazione e di rassicurazione.

Cioè questo sistema decolla nel momento in cui la società americana, e non solo americana,

attraversa una delle pagine più tremende della sua storia, quindi con tante persone

che hanno perso il lavoro, che sono disperate, che non sanno dove sbattere la testa,

e trovano in queste narrazioni un sollievo, una rassicurazione, una pacca sulla spalla, una spinta in avanti.

Questo sistema narrativo secondo me si instaura nello spazio dell'industria culturale,

della cultura di massa in quel periodo e non ci abbandona più.

Certo, ci sono dei restyling molto importanti, le donne contano molto poco nelle produzioni,

o sono molto passive nelle produzioni narrative degli anni 30, non sono più nel mainstream di oggi,

le comunità afroamericane quasi non ci sono e poi emergono, identità sessuali e altre non ci sono assolutamente

e poi emergono, però senza mettere in discussione questa struttura metanarrativa fondamentale.

Ecco, questo secondo me, diciamo, nella più estrema sintesi è la forma, la morfologia della cultura di massa mainstream.

Molto interessante visto che Virginia prendeva appunti, quindi passo a lei.

Virginia, tu hai lavorato sia in ambito underground sia nella tv che oggi si definisce tv generalista,

secondo te la cultura di massa oggi che cos'è?

Sì, io prendo appunti perché non ho molta memoria, quindi sono abituata a fissare le cose in maniera anche abbastanza analogica su un quaderno.

Beh, la cultura di massa oggi, mi ricollego in parte a quello che giustamente diceva il professor Banti,

nel senso che oggi la cultura di massa è molto anche il payoff di YouTube, no?

Broadcast yourself, è quella tendenza non solo a usufruire di contenuti che ci vengono dati,

ma anche proprio alla creazione di un contenuto, cioè a rendere contenuto la nostra vita,

contenuto che nel peggiore dei casi, tra virgolette, può essere inteso anche come brand of content,

nel senso che le piattaforme su cui noi produciamo contenuto sono piattaforme per cui produciamo contenuto, no?

Noi utilizziamo un sacco di piattaforme appunto che sono gratuite per noi,

quando una cosa è gratuita vuol dire che in un modo o nell'altro il prodotto siamo noi, quindi c'è questo trucco.

Siamo in un momento abbastanza particolare in cui c'è una produzione di contenuto continuo e una fruzione di contenuto continuo,

tra l'altro sono contenuti che si consumano e che si concludono nel giro di 24 ore, no?

Quindi è una cultura estremamente presente nel senso proprio temporale del termine,

in cui proprio per il ritmo con cui i nostri feed vengono alimentati, no?

Anche qua c'è un paragone con la cultura alimentare molto forte su tutta la terminologia che si utilizza sui vari social,

sulle varie piattaforme, no? Noi veniamo alimentati, abbiamo una sorta di bulimia anche culturale di informazioni da cui veniamo bombardati,

che raramente, difficilmente poi si depositano e quindi tendiamo anche proprio a metabolizzare molto poco di quello che consumiamo,

al contrario di quanto, poi correggetemi se sbaglio, accadeva magari in altre epoche in cui c'era anche più tempo,

tra un'informazione e l'altra, tra un evento e l'altro, tra un prodotto culturale di cui fruivamo e l'altro,

adesso proprio il tempo ci manca perché è tutto molto forsennato nel nostro modo di fruire

e quindi questo credo che, non so se stiamo vedendo già le conseguenze poi di questo modo di fruire della cultura,

però io temo molto che proprio questa, si possa perdere una sorta di conseguenzialità anche del pensiero,

una sorta di concetto del prima e dopo, no? Di causa-effetto, di anche corsi e ricorsi storici,

poi c'è uno storico qua che può chiaramente, può confutare tutto quello che dico,

però penso che questo poi si veda anche molto nel modo in cui noi ci approcciamo alle battaglie che viviamo,

le lotte sociali e politiche a cui ci approcciamo, no?

Per cui sembra tutto molto scollegato da una temporalità più ampia e tutto molto consumabile nell'immediato, ecco.

Quindi...

Sì, assolutamente. Volevo tradurre soltanto i termini che avevi utilizzato in inglese perché giustamente

magari qualcuno non li conosce, soprattutto sono dei termini molto specifici.

Broadcast yourself, correggimi se sbaglio Virgi, significa trasmettiti, cioè mettersi, diciamo,

essere i primi a mettersi in trasmissione, a produrre il contenuto sei tu, fondamentalmente.

Mentre l'altra parola che credo non fosse chiarissima magari per alcuni perché è più un termine tecnico è branded content.

Non so se puoi spiegare un attimo che cos'è.

Beh, il branded content è un contenuto, diciamo, che è riconducibile a un brand, ovvero un marchio,

e che quindi è un contenuto che non è valido di per sé ma è valido anche in relazione a qualcosa,

ad un universo, diciamo, di profitto a cui fa riferimento.

Quindi, ad esempio, io sono testimonial di un marchio di, non lo so, mutande,

e quindi nel momento in cui io parlo di qualsiasi cosa, parlo di un libro, parlo della mia giornata,

non sono soltanto io che parlo e il contenuto non è soltanto la mia giornata,

ma in qualche modo si riferisce anche a tutti i valori del brand di mutande che io rappresento.

Non so se l'ho spiegata bene, però ecco questo è un po' il branded content.

Assolutamente.

Mutande come esempio.

È un esempio chiaro, diciamo che mutande sappiamo tutti cosa sono, quindi mi sembra utile.

Ma a proposito di branded content, ma soprattutto di contenuto,

Ilde, voi con la Galleria delle Uffizie avete fatto una campagna veramente molto interessante,

avete usato un tipo di comunicazione di massa, quindi la musica, i trend, dei personaggi particolari,

facendo incontrare in qualche modo, mi dicevi, la cultura più bassa e la cultura più alta,

tra virgolette, ovviamente anche in chiave ironica, in chiave divertente.

Qual è l'idea dietro a questa campagna?

Noi avevamo un obiettivo molto chiaro, che è stato il principio guida, ed è ancora il principio guida,

in tutto quello che facciamo per la comunicazione su TikTok.

Cioè quello di avvicinare al museo un pubblico ampio, un pubblico che tradizionalmente è distante.

Il modo da sensibilizzare, cioè è proprio una funzione sociale quella che ci siamo immaginati,

e volevamo sensibilizzare i ragazzi, le prossime generazioni all'arte.

E questo perché? Perché pensiamo che i giovani di oggi saranno i professionisti, i politici, gli studiosi,

e comunque i cittadini di domani.

Per cui è importante che ci sia una percezione del valore delle opere d'arte, del valore del patrimonio artistico,

e che attraverso uno strumento più leggero, loro si avvicinino a questa sensibilità,

e iniziano a percepire la necessità di tutelare, di tramandare il patrimonio culturale.

Non è chiaramente una necessità imminente, però chiaramente gli uffizi saranno tutelati dalla legge,

nella storia, perché è così dal 1700, però ci serve a sviluppare una sensibilità,

che poi loro avranno anche ad esempio per i monumenti della loro città, per gli spazi della loro città.

Quindi ci serve, ci serviva un approccio più libero per far sì che la fascia 15-25

sia interessata a qualcosa che può anche non essere interessata.

Perché può essere non interessata? Perché non tutti a scuola studiano storia dell'arte,

lo si fa in modo proprio giocoso, col disegno, all'elementare, lo si fa parzialmente alle medie,

alle superiori mi risulta sia solo nei licei, e quindi chiaramente non tutti hanno un approccio scolastico all'arte.

E non tutte le famiglie hanno questa sensibilità, e per rendere più democratica,

per portare alla portata di tutti l'arte, bisogna che gli musei si inseriscano in questo percorso.

Chiaramente i musei hanno i loro servizi dattici, ma per avere un approccio multilivello,

un approccio che non si concentri soltanto su una tipologia di messaggio e su un certo tipo di impostazione,

ci serviva usare anche un linguaggio che non fosse quello proprio nostro.

E quindi abbiamo utilizzato il loro linguaggio, cioè siamo andati negli spazi che i ragazzi utilizzano per comunicare

e abbiamo imparato a usare il loro modo di comunicare.

Ci interessava che poi questo dialogo virtuale che si stavolava tra noi e loro, diventasse una visita reale,

cosa che poi in effetti è successo, e eventualmente poi dopo se volete approfondirò a questo punto.

Ed è stato un approccio sperimentale in questo senso, perché non era mai stato fatto prima, non ci risulta,

e credo che siamo stati primi a usare questo modo nuovo di comunicare, scanzonato, ironico, divertente,

senza necessariamente volere insegnare qualcosa.

L'approccio dell'insegnamento è riservato ad altri canali del museo e ad altre istituzioni.

A noi interessava essere percepiti come una parte di quella comunità, cioè della comunità dei ragazzi Under 25,

e lo potevamo fare soltanto usando la loro comunicazione di massa, appunto,

quindi i loro codici comunicativi, perché di veri e propri codici comunicativi si tratta.

E ci serviva per suscitare poi un interesse personale, quindi non qualcosa di ecro diretto,

ma qualcosa che fosse interiorizzato, un bisogno che venisse da ognuno delle persone

e si era approcciato a noi come stimolo verso la curiosità.

Quindi la curiosità noi abbiamo cercato di suscitarla, portandoci in modo paritario,

non come istituzione lontana dalle persone e superiore e monolitica,

ma come istituzione che dialoga con le persone, che si pone a loro pare,

per fargli capire che il museo è qualcosa che è vicino ai cittadini,

non è un qualcosa di chiuso, di polveroso, di noioso.

In termini tecnici io l'ho definito public engagement,

nel senso che l'idea di avvicinare l'istituzione ai cittadini per farsi conoscere,

per far sì che la missione dell'istituzione sia apprezzata dai cittadini,

è una cosa che in termini tecnici si chiama public engagement.

E questo serve a rafforzare, per dirla in termini costituzionali e giuridici,

la coesione sociale.

Il nostro copo più o meno era questo, e ci serviva usare la cultura di massa,

altrimenti non riuscivamo a parlare con qualcuno, non ci avrebbero compresi.

È molto interessante perché in un certo senso voi siete arrivati ai giovani dall'alto,

con un tipo di cultura più alta, vi siete avvicinati ai giovani.

In realtà, sempre in Wonderland del professor Banti,

si parla della contro-cultura, quindi quando i giovani hanno portato fuori

un altro tipo di cultura da quella che invece era la cultura di massa.

Quindi negli anni 60 e 70 con il rock, che all'epoca era underground,

oggi non lo è più, ma all'epoca lo era.

Oggi, secondo te Alberto, esiste una contro-cultura?

Esistono molte contro-culture, non una grande frammentazione,

ma vorrei sottolineare una differenza che mi sembra significativa rispetto

all'esperienza che si costruisce tra metà degli anni 60 e metà degli anni 70.

Le produzioni contro-culturali di metà anni 60, metà anni 70,

sono produzioni contro-culturali nel senso che hanno strutture narrative,

soluzioni estetiche, orizzonti etici diversi dalle produzioni Hollywood, Disney,

ma si impongono sul mercato di massa.

Il rock dei Doors, di Jimi Hendrix o di Jefferson Airplane

non sono chiusi in spazi di nicchia né dal punto di vista della sociabilità

né dal punto di vista del mercato, vanno in testa di classifiche.

La contro-cultura non si esaurisce nella musica, nel rock,

passa al New Hollywood con il Laureato, Gangster Story, Bash Cassidy,

Easy Rider e molte altre cose.

Anche questi sono tutti film che non è che si vanno a vedere solo nelle sale riservate,

hanno un successo sul mercato, quindi è una contro-cultura che si impone sul mercato.

Poi, da metà degli anni 70, processi storici e culturali fanno sì

che questa constellazione contro-culturale imploda.

Quindi tra metà anni 60 e metà anni 70 c'è per ossomodo una geografia

prevalentemente duale della cultura di massa.

La cultura di massa mainstream, non so, Berretti Verdi, John Wayne, Mary Poppins,

tutti insieme appassionatamente, e dall'altra parte queste altre produzioni

che invece hanno strutture narrative diverse.

Che succede dopo la metà degli anni 70 quando la contro-cultura implode?

Sparisce la contro-cultura? Evidentemente no, ci sono un sacco di esperienze culturali innovative

sia dal punto di vista estetico sia dal punto di vista degli orizzonti etici che vengono seguiti.

Solo il problema è che restano chiusi nei spazi di nicchia.

Se io penso, cerco di pensare a produzioni che definirei contro-culturali e che mi sono interessate,

adesso vado a spalle, nessuna pretesa di fare una descrizione che abbia qualche senso esaustivo,

ma insomma, nel cinema, cose che mi sono piaciute dall'altro punto di vista culturale,

il ritratto della giovane in fiamme, Midsommar, The Lobster, La Favorita,

vado a vedere che tipo di risultati hanno sul mercato e li confronto con Avengers, Endgame,

ma è una roba pazzesca, non c'è proprio rapporto, hanno incassi che sono del 2-3% rispetto a Avengers,

Frozen, Maleficent e via giù con tutte le produzioni che hanno il massimo impatto.

E lo stesso credo si possa dire in altri campi, non è che non ci sono produzioni di ricerca nel campo della musica,

ce ne sono tantissime, le cose che mi piacciono a me, Jon Hustle, Super Silent, Bersh, Eliade Dig,

ma chi le ascolta queste? Siamo in cinque, in spazi molto ridotti di Spotify

e siamo sommersi da tutte le proposte che Spotify ci fa e che ci manda invece nella direzione che è quella mainstream.

Quindi ci sono proposte controculturali simili a quelle che si formano negli anni 60-70 ma sono ridiche.

Al tempo stesso trovo che ci siano altre controculture che sono abbastanza forti e che circolano abbastanza

soprattutto nei media, nei social, su internet e sono delle controculture, adesso metto un'etichetta

che probabilmente non è soddisfacente, ma tanto per intenderci, che si ispirano a una sorta di razionalismo di destra,

cioè a strategie del complotto, a paradigmi del complotto, paranoia complottistica,

rifiuto di accedere agli standard, ai protocolli di verifica delle notizie che fanno parte poi della cultura scientifica,

della migliore cultura scientifica con la quale dialoghiamo.

Da Panon ai Patrioti Trampiani a, in ambito locale nostro, le ricostruzioni neoborboniche del processo

di unificazione nazionale o fino a un po' di tempo fa, le ricostruzioni delle identità celtiche

che avrebbero caratterizzato l'area padana, ora poi la Lega è diventata un partito neonazionalista

su scala nazionale, tutta questa roba qui l'ha lasciata perdere.

Oppure ancora più pericolose, le reti islamiche radicali, quindi c'è anche questo...

Ecco, credo che descrivendo l'orizzonte delle controculture nel 2021 dobbiamo considerare anche questi aspetti,

anche questo tipo di spazi di sociabilità che mi sembra sono forti, anzi forse per essere proprio provocatori al massimo,

forse la controcultura è più di destra che di sinistra in questo momento, più irrazionalista che nazionalista,

più con un impianto antiscientifico paranoico che con altri orizzonti, tenderei a dire così.

È veramente interessante anche perché ha stravolto in qualche modo le nostre aspettative e le basi del sistema a cui eravamo abituati,

ma mi interessava questo aspetto politico perché secondo me non c'è soltanto questo aspetto,

ma c'è anche un altro legato più di nuovo ai brand e ai marchi, alle aziende.

Infatti, Virginia, quello che volevo chiedere a te è un po' di ragionare insieme su questa contraddizione

che è il fatto che spesso in questo momento i brand e quindi i marchi, le aziende,

si ritrovano proprio per farsi pubblicità ad appoggiare delle battaglie,

che sono le battaglie per i diritti, quelli che in qualche modo avrebbero potuto rappresentare una controcultura.

Sono d'accordo che sia difficile in questo momento fare una sorta di controcultura da sinistra

senza essere destinati a parlare soltanto a una nicchia che ha anche dei codici comunicativi,

come dice giustamente Hilde, che bisogna tenere in considerazione, nel senso che da un lato i codici comunicativi

di un certo tipo di sinistra militante sono spesso ancora appartenenti a un immaginario che non è neanche più di questo secolo

e quindi da un certo punto di vista fanno fatica a rinnovarsi anche per una serie di complessità

che appartengono proprio agli ambienti militanti, nel senso che giustamente il linguaggio che si usa deve essere complesso

così com'è complesso poi il pensiero della sinistra, metto un cappello molto largo,

però la sinistra ha tante identità, proprio perché non c'è un nemico, non è che si può dire il nemico sono questi,

il nemico alla fine è il capitale e quindi già è complicato da spiegare così.

Quindi ci siamo ritrovati ad avere un concetto di militanza e di attivismo che in questo momento è contro culturale,

nel senso che ovviamente è progressista e quindi va contro un vecchio impianto culturale, diciamo patriarcale

o di un certo tipo di disparità sociali che adesso è anche però conoscenza comune e anche sentire comune,

che sia da superare in un certo senso, poi non so mai quanto sia sentire comune o quanto io poi mi riferisca sempre alla mia bolla

perché poi bisogna tenere conto anche di questo.

E quindi per portare avanti determinate istanze ci sono dei luoghi e ci sono anche dei sistemi comunicativi che si utilizzano,

che tendenzialmente tentano di essere più contemporanei, proprio come l'operazione che ha fatto Ilde con l'arte alcune persone in questo momento,

ma poi soprattutto la pandemia ci ha portato molto ad aumentare questa tendenza comunicativa e anche ad attivare la nostra coscienza individuale.

Mi ricollego anche a un concetto che esprime anche Banti nel suo libro sulla democrazia dei followers, cioè la responsabilità personale.

La pandemia ci ha responsabilizzato personalmente, quindi anche io mi sento personalmente responsabile di tutte le battaglie che rappresento.

Quindi se io sono femminista sono io in prima persona che devo dimostrare il mio femminismo.

Questa cosa si fa molto sui social network e questo tipo di comunicazione, anche di valori che non so neanche più se definire controculturali,

è diventata molto diotta per un sistema che riconduce tutte le lotte a logiche di profitto.

Quindi si parla molto anche di rappresentazione, come se fosse uno degli obiettivi della lotta.

Se io voglio che la lotta per i diritti omosessuali abbia poi delle ricadute concrete, deve passare per forza per una rappresentazione di diversità, di inclusione, ecc.

E quindi questa pressione sociale, social, è stata presa da chi vuole fare profitto, quindi i brand,

che hanno visto che in questo c'è una strada che conviene battere per poi ritornare ad avere quello che loro vogliono, ovvero persone che comprano.

Quindi sono diventate anche in un certo senso determinate battaglie delle strategie di marketing.

E questo in questo momento è un territorio molto aperto alle contraddizioni, nel senso che da una parte si sposta avanti il discorso progressista anche in questo modo,

ovviamente per una persona, faccio un esempio, afrodiscendente che abita in Italia e che per tutta la sua vita ha visto rappresentato nei media un canone di un certo tipo,

vedere che pubblicità, che sulle piattaforme di streaming più famose ci sono adesso rappresentate persone che sono simili a quello che ci rappresenta, insomma che vediamo che sono come noi,

è già un passo avanti rispetto a non vederne, perché poi ti senti anche sbagliato se non vedi che intorno ci sono persone come te, se non vedi rappresentate persone come te.

Dall'altra parte c'è anche questo paradosso della rappresentazione, ne parla anche Elisa Kuter nel libro che io consiglio sempre a tutti di leggere, che si chiama Ripartire dal desiderio,

ovvero che forse non basta la rappresentazione perché c'è tutto anche poi un tema di diritti più economici, più materiali che vanno oltre quello che è un sistema di rappresentazione,

e poi la rappresentazione è anche artisticamente un cul de sac, un vicolo cieco in alcuni casi, nel senso che proprio creativamente, a livello di apporto creativo,

vuole rappresentare sempre la realtà e mai poi il disturbante anche, ad esempio qualcosa che mi dà fastidio, io penso sempre a un film che si chiama M. Il mostro di Dusseldorf,

in cui viene rappresentato un pedofilo che subisce un processo da parte di una comunità di delinquenti e tu non sai alla fine da che parte stare, questo è anche il potere dell'arte, portarti oltre a quello che ti rappresenta,

oltre a quello che sei, ma facendoti anche immedesimare in quello che ti fa schifo, e per me questo è anche politica in un certo senso, provare a portarti fuori da te, in questo momento è molto invece anche la lotta, è molto immedesimazione,

è molto espressione del se, però il se parla sempre con altri se simili, quindi anche per questi meccanismi social, delle bolle, degli algoritmi che ti rafforzano sempre quello che tu pensi, tu dici ok io parlo sempre con i miei simili, in che modo poi riuscirò a parlare più con chi non la pensa come me?

In questo senso ILDE ha fatto esattamente questo, ILDE e non solo ovviamente tutta la galleria degli uffizi, però si sono occupati diciamo di utilizzando l'algoritmo che a volte appunto si dice rende schiavi, essere schiavi dell'algoritmo,

però grazie a questo algoritmo e grazie a questo trick, a questo modo di funzionare loro sono riusciti a in qualche modo democratizzare anche l'arte, giusto?

Sì, io credo che ci voglia una grandissima cultura per fare quello che noi facciamo, infatti lo facciamo in diversi, ci occupiamo tutti di piccole parti, io ho una mia cultura personale, tra l'altro sono una grandissima fan di L'Antimos, quindi io personalmente sono in minoranza, poi faccio cose mainstream e sono un po' in contraddizione con me stessa,

però credo fino ad un certo punto, perché chiaramente noi non controlliamo l'algoritmo, però in un certo senso si può sfruttare l'algoritmo per democratizzare l'arte o almeno è quello che proviamo a fare noi, in che senso?

Nel senso che noi cerchiamo di inserirci nel mainstream attraverso il trend, attraverso la musica, gli hashtag e tutte quelle cose che sono tipiche di TikTok, perché poi ci vorrebbe una puntata soltanto per spiegare come funziona TikTok che è molto molto diverso dagli altri social, uno si inserisce in un canale comunicativo però per passare un messaggio e quindi lo pieghi a tuo favore in un certo senso,

sei schiavo perché ti devi inserire nei filoni, però all'inserirti nei filoni ti consente di passare il tuo messaggio e quindi è un do to this, in un certo senso è un gioco alla pari.

Come si fa questo? Si fa appunto intorno a quello che ho detto prima, cercando di indovinare i codici comunicativi, cioè cercando di comprenderli e cercando di essere aperti e di capire senza pregiudizi quello che può essere il tipo di comunicazione o quello che ci si aspetta da un video su TikTok.

Per chi non sapesse che cos'è TikTok, perché anche io devo ammettere non è che proprio sia una regina, una queen del TikTok, come funziona? Prima dicevi è diverso dagli altri social, ma perché?

Si è molto molto diverso perché non funziona per bolle, lui ha una doppia sezione sullo schermo che tu vedi in cui ci sono i per te che sono le cose che l'algoritmo seleziona e poi ci sono i seguiti, praticamente tutti guardano i per te, quindi scrollano, passano da un video all'altro nella sezione dei per te,

quindi l'algoritmo ti suggerisce delle cose in base alle tue preferenze, però in modo molto molto vario e quindi non è come su Instagram ad esempio, che tu hai la tua cerchia di amici e guardi le loro stories e scorri il feed e hai soltanto le persone che conosci e che segui, o come Facebook ancora più chiuso,

veramente come navigare in mare aperto a vista, si può venire in contatto con qualsiasi realtà. Per cui questo aiuta a uscire dalla logica della bolla, e quando i nostri video hanno successo, diventano virali, lo fanno fuori da quelli che normalmente ci seguono, che sono credo 70 mila abbiamo follower o una cosa del genere,

quindi non me lo ricordo con esattezza. E questo ti permette appunto di arrivare, grazie all'algoritmo, là dove altrimenti non saresti arrivato, perché qualcuno avrebbe dovuto neanche cercarti.

Negli altri social, a parte i suggerimenti sulle amicizie, sulle pagine a seguire, però non ti arriva qualcosa che non conosci e non vai a cercare.

Lì sì. Quindi questo ti consente, effettivamente, se un video funziona, funziona appunto significa rispetto ai requisiti che quel social ritiene, che debbano essere presenti in un video, viene proposto anche a chi non ti aspetti.

Questo con noi è successo diverse volte e c'è stato molto utile, per ricollegarmi a quanto detto prima, per passare dei messaggi proprio in senso di inclusione.

Ora noi siamo un'istituzione culturale, quindi non facciamo politica, però possiamo dare, possiamo porci a supporto dei diritti, dei diritti sociali e dei diritti civili.

Questa battaglia la facciamo sull'omosessualità, quindi di sensibilizzazione rispetto ai vari tipi di orientamento sessuale e l'abbiamo fatto con riferimento alle donne, anche quindi sui diritti delle donne.

L'abbiamo fatto con riferimento ai nani e quindi a quello che era considerato un handicap e che veniva usato in senso discriminatorio, è stato usato in senso discriminatorio fino ai nostri giorni.

E proviamo in questo modo a far passare un messaggio ulteriore in un video che di per sé potrebbe avere soltanto una prima lettura che è divertente in qualche modo.

Quindi come ho detto prima, noi come musei possiamo agire su diversi livelli, attraverso l'intrattenimento riusciamo a passare un messaggio ulteriore, che sia culturale nel senso di avvicinamento ad un'opera d'arte, ma può essere anche in senso sociale.

E credo che questo sia molto importante perché effettivamente quel social funziona così, cioè credo sia un social proprio per l'età dei frequentatori, che è per lo più under 30, ora purtroppo stanno arrivando anche i cosiddetti boomer, i profili fake, tutte quelle robe, tutte quelle distorsioni che purtroppo conosciamo.

Rido perché spesso appunto quando si parla di TikTok capita che le persone della mia età, quindi i trentenni ancora, non sia chiarissimo come utilizzarlo.

In realtà nel mio nome, e poi chiudo per lasciare spazio agli altri, io ho iniziato a usarlo quando il direttore mi ha chiesto che cosa ne pensassi, io gli ho dato un'opinione positiva e allora lui mi ha chiesto di iniziare a pensare ai video.

E io ho chiesto ai miei cugini ventenni, cioè sono andata dalla generazione Z perché così si fa, non è detto che chi è più piccolo di noi ne sappia meno, sia stupido, non sia in grado di formulare un pensiero o un ragionamento, questo è un pregiudizio appunto, ogni generazione ha i suoi standard, ha i suoi canoni, ha i suoi interessi e io per imparare sono andata dai ventenni, manualmente mi sono fatta spiegare e poi dopo ho imparato ad utilizzarlo.

E ne ho scoperto molte potenzialità, io credo che sia un social molto libero quello, uno dei video più belli che ho visto su quel social è un ragazzo vestito di rosa che ballava con tutù e l'ho trovato un'espressione di grandissima libertà.

Si fa tantissima informazione, ci sono i trans che scherzano sulla transessualità e io credo che sia uno dei modi giusti per far progredire questa società, cioè normalizzare quello che viene considerato diverso e farlo entrare a far parte dell'immaginario collettivo.

Volevo fare una domanda Alberto ma Virgi non so se volevi dire qualcosa, mi sembrava che stessi per parlare.

No, stavo annuendo.

Perfetto, allora Alberto in questa situazione in cui si parla di social e di mondo nuovo tu hai un'esperienza anche diversa, che cosa critichi a questo tipo di mondo, a questo tipo di cultura o contro cultura perché dipende anche da che punto di vista lo si guarda.

Ti dico come vedo il quadro dalla mia prospettiva.

Allora, osservo che le piattaforme mediatiche, news social, TikTok, Facebook in sé sono neutri e possono essere utilizzati bene per delle finalità nobili come quelle perseguite da id e da gli uffizi, ma possono essere usati bene per sostenere le idee della comunità dei terapi artisti, per dirne una senza poi andare a cercare comunità che circolano.

Quindi diciamo come qualunque altra piattaforma mediatica dalla stampa a qualunque altra cosa ha questa caratteristica.

Detto questo trovo che nello spazio della rete c'è una enorme segmentazione di comunità, ci sono tante comunità e credo che ci sia la tendenza per molte persone ad andare negli spazi di sociabilità che offrono produzioni o orizzonti etici che già apprezzano o di cui sono già convinti.

Quindi tendo a vedere una qualche rigidità, per cui se in uno spazio culturale tu sei appassionato di trap, difficilmente andrai in un sito web in cui si parla di musica neoclassica contemporanea o in cui si parla di heavy metal e così via per qualunque tipo di argomento.

Quindi vedo un'enorme segmentazione nello spazio del web, grandi potenzialità ma non vedo assolutamente che sia nata un'intelligenza collettiva ben profilata e compatta come quella che Henry Jenkins vedeva più di dieci anni fa in un libro che si chiamava Cultura Convergente.

Lui vedeva questo movimento dal basso verso l'alto per cui gli utenti entrano in web e creano i loro prodotti e ci vedeva un processo di democratizzazione. Sì, c'è la democratizzazione ma c'è anche una grandissima segmentazione e una grandissima varietà etica e contenuti negli spazi di sociabilità.

Di fronte a questa segmentazione si staglia l'ombra delle megacorporations mediatiche perché mentre c'è tutta questa frantumazione in cui tutti noi sprofondiamo, intanto ci sono megacorporations delle dimensioni di Disney o delle dimensioni di Sony o delle dimensioni di Microsoft che sono in grado di produrre con una grande potenza di fuoco dei sistemi metanarrativi che continuano ad essere, secondo me, quelli mainstream.

Ciò che io trovo da criticare nel dominio del mainstream è il carattere ripetitivo e infantilizzante al tempo stesso. Riassumo molto in breve perché non possiamo stare tanto, ma l'ossessione è perigliato fine.

O anche in racconti molto drammatici dove ci sono tanti morti, l'idea che però i protagonisti restano in vita, sono enormemente resilienti anche quando non sono supereroi e quindi va tutto bene alla fine e quindi comunque c'è un esito positivo.

Questo propone a tutti noi un contratto narrativo che non ci chiede soltanto di sospendere temporaneamente la nostra incredulità e quindi pensare che le persone volano in cielo, risolvono qualunque problema, vivono anche nel mezzo di una terribile pandemia stile serie di Rihanna di Armaniti che adesso si può vedere ma poi alla fine te la cavi in ogni caso.

È molto infantilizzante ed è una sospensione dell'incredulità totale, ti chiede questo e ti chiede la rimozione del tragico dal tuo universo immaginario.

Questo lo trovo enormemente infantilizzante, spinge verso atteggiamenti molto conformistici e faccio un'ultima battuta. Questa faccenda dell'infantilizzazione la ritrovo molto in tanti comportamenti che ho visto circolare nel periodo della pandemia.

È vero che c'è una resistenza per dire della nostra società positiva agli effetti della pandemia, una capacità di seguire anche le indicazioni che vengono date per proteggerci dalla pandemia. Ho sentito fare affermazioni pazzesche, prendere sotto gamba l'epidemia, la pandemia, chiedere sostanzialmente all'autorità di tirar fuori la battuta magica e risolvere il problema dall'oggi a domani.

Sono finalità economiche o politiche che capiscono molto necessarie la riapertura di ristoranti, esercizi pubblici, però a volte ci sono degli ostacoli, a volte bisogna prendere atto dei limiti che la realtà ti impone. Ho avuto la sensazione che abbia sbaldato molto.

In questo senso, Ilde, quando Alberto parlava di questo tipo di atteggiamento un po' infantilizzante, tu come lo vedi? Ma soprattutto se i social saranno in qualche modo la chiave per il futuro, come ci si fa a difendere da questo tipo di critica?

Come si fa a dire che alla fine il social è solo il mezzo e il contenuto è quello che cambia?

Il ragionamento che mi ha fatto è molto interessante. Io ho una mia posizione che chiaramente non è riferibile agli uffizi, che è un problema sociale. Chi detiene il controllo sui social e sui mezzi di comunicazione non sono certo i ragazzi, ma sono le generazioni precedenti.

Un atteggiamento verso l'infantilismo credo sia eventualmente, ho studiato, ho cercato una semplificazione voluta da chi decide le politiche di comunicazione, sociali, eccetera. Questo a livello più ampio.

Penso però che i social abbiano dato a volte un contributo positivo durante la pandemia. Parlo del fatto che noi abbiamo fatto le specifiche campagne sul covid, su TikTok, tant'è che uno dei nostri video meglio riusciti, che è stato ripreso da un TED Talk, era proprio la medusa che sconfiggeva il coronavirus,

che riprendeva un audio virale chiaramente reinterpretato e avevamo messo una mascherina medusa per far vedere che se la puoi mettere la medusa in ravaggio, te la puoi mettere anche tu. Passando un messaggio di questo tipo, il ministero della salute aveva fatto una buona campagna.

Da un lato è vero che c'è la delega, l'autorità di risolvere tutti i problemi di questo mondo, dall'altro lato c'è anche una controtendenza a cercare di passare messaggi positivi, educativi e di responsabilizzazione attraverso i canali.

Io penso che il mezzo sia neutro, non è superficiale, non è stupido, la tecnologia non prende parte, sta sempre alle persone, quindi sicuramente i social sono uno strumento indispensabile di comunicazione di cui non possiamo fare a meno.

Le ritengo delle vere e proprie agora e credo che l'opinione sia diffusa, sono delle piazze pubbliche in cui si discute, si informa, si conosce, si comprende. Il fenomeno delle bolle è normale, nel senso che si tende ad andare a cercare quello che ci piace, che ci aggrada, ma con la curiosità e uno sforzo ulteriore se ne può uscire.

La curiosità è sempre la chiave secondo me, perché ci sono sempre interferenze e ci si può contaminare con qualcosa che non si conosce.

Se è irrealistico pensare di tornare indietro a un momento in cui si comunicava in un altro modo, però la scoperta di queste piattaforme è sicuramente ancora in corso e ci vorrà del tempo affinché si crei una coscienza, una consapevolezza sui rischi.

Io li ritengo davvero la chiave del futuro, perché sono imprescindibili. Sta a noi poi capire come utilizzarli al meglio.

Chiaro se l'Italia è il paese delle corporazioni, se si va verso l'aggregazione per sicurezza della società, questo è un punto della società e non del mezzo. Io penso che il mezzo rispecchi la società semplicemente.

Sono assolutamente d'accordo su alcuni punti di questo discorso. È vero che come i social, la questione delle bolle è sempre una questione che si tira fuori con i social, ma non è che prima quando leggevi il giornale andavi a comprare il tuo giornale di fiducia, leggevi delle notizie raccontate in un modo completamente diverso da come te le aspettavi, a meno che non ci fosse un cambio editoriale.

Però lancio una provocazione su questo, nel senso che è vero che i social aiutano a portare avanti delle comunicazioni e delle campagne che sono sicuramente positive, dall'altra parte, Virginia, tu mi insegni che chi lancia questa campagna si fa bello di quel tipo di messaggio.

Io non insegno niente Silvia, scusami. Perché altro che farsi bello, diciamo che c'è una contraddizione nel senso che poi determinati discorsi nel momento in cui tu acquisisci un'influenza, dopodiché diventi appetibile per un mercato che tende a volerti ricondurre all'interno di logiche di profitto.

Quindi per me, non so se esista una soluzione, però io ho capito che ad esempio io mi definisco un hacker, riconducendomi al testo di McKenzie Work, Manifesto Hacker, perché come dicevi tu all'inizio io ho lavorato anche per grossi media

e ho sempre anche invece frequentato ambienti di controcultura proprio per acquisire gli strumenti.

Se Yilde parla di codici comunicativi e di sfruttare i codici comunicativi e di sfruttarli a favore di una causa che si ritiene valida e che si ritiene nobile, che si ritiene culturalmente ricca, così secondo me dovrebbe essere un processo di acquisizione di strumenti, di conoscenza innanzitutto, di come si fa a fare un progetto.

Come funzionano i grossi meccanismi di comunicazione o di marketing in cui siamo inseriti per metterli a servizio di qualcosa che esca poi dalle logiche di profitto.

Faccio un esempio, una cosa che io ho organizzato durante la primissima fase del primo lockdown, quindi la pandemia appena scoppiata, entrata nel vivo, è stato un festival online che abbiamo organizzato su Twitch,

e si vedeva, secondo noi che abbiamo organizzato questo festival, anche un processo di creazione di una piccola comunità. Il festival si chiamava Avant Gardening e parlava appunto, i contenuti erano contenuti di cultura di nicchia, diciamo abbastanza di nicchia, ma non soltanto di nicchia.

Abbiamo tentato di inserire un paio di contenuti che fossero di richiamo per poi far luce anche su tutti gli altri. Quindi c'è anche una sorta di processo di curatela che è un altro strumento comunicativo molto importante,

nel senso che così come Ilde utilizza uno strumento popolare per inserire contenuti alti, anche noi abbiamo tentato facendo questo festival di cercare di portare avanti una causa con uno strumento che fosse riconoscibile come un mini festival,

perché questo festival noi l'abbiamo creato per fare luce su un'esperienza politica che stava avvenendo in quel momento, che era l'esperienza delle Brigate Volontarie, che sono queste persone che appartengono a circuiti controculturali, diciamo di politica dal basso, i famosi ragazzi e ragazze dei centri sociali,

che in un momento in cui le istituzioni erano abbastanza manchevoli, hanno iniziato a distribuire pasti a chi non poteva permettersi di uscire di casa, di andare a prenderli, a distribuire medicinali, eccetera, eccetera.

E quello che secondo noi potevamo fare a servizio di questa causa era fornire degli strumenti comunicativi, cioè noi quattro che abbiamo organizzato questo festival eravamo quattro persone che hanno sempre lavorato in ambienti di comunicazione, in agenzie di comunicazione,

che insomma a Milano quantomeno solitamente sono le bocche d'inferno, cioè sono sempre a servizio poi del capitale, ecco, mentre noi da brave hacker abbiamo messo questi strumenti e anche il nostro network, diciamo, a servizio invece di una causa che ci stava a cuore e che stava proprio fuori da ogni logica, diciamo, di profitto capitalista,

perché il nostro sindaco diceva che dovevamo tornare a lavorare, c'era invece chi si occupava più della parte di cura della società che era, insomma, che è fondamentale ancora, soprattutto in questo momento.

Carmen chiede cultura di nicchia, se puoi fare degli esempi, giusto per farci capire.

Musica sperimentale, poesia, c'era videoarte e poi c'erano anche, diciamo, dei workshop di costruzione di mascherine, c'era anche, diciamo, il nostro VIP era Venerus che è un musicista abbastanza famoso, non so se sia così tanto famoso, ma non è che avessimo neanche poi la possibilità di pagare nessuno.

Però ecco, il modo che abbiamo trovato per hackerare, tra virgolette, il sistema è appunto fornire a un progetto politico, che di solito, diciamo, i progetti politici, soprattutto le esperienze dal basso, fanno fatica a comunicarsi oppure si comunicano in una maniera ancora abbastanza poco accessibile, ecco, alla massa e cercare di fornire un impianto di comunicazione che fosse al loro servizio

In più abbiamo attivato questa raccolta fondi sempre tramite Twitch, che permetteva la donazione diretta e abbiamo raccolto, diciamo, materialmente anche dei soldi per loro, quindi ecco, se ci fosse, secondo me, un punto su cui ragionare sarebbe appunto prendere degli strumenti che noi abbiamo, che di solito sono a servizio di profitto, di logica di profitto,

e metterli invece a servizio di qualche causa culturale o sociale o politica che ci sta più a cuore, insomma.

Quindi, in qualche modo, la tua soluzione è quella dell'hacker. Io per concludere, perché abbiamo proprio pochissimi minuti, volevo porre la stessa domanda anche a Ilde e Alberto, cioè, come se ne esce da questa situazione? C'è bisogno di una controcultura? E nel caso come la si fa, a Ilde chiedo, ce n'è bisogno? Oppure stiamo già andando nella direzione giusta senza bisogno di avere qualcosa di controcultura?

Allora, prima di rispondere a questa domanda, ho visto dei commenti che chiedono sulla sicurezza dei dati di TikTok e volevo rispondere perché la cosa dei dati è molto molto importante. Quindi, se mi permetti, Silvia, vorrei rispondere a questi commenti.

Assolutamente.

Ma in una battuta. Primo, TikTok non esiste come lo conosciamo noi in Cina. Loro usano Duinna. Usano proprio un social diverso, molto molto più controllato dal governo, ovviamente. E non c'è più quella libertà espressiva che c'è su TikTok.

Il problema dei dati è un problema comune a tutti i social. Facebook è in questo momento sottoposto a una classe action miliardaria per la questione dei dati e del tracciamento dei dati anche quando l'utente è fuori da Facebook. Quindi non è un problema di TikTok.

Il problema è che, come sappiamo, i dati sono il nuovo petrolio, sono la nuova ricchezza e quindi tutti cercano di sfruttarli commercialmente. Come è stato più volte detto, se la cosa è gratis, il prezzo sei tu, insomma. Sei tu la match di scambio.

Sulla contropoltura, ed è una posizione sicuramente provocatoria e probabilmente da criticare, non so, però è la mia, io credo che i social in un certo senso la facciano. Perché? Perché per inserirti nel panorama istituzionalizzato della comunicazione, che sono i giornali, la televisione, anche l'editoria in un certo senso, uno ha bisogno di avere un capitale proprio fisico alle spalle.

E sicuramente qualcuno che è in senso lato ti sponsorizza, cioè qualcuno che ti presenta. Il social in questo senso fa contropoltura ed è democratico perché se tu sei bravo, sai comunicare e hai delle idee, non importa essere ricchi, avere gli strumenti o venire da un certo ambiente per riuscire a comunicare.

Quindi io in questo senso li trovo molto democratici e possono essere un modo per qualcuno per emergere senza avere possibilità o strumenti per farlo. Il che non vuol dire che poi il messaggio che viene passato sia banale, perché qualcuno può non avere gli strumenti per farsi largo nei settori più istituzionalizzati, ma può avere qualcosa da dire su un social e avere un messaggio profondo allo stesso modo.

Ci sono dei grandissimi pensatori del passato che ci hanno insegnato e non serve la laurea per saper pensare e io credo che questo sia possibile anche lì. Non sarà su 100, ce ne sarà uno, però è possibile.

Per chiudere perché siamo davvero alla fine, l'ultima battuta di Alberto e abbiamo 30 secondi per aprire un mondo e richiuderlo, quindi chiedo già scusa.

Era interessante questo aspetto della nascita della controcultura. La controcultura negli anni 60-70 nasce da un'idea di comunità, di gente unita, di gruppo che si muove insieme. Oggi è diversa l'ambientazione in cui viviamo, in cui respiriamo. Come si fa controcultura oggi? Come se ne esce da questo impasto?

Come se ne esce? Faccio due osservazioni un pochino in dissenso rispetto a Ilde. E' un peccato che arriviamo al dissenso alla fine e dopo dobbiamo chiudere. I social sono democratici, sì, lo sono, ma sono democratici sia che uno voglia far passare dei contenuti alti come quelli che sono fatti passare da Ilde e dal team degli uffizi e sono democratici.

Sia che uno voglia far passare teorie terapie triste. Se uno è bravo a muoversi con le strategie comunicative, a costruire una comunità emotiva facendo passare i contenuti di qua non, e ce la fa. Allora, come si esce da questa dinamica?

Secondo me si esce riportando il discorso in un'altra parte, cioè facendo in modo che i sistemi educativi, che la scuola in modo particolare, formi nuove generazioni con strumenti adeguati. Non solo strumenti che consentono alle nuove generazioni di sapere come ci si muove su TikTok e Facebook, che pure mi fanno una cosa molto importante, ma anche strumenti che sono quelli delle migliori scienze sociali del XX e XXI secolo.

Non riesco che nelle scuole superiori, a parte i licei delle scienze umane, i programmi siano strutturati in modo tale per cui tu non sai chi è Derrida, non sai chi è Foucault, non sai chi è Geertz, non sai chi è Margaret Mead e non lo saprei mai molto spesso se quando è finito il tuo curriculum o non sai chi è Chomsky o non sai chi è Jenkins, cioè persone che studiano i media e la cultura di massa.

E non lo saprei mai nella tua vita probabilmente se tu magari non fai studi umanistici dopo che hai finito gli studi superiori. Ecco, io trovo che questo è una cosa pazzesca. Quindi, per rendere più solida la nostra società, credo che dovremmo affrontare seriamente il tema in Italia e anche altrove sempre quello di una serie di forma scolastica, non come quelle che sono state fatte finora.

Io trovo stupefacente che da secoli, adesso esagero, da decenni non si parli dei contenuti educativi in modo serio. È possibile che non si possa trasmettere alle ragazze le scienze umane, le scienze sociali più aggiornate?

Ecco, questo lo trovo, se ci fosse questo meccanismo avremmo, come dire, molte persone con strutture cognitive molto più solide in modo da, per dire, rifiutare senza neanche un attimo di incertezza un operatore bravo su TikTok che ti vuole svendere una teoria terapietista o che ti vuole svendere una teoria Qanon o una teoria basata su fake news.

Però se invece hai persone che sono perse dietro parmenide, trovo difficile che ci siano strutture cognitive solide.

Sicuramente è un dibattito che non si può esaurire in un'ora, noi ci abbiamo provato ma ovviamente arriviamo ai conflitti anche forse in ritardo.

Ma io ringrazio tutti, ringrazio Alberto, Vanti e il De Forgione Virginia Ricci per aver partecipato a questo panel perché abbiamo veramente tirato fuori un sacco di temi, cultura, educazione, social, eccetera.

Io rinnovo l'appuntamento, vi ricordo che ci rivediamo tra due settimane, quindi il 12 maggio, per una puntata che sarà sul futuro, quindi saranno altri temi ancora più, forse più divisivi, vedremo.

Grazie mille per aver partecipato stasera e ci vediamo tra due settimane.

Grazie.


CULTURA DI MASSA MASS CULTURE 大众文化

Eccoci qui, buonasera a tutti e benvenuti al settimo incontro di Interregno, che per

chi di noi ci segue è uno spazio di confronto intergenerazionale in cui si cerca di capire

quali sono le differenti opinioni e differenti punti di vista tra generazioni, quindi tra

passato, presente e futuro.

Grazie come sempre ai editori La Terza che ha creato questo spazio e che ci ospita e

grazie ai nostri ospiti che questa sera sono Ilde Forgione, creativa del team di TikTok

delle Gallerie degli Uffizi e PhD, perché poi ci racconterai anche in che cosa hai un

PhD, Virginia Ricci, creative writer, e Alberto Banti, storico e professore.

Quindi grazie a voi per essere qui stasera.

Io faccio una piccolissima introduzione ma sarà molto breve perché non vedo l'ora di

ascoltare le vostre opinioni.

Ho letto un capitolo del libro Capitalist Realism di Mark Fisher che cita una frase

che mi ha molto colpito.

È più facile immaginare la fine del mondo che immaginare la fine del capitalismo.

E lui la collega alla questione culturale, cioè si chiede come può una cultura persistere

senza il nuovo?

Cosa succede se i giovani non sono più in grado di produrre novità?

E qui arriviamo al tema di oggi, che è la cultura di massa, ma anche la controcultura,

anche la cultura underground, anche i social, anche la censura.

E ci interrogheremo oggi per cercare di capire da che parte ci dobbiamo girare perché siamo

evidentemente un po' confusi.

Partirei, nonostante appunto di solito io faccia il contrario, da Alberto.

Quindi grazie tanto di essere qui.

Nel tuo libro tu parli, dici che la cultura di massa nasce nel XX secolo negli Stati Uniti

e si trasforma presto in uno strumento di soft power.

Ci spieghi che cosa si intendeva per cultura di massa all'epoca e se questa definizione

è valida ancora oggi?

Sì, diciamo che è un processo più lungo nel senso che la cultura di massa nasce almeno

dalla metà del XIX secolo con non solo trasformazioni culturali ma anche trasformazioni tecnologiche,

innovazioni tecnologiche applicate alla stampa, la registrazione fonografica, la radiofonia,

il cinema e tante altre cose a seguire e trasformazioni sociali.

Il fatto che ci sia un mercato di massa, cioè che ci siano molte persone, uomini, donne,

che hanno un po' di soldi da dedicare all'acquisto di prodotti culturali è soprattutto fondamentale

il tempo libero.

La conquista del tempo libero, che è un bene non a disposizione di tutti nell'epoca medievale

e moderna, è una questione chiave.

Io riflettendo sulla cultura di massa ho identificato gli anni 30, del XX secolo, e le produzioni

culturali negli Stati Uniti come produzioni chiave perché mi sembra che in quel periodo

si strutturi un sistema metadiscorsivo che poi ha una lunga durata, cioè su piattaforme

mediatiche varie, attraverso generi narrativi anche molto differenti, viene costruito un

sistema discorsivo, un sistema narrativo che ha delle convergenze molto forti.

Le riassumo in questo modo.

Storie che sono organizzate intorno a un'etica molto mal idea, i buoni da una parte e i cattivi

dall'altra.

Storie che hanno un intento pedagogico, o implicito o esplicito.

Ti voglio spiegare da che parte devi andare, ti voglio spiegare qual è il bene e qual

è il male.

E una modalità narrativa non è l'unica, adesso tanto per essere un pochino sintetici,

che domina abbastanza è questa.

Una comunità armonica arriva a una minaccia, la minaccia può essere del tipo più svariato,

possono essere gli indiani, possono essere i comunisti, gli alieni, una nebbia, uno squalo,

un virus e a quel punto la comunità rischia di essere distrutta.

Interviene un eroe, o un'eroina, o un team eroico che rischiando di essere ante loro

sopraffatti però alla fine sconfiggono la minaccia, restituiscono l'armonia alla comunità

e c'è il lieto fine con una specie di mast narrativo ed etico che struttura queste narrazioni.

Non è l'unica modalità narrativa, trovo che sia però un sistema narrativo forte che

ha un grande successo negli anni 30 per le sue capacità di consolazione e di rassicurazione.

Cioè questo sistema decolla nel momento in cui la società americana, e non solo americana,

attraversa una delle pagine più tremende della sua storia, quindi con tante persone

che hanno perso il lavoro, che sono disperate, che non sanno dove sbattere la testa,

e trovano in queste narrazioni un sollievo, una rassicurazione, una pacca sulla spalla, una spinta in avanti.

Questo sistema narrativo secondo me si instaura nello spazio dell'industria culturale,

della cultura di massa in quel periodo e non ci abbandona più.

Certo, ci sono dei restyling molto importanti, le donne contano molto poco nelle produzioni,

o sono molto passive nelle produzioni narrative degli anni 30, non sono più nel mainstream di oggi,

le comunità afroamericane quasi non ci sono e poi emergono, identità sessuali e altre non ci sono assolutamente

e poi emergono, però senza mettere in discussione questa struttura metanarrativa fondamentale.

Ecco, questo secondo me, diciamo, nella più estrema sintesi è la forma, la morfologia della cultura di massa mainstream.

Molto interessante visto che Virginia prendeva appunti, quindi passo a lei.

Virginia, tu hai lavorato sia in ambito underground sia nella tv che oggi si definisce tv generalista,

secondo te la cultura di massa oggi che cos'è?

Sì, io prendo appunti perché non ho molta memoria, quindi sono abituata a fissare le cose in maniera anche abbastanza analogica su un quaderno.

Beh, la cultura di massa oggi, mi ricollego in parte a quello che giustamente diceva il professor Banti,

nel senso che oggi la cultura di massa è molto anche il payoff di YouTube, no?

Broadcast yourself, è quella tendenza non solo a usufruire di contenuti che ci vengono dati,

ma anche proprio alla creazione di un contenuto, cioè a rendere contenuto la nostra vita,

contenuto che nel peggiore dei casi, tra virgolette, può essere inteso anche come brand of content,

nel senso che le piattaforme su cui noi produciamo contenuto sono piattaforme per cui produciamo contenuto, no?

Noi utilizziamo un sacco di piattaforme appunto che sono gratuite per noi,

quando una cosa è gratuita vuol dire che in un modo o nell'altro il prodotto siamo noi, quindi c'è questo trucco.

Siamo in un momento abbastanza particolare in cui c'è una produzione di contenuto continuo e una fruzione di contenuto continuo,

tra l'altro sono contenuti che si consumano e che si concludono nel giro di 24 ore, no?

Quindi è una cultura estremamente presente nel senso proprio temporale del termine,

in cui proprio per il ritmo con cui i nostri feed vengono alimentati, no?

Anche qua c'è un paragone con la cultura alimentare molto forte su tutta la terminologia che si utilizza sui vari social,

sulle varie piattaforme, no? Noi veniamo alimentati, abbiamo una sorta di bulimia anche culturale di informazioni da cui veniamo bombardati,

che raramente, difficilmente poi si depositano e quindi tendiamo anche proprio a metabolizzare molto poco di quello che consumiamo,

al contrario di quanto, poi correggetemi se sbaglio, accadeva magari in altre epoche in cui c'era anche più tempo,

tra un'informazione e l'altra, tra un evento e l'altro, tra un prodotto culturale di cui fruivamo e l'altro,

adesso proprio il tempo ci manca perché è tutto molto forsennato nel nostro modo di fruire

e quindi questo credo che, non so se stiamo vedendo già le conseguenze poi di questo modo di fruire della cultura,

però io temo molto che proprio questa, si possa perdere una sorta di conseguenzialità anche del pensiero,

una sorta di concetto del prima e dopo, no? Di causa-effetto, di anche corsi e ricorsi storici,

poi c'è uno storico qua che può chiaramente, può confutare tutto quello che dico,

però penso che questo poi si veda anche molto nel modo in cui noi ci approcciamo alle battaglie che viviamo,

le lotte sociali e politiche a cui ci approcciamo, no?

Per cui sembra tutto molto scollegato da una temporalità più ampia e tutto molto consumabile nell'immediato, ecco.

Quindi...

Sì, assolutamente. Volevo tradurre soltanto i termini che avevi utilizzato in inglese perché giustamente

magari qualcuno non li conosce, soprattutto sono dei termini molto specifici.

Broadcast yourself, correggimi se sbaglio Virgi, significa trasmettiti, cioè mettersi, diciamo,

essere i primi a mettersi in trasmissione, a produrre il contenuto sei tu, fondamentalmente.

Mentre l'altra parola che credo non fosse chiarissima magari per alcuni perché è più un termine tecnico è branded content.

Non so se puoi spiegare un attimo che cos'è.

Beh, il branded content è un contenuto, diciamo, che è riconducibile a un brand, ovvero un marchio,

e che quindi è un contenuto che non è valido di per sé ma è valido anche in relazione a qualcosa,

ad un universo, diciamo, di profitto a cui fa riferimento.

Quindi, ad esempio, io sono testimonial di un marchio di, non lo so, mutande,

e quindi nel momento in cui io parlo di qualsiasi cosa, parlo di un libro, parlo della mia giornata,

non sono soltanto io che parlo e il contenuto non è soltanto la mia giornata,

ma in qualche modo si riferisce anche a tutti i valori del brand di mutande che io rappresento.

Non so se l'ho spiegata bene, però ecco questo è un po' il branded content.

Assolutamente.

Mutande come esempio.

È un esempio chiaro, diciamo che mutande sappiamo tutti cosa sono, quindi mi sembra utile.

Ma a proposito di branded content, ma soprattutto di contenuto,

Ilde, voi con la Galleria delle Uffizie avete fatto una campagna veramente molto interessante,

avete usato un tipo di comunicazione di massa, quindi la musica, i trend, dei personaggi particolari,

facendo incontrare in qualche modo, mi dicevi, la cultura più bassa e la cultura più alta,

tra virgolette, ovviamente anche in chiave ironica, in chiave divertente.

Qual è l'idea dietro a questa campagna?

Noi avevamo un obiettivo molto chiaro, che è stato il principio guida, ed è ancora il principio guida,

in tutto quello che facciamo per la comunicazione su TikTok.

Cioè quello di avvicinare al museo un pubblico ampio, un pubblico che tradizionalmente è distante.

Il modo da sensibilizzare, cioè è proprio una funzione sociale quella che ci siamo immaginati,

e volevamo sensibilizzare i ragazzi, le prossime generazioni all'arte.

E questo perché? Perché pensiamo che i giovani di oggi saranno i professionisti, i politici, gli studiosi,

e comunque i cittadini di domani.

Per cui è importante che ci sia una percezione del valore delle opere d'arte, del valore del patrimonio artistico,

e che attraverso uno strumento più leggero, loro si avvicinino a questa sensibilità,

e iniziano a percepire la necessità di tutelare, di tramandare il patrimonio culturale.

Non è chiaramente una necessità imminente, però chiaramente gli uffizi saranno tutelati dalla legge,

nella storia, perché è così dal 1700, però ci serve a sviluppare una sensibilità,

che poi loro avranno anche ad esempio per i monumenti della loro città, per gli spazi della loro città.

Quindi ci serve, ci serviva un approccio più libero per far sì che la fascia 15-25

sia interessata a qualcosa che può anche non essere interessata.

Perché può essere non interessata? Perché non tutti a scuola studiano storia dell'arte,

lo si fa in modo proprio giocoso, col disegno, all'elementare, lo si fa parzialmente alle medie,

alle superiori mi risulta sia solo nei licei, e quindi chiaramente non tutti hanno un approccio scolastico all'arte.

E non tutte le famiglie hanno questa sensibilità, e per rendere più democratica,

per portare alla portata di tutti l'arte, bisogna che gli musei si inseriscano in questo percorso.

Chiaramente i musei hanno i loro servizi dattici, ma per avere un approccio multilivello,

un approccio che non si concentri soltanto su una tipologia di messaggio e su un certo tipo di impostazione,

ci serviva usare anche un linguaggio che non fosse quello proprio nostro.

E quindi abbiamo utilizzato il loro linguaggio, cioè siamo andati negli spazi che i ragazzi utilizzano per comunicare

e abbiamo imparato a usare il loro modo di comunicare.

Ci interessava che poi questo dialogo virtuale che si stavolava tra noi e loro, diventasse una visita reale,

cosa che poi in effetti è successo, e eventualmente poi dopo se volete approfondirò a questo punto.

Ed è stato un approccio sperimentale in questo senso, perché non era mai stato fatto prima, non ci risulta,

e credo che siamo stati primi a usare questo modo nuovo di comunicare, scanzonato, ironico, divertente,

senza necessariamente volere insegnare qualcosa.

L'approccio dell'insegnamento è riservato ad altri canali del museo e ad altre istituzioni.

A noi interessava essere percepiti come una parte di quella comunità, cioè della comunità dei ragazzi Under 25,

e lo potevamo fare soltanto usando la loro comunicazione di massa, appunto,

quindi i loro codici comunicativi, perché di veri e propri codici comunicativi si tratta.

E ci serviva per suscitare poi un interesse personale, quindi non qualcosa di ecro diretto,

ma qualcosa che fosse interiorizzato, un bisogno che venisse da ognuno delle persone

e si era approcciato a noi come stimolo verso la curiosità.

Quindi la curiosità noi abbiamo cercato di suscitarla, portandoci in modo paritario,

non come istituzione lontana dalle persone e superiore e monolitica,

ma come istituzione che dialoga con le persone, che si pone a loro pare,

per fargli capire che il museo è qualcosa che è vicino ai cittadini,

non è un qualcosa di chiuso, di polveroso, di noioso.

In termini tecnici io l'ho definito public engagement,

nel senso che l'idea di avvicinare l'istituzione ai cittadini per farsi conoscere,

per far sì che la missione dell'istituzione sia apprezzata dai cittadini,

è una cosa che in termini tecnici si chiama public engagement.

E questo serve a rafforzare, per dirla in termini costituzionali e giuridici,

la coesione sociale.

Il nostro copo più o meno era questo, e ci serviva usare la cultura di massa,

altrimenti non riuscivamo a parlare con qualcuno, non ci avrebbero compresi.

È molto interessante perché in un certo senso voi siete arrivati ai giovani dall'alto,

con un tipo di cultura più alta, vi siete avvicinati ai giovani.

In realtà, sempre in Wonderland del professor Banti,

si parla della contro-cultura, quindi quando i giovani hanno portato fuori

un altro tipo di cultura da quella che invece era la cultura di massa.

Quindi negli anni 60 e 70 con il rock, che all'epoca era underground,

oggi non lo è più, ma all'epoca lo era.

Oggi, secondo te Alberto, esiste una contro-cultura?

Esistono molte contro-culture, non una grande frammentazione,

ma vorrei sottolineare una differenza che mi sembra significativa rispetto

all'esperienza che si costruisce tra metà degli anni 60 e metà degli anni 70.

Le produzioni contro-culturali di metà anni 60, metà anni 70,

sono produzioni contro-culturali nel senso che hanno strutture narrative,

soluzioni estetiche, orizzonti etici diversi dalle produzioni Hollywood, Disney,

ma si impongono sul mercato di massa.

Il rock dei Doors, di Jimi Hendrix o di Jefferson Airplane

non sono chiusi in spazi di nicchia né dal punto di vista della sociabilità

né dal punto di vista del mercato, vanno in testa di classifiche.

La contro-cultura non si esaurisce nella musica, nel rock,

passa al New Hollywood con il Laureato, Gangster Story, Bash Cassidy,

Easy Rider e molte altre cose.

Anche questi sono tutti film che non è che si vanno a vedere solo nelle sale riservate,

hanno un successo sul mercato, quindi è una contro-cultura che si impone sul mercato.

Poi, da metà degli anni 70, processi storici e culturali fanno sì

che questa constellazione contro-culturale imploda.

Quindi tra metà anni 60 e metà anni 70 c'è per ossomodo una geografia

prevalentemente duale della cultura di massa.

La cultura di massa mainstream, non so, Berretti Verdi, John Wayne, Mary Poppins,

tutti insieme appassionatamente, e dall'altra parte queste altre produzioni

che invece hanno strutture narrative diverse.

Che succede dopo la metà degli anni 70 quando la contro-cultura implode?

Sparisce la contro-cultura? Evidentemente no, ci sono un sacco di esperienze culturali innovative

sia dal punto di vista estetico sia dal punto di vista degli orizzonti etici che vengono seguiti.

Solo il problema è che restano chiusi nei spazi di nicchia.

Se io penso, cerco di pensare a produzioni che definirei contro-culturali e che mi sono interessate,

adesso vado a spalle, nessuna pretesa di fare una descrizione che abbia qualche senso esaustivo,

ma insomma, nel cinema, cose che mi sono piaciute dall'altro punto di vista culturale,

il ritratto della giovane in fiamme, Midsommar, The Lobster, La Favorita,

vado a vedere che tipo di risultati hanno sul mercato e li confronto con Avengers, Endgame,

ma è una roba pazzesca, non c'è proprio rapporto, hanno incassi che sono del 2-3% rispetto a Avengers,

Frozen, Maleficent e via giù con tutte le produzioni che hanno il massimo impatto.

E lo stesso credo si possa dire in altri campi, non è che non ci sono produzioni di ricerca nel campo della musica,

ce ne sono tantissime, le cose che mi piacciono a me, Jon Hustle, Super Silent, Bersh, Eliade Dig,

ma chi le ascolta queste? Siamo in cinque, in spazi molto ridotti di Spotify

e siamo sommersi da tutte le proposte che Spotify ci fa e che ci manda invece nella direzione che è quella mainstream.

Quindi ci sono proposte controculturali simili a quelle che si formano negli anni 60-70 ma sono ridiche.

Al tempo stesso trovo che ci siano altre controculture che sono abbastanza forti e che circolano abbastanza

soprattutto nei media, nei social, su internet e sono delle controculture, adesso metto un'etichetta

che probabilmente non è soddisfacente, ma tanto per intenderci, che si ispirano a una sorta di razionalismo di destra,

cioè a strategie del complotto, a paradigmi del complotto, paranoia complottistica,

rifiuto di accedere agli standard, ai protocolli di verifica delle notizie che fanno parte poi della cultura scientifica,

della migliore cultura scientifica con la quale dialoghiamo.

Da Panon ai Patrioti Trampiani a, in ambito locale nostro, le ricostruzioni neoborboniche del processo

di unificazione nazionale o fino a un po' di tempo fa, le ricostruzioni delle identità celtiche

che avrebbero caratterizzato l'area padana, ora poi la Lega è diventata un partito neonazionalista

su scala nazionale, tutta questa roba qui l'ha lasciata perdere.

Oppure ancora più pericolose, le reti islamiche radicali, quindi c'è anche questo...

Ecco, credo che descrivendo l'orizzonte delle controculture nel 2021 dobbiamo considerare anche questi aspetti,

anche questo tipo di spazi di sociabilità che mi sembra sono forti, anzi forse per essere proprio provocatori al massimo,

forse la controcultura è più di destra che di sinistra in questo momento, più irrazionalista che nazionalista,

più con un impianto antiscientifico paranoico che con altri orizzonti, tenderei a dire così.

È veramente interessante anche perché ha stravolto in qualche modo le nostre aspettative e le basi del sistema a cui eravamo abituati,

ma mi interessava questo aspetto politico perché secondo me non c'è soltanto questo aspetto,

ma c'è anche un altro legato più di nuovo ai brand e ai marchi, alle aziende.

Infatti, Virginia, quello che volevo chiedere a te è un po' di ragionare insieme su questa contraddizione

che è il fatto che spesso in questo momento i brand e quindi i marchi, le aziende,

si ritrovano proprio per farsi pubblicità ad appoggiare delle battaglie,

che sono le battaglie per i diritti, quelli che in qualche modo avrebbero potuto rappresentare una controcultura.

Sono d'accordo che sia difficile in questo momento fare una sorta di controcultura da sinistra

senza essere destinati a parlare soltanto a una nicchia che ha anche dei codici comunicativi,

come dice giustamente Hilde, che bisogna tenere in considerazione, nel senso che da un lato i codici comunicativi

di un certo tipo di sinistra militante sono spesso ancora appartenenti a un immaginario che non è neanche più di questo secolo

e quindi da un certo punto di vista fanno fatica a rinnovarsi anche per una serie di complessità

che appartengono proprio agli ambienti militanti, nel senso che giustamente il linguaggio che si usa deve essere complesso

così com'è complesso poi il pensiero della sinistra, metto un cappello molto largo,

però la sinistra ha tante identità, proprio perché non c'è un nemico, non è che si può dire il nemico sono questi,

il nemico alla fine è il capitale e quindi già è complicato da spiegare così.

Quindi ci siamo ritrovati ad avere un concetto di militanza e di attivismo che in questo momento è contro culturale,

nel senso che ovviamente è progressista e quindi va contro un vecchio impianto culturale, diciamo patriarcale

o di un certo tipo di disparità sociali che adesso è anche però conoscenza comune e anche sentire comune,

che sia da superare in un certo senso, poi non so mai quanto sia sentire comune o quanto io poi mi riferisca sempre alla mia bolla

perché poi bisogna tenere conto anche di questo.

E quindi per portare avanti determinate istanze ci sono dei luoghi e ci sono anche dei sistemi comunicativi che si utilizzano,

che tendenzialmente tentano di essere più contemporanei, proprio come l'operazione che ha fatto Ilde con l'arte alcune persone in questo momento,

ma poi soprattutto la pandemia ci ha portato molto ad aumentare questa tendenza comunicativa e anche ad attivare la nostra coscienza individuale.

Mi ricollego anche a un concetto che esprime anche Banti nel suo libro sulla democrazia dei followers, cioè la responsabilità personale.

La pandemia ci ha responsabilizzato personalmente, quindi anche io mi sento personalmente responsabile di tutte le battaglie che rappresento.

Quindi se io sono femminista sono io in prima persona che devo dimostrare il mio femminismo.

Questa cosa si fa molto sui social network e questo tipo di comunicazione, anche di valori che non so neanche più se definire controculturali,

è diventata molto diotta per un sistema che riconduce tutte le lotte a logiche di profitto.

Quindi si parla molto anche di rappresentazione, come se fosse uno degli obiettivi della lotta.

Se io voglio che la lotta per i diritti omosessuali abbia poi delle ricadute concrete, deve passare per forza per una rappresentazione di diversità, di inclusione, ecc.

E quindi questa pressione sociale, social, è stata presa da chi vuole fare profitto, quindi i brand,

che hanno visto che in questo c'è una strada che conviene battere per poi ritornare ad avere quello che loro vogliono, ovvero persone che comprano.

Quindi sono diventate anche in un certo senso determinate battaglie delle strategie di marketing.

E questo in questo momento è un territorio molto aperto alle contraddizioni, nel senso che da una parte si sposta avanti il discorso progressista anche in questo modo,

ovviamente per una persona, faccio un esempio, afrodiscendente che abita in Italia e che per tutta la sua vita ha visto rappresentato nei media un canone di un certo tipo,

vedere che pubblicità, che sulle piattaforme di streaming più famose ci sono adesso rappresentate persone che sono simili a quello che ci rappresenta, insomma che vediamo che sono come noi,

è già un passo avanti rispetto a non vederne, perché poi ti senti anche sbagliato se non vedi che intorno ci sono persone come te, se non vedi rappresentate persone come te.

Dall'altra parte c'è anche questo paradosso della rappresentazione, ne parla anche Elisa Kuter nel libro che io consiglio sempre a tutti di leggere, che si chiama Ripartire dal desiderio,

ovvero che forse non basta la rappresentazione perché c'è tutto anche poi un tema di diritti più economici, più materiali che vanno oltre quello che è un sistema di rappresentazione,

e poi la rappresentazione è anche artisticamente un cul de sac, un vicolo cieco in alcuni casi, nel senso che proprio creativamente, a livello di apporto creativo,

vuole rappresentare sempre la realtà e mai poi il disturbante anche, ad esempio qualcosa che mi dà fastidio, io penso sempre a un film che si chiama M. Il mostro di Dusseldorf,

in cui viene rappresentato un pedofilo che subisce un processo da parte di una comunità di delinquenti e tu non sai alla fine da che parte stare, questo è anche il potere dell'arte, portarti oltre a quello che ti rappresenta,

oltre a quello che sei, ma facendoti anche immedesimare in quello che ti fa schifo, e per me questo è anche politica in un certo senso, provare a portarti fuori da te, in questo momento è molto invece anche la lotta, è molto immedesimazione,

è molto espressione del se, però il se parla sempre con altri se simili, quindi anche per questi meccanismi social, delle bolle, degli algoritmi che ti rafforzano sempre quello che tu pensi, tu dici ok io parlo sempre con i miei simili, in che modo poi riuscirò a parlare più con chi non la pensa come me?

In questo senso ILDE ha fatto esattamente questo, ILDE e non solo ovviamente tutta la galleria degli uffizi, però si sono occupati diciamo di utilizzando l'algoritmo che a volte appunto si dice rende schiavi, essere schiavi dell'algoritmo,

però grazie a questo algoritmo e grazie a questo trick, a questo modo di funzionare loro sono riusciti a in qualche modo democratizzare anche l'arte, giusto?

Sì, io credo che ci voglia una grandissima cultura per fare quello che noi facciamo, infatti lo facciamo in diversi, ci occupiamo tutti di piccole parti, io ho una mia cultura personale, tra l'altro sono una grandissima fan di L'Antimos, quindi io personalmente sono in minoranza, poi faccio cose mainstream e sono un po' in contraddizione con me stessa,

però credo fino ad un certo punto, perché chiaramente noi non controlliamo l'algoritmo, però in un certo senso si può sfruttare l'algoritmo per democratizzare l'arte o almeno è quello che proviamo a fare noi, in che senso?

Nel senso che noi cerchiamo di inserirci nel mainstream attraverso il trend, attraverso la musica, gli hashtag e tutte quelle cose che sono tipiche di TikTok, perché poi ci vorrebbe una puntata soltanto per spiegare come funziona TikTok che è molto molto diverso dagli altri social, uno si inserisce in un canale comunicativo però per passare un messaggio e quindi lo pieghi a tuo favore in un certo senso,

sei schiavo perché ti devi inserire nei filoni, però all'inserirti nei filoni ti consente di passare il tuo messaggio e quindi è un do to this, in un certo senso è un gioco alla pari.

Come si fa questo? Si fa appunto intorno a quello che ho detto prima, cercando di indovinare i codici comunicativi, cioè cercando di comprenderli e cercando di essere aperti e di capire senza pregiudizi quello che può essere il tipo di comunicazione o quello che ci si aspetta da un video su TikTok.

Per chi non sapesse che cos'è TikTok, perché anche io devo ammettere non è che proprio sia una regina, una queen del TikTok, come funziona? Prima dicevi è diverso dagli altri social, ma perché?

Si è molto molto diverso perché non funziona per bolle, lui ha una doppia sezione sullo schermo che tu vedi in cui ci sono i per te che sono le cose che l'algoritmo seleziona e poi ci sono i seguiti, praticamente tutti guardano i per te, quindi scrollano, passano da un video all'altro nella sezione dei per te,

quindi l'algoritmo ti suggerisce delle cose in base alle tue preferenze, però in modo molto molto vario e quindi non è come su Instagram ad esempio, che tu hai la tua cerchia di amici e guardi le loro stories e scorri il feed e hai soltanto le persone che conosci e che segui, o come Facebook ancora più chiuso,

veramente come navigare in mare aperto a vista, si può venire in contatto con qualsiasi realtà. Per cui questo aiuta a uscire dalla logica della bolla, e quando i nostri video hanno successo, diventano virali, lo fanno fuori da quelli che normalmente ci seguono, che sono credo 70 mila abbiamo follower o una cosa del genere,

quindi non me lo ricordo con esattezza. E questo ti permette appunto di arrivare, grazie all'algoritmo, là dove altrimenti non saresti arrivato, perché qualcuno avrebbe dovuto neanche cercarti.

Negli altri social, a parte i suggerimenti sulle amicizie, sulle pagine a seguire, però non ti arriva qualcosa che non conosci e non vai a cercare.

Lì sì. Quindi questo ti consente, effettivamente, se un video funziona, funziona appunto significa rispetto ai requisiti che quel social ritiene, che debbano essere presenti in un video, viene proposto anche a chi non ti aspetti.

Questo con noi è successo diverse volte e c'è stato molto utile, per ricollegarmi a quanto detto prima, per passare dei messaggi proprio in senso di inclusione.

Ora noi siamo un'istituzione culturale, quindi non facciamo politica, però possiamo dare, possiamo porci a supporto dei diritti, dei diritti sociali e dei diritti civili.

Questa battaglia la facciamo sull'omosessualità, quindi di sensibilizzazione rispetto ai vari tipi di orientamento sessuale e l'abbiamo fatto con riferimento alle donne, anche quindi sui diritti delle donne.

L'abbiamo fatto con riferimento ai nani e quindi a quello che era considerato un handicap e che veniva usato in senso discriminatorio, è stato usato in senso discriminatorio fino ai nostri giorni.

E proviamo in questo modo a far passare un messaggio ulteriore in un video che di per sé potrebbe avere soltanto una prima lettura che è divertente in qualche modo.

Quindi come ho detto prima, noi come musei possiamo agire su diversi livelli, attraverso l'intrattenimento riusciamo a passare un messaggio ulteriore, che sia culturale nel senso di avvicinamento ad un'opera d'arte, ma può essere anche in senso sociale.

E credo che questo sia molto importante perché effettivamente quel social funziona così, cioè credo sia un social proprio per l'età dei frequentatori, che è per lo più under 30, ora purtroppo stanno arrivando anche i cosiddetti boomer, i profili fake, tutte quelle robe, tutte quelle distorsioni che purtroppo conosciamo.

Rido perché spesso appunto quando si parla di TikTok capita che le persone della mia età, quindi i trentenni ancora, non sia chiarissimo come utilizzarlo.

In realtà nel mio nome, e poi chiudo per lasciare spazio agli altri, io ho iniziato a usarlo quando il direttore mi ha chiesto che cosa ne pensassi, io gli ho dato un'opinione positiva e allora lui mi ha chiesto di iniziare a pensare ai video.

E io ho chiesto ai miei cugini ventenni, cioè sono andata dalla generazione Z perché così si fa, non è detto che chi è più piccolo di noi ne sappia meno, sia stupido, non sia in grado di formulare un pensiero o un ragionamento, questo è un pregiudizio appunto, ogni generazione ha i suoi standard, ha i suoi canoni, ha i suoi interessi e io per imparare sono andata dai ventenni, manualmente mi sono fatta spiegare e poi dopo ho imparato ad utilizzarlo.

E ne ho scoperto molte potenzialità, io credo che sia un social molto libero quello, uno dei video più belli che ho visto su quel social è un ragazzo vestito di rosa che ballava con tutù e l'ho trovato un'espressione di grandissima libertà.

Si fa tantissima informazione, ci sono i trans che scherzano sulla transessualità e io credo che sia uno dei modi giusti per far progredire questa società, cioè normalizzare quello che viene considerato diverso e farlo entrare a far parte dell'immaginario collettivo.

Volevo fare una domanda Alberto ma Virgi non so se volevi dire qualcosa, mi sembrava che stessi per parlare.

No, stavo annuendo.

Perfetto, allora Alberto in questa situazione in cui si parla di social e di mondo nuovo tu hai un'esperienza anche diversa, che cosa critichi a questo tipo di mondo, a questo tipo di cultura o contro cultura perché dipende anche da che punto di vista lo si guarda.

Ti dico come vedo il quadro dalla mia prospettiva.

Allora, osservo che le piattaforme mediatiche, news social, TikTok, Facebook in sé sono neutri e possono essere utilizzati bene per delle finalità nobili come quelle perseguite da id e da gli uffizi, ma possono essere usati bene per sostenere le idee della comunità dei terapi artisti, per dirne una senza poi andare a cercare comunità che circolano.

Quindi diciamo come qualunque altra piattaforma mediatica dalla stampa a qualunque altra cosa ha questa caratteristica.

Detto questo trovo che nello spazio della rete c'è una enorme segmentazione di comunità, ci sono tante comunità e credo che ci sia la tendenza per molte persone ad andare negli spazi di sociabilità che offrono produzioni o orizzonti etici che già apprezzano o di cui sono già convinti.

Quindi tendo a vedere una qualche rigidità, per cui se in uno spazio culturale tu sei appassionato di trap, difficilmente andrai in un sito web in cui si parla di musica neoclassica contemporanea o in cui si parla di heavy metal e così via per qualunque tipo di argomento.

Quindi vedo un'enorme segmentazione nello spazio del web, grandi potenzialità ma non vedo assolutamente che sia nata un'intelligenza collettiva ben profilata e compatta come quella che Henry Jenkins vedeva più di dieci anni fa in un libro che si chiamava Cultura Convergente.

Lui vedeva questo movimento dal basso verso l'alto per cui gli utenti entrano in web e creano i loro prodotti e ci vedeva un processo di democratizzazione. Sì, c'è la democratizzazione ma c'è anche una grandissima segmentazione e una grandissima varietà etica e contenuti negli spazi di sociabilità.

Di fronte a questa segmentazione si staglia l'ombra delle megacorporations mediatiche perché mentre c'è tutta questa frantumazione in cui tutti noi sprofondiamo, intanto ci sono megacorporations delle dimensioni di Disney o delle dimensioni di Sony o delle dimensioni di Microsoft che sono in grado di produrre con una grande potenza di fuoco dei sistemi metanarrativi che continuano ad essere, secondo me, quelli mainstream.

Ciò che io trovo da criticare nel dominio del mainstream è il carattere ripetitivo e infantilizzante al tempo stesso. Riassumo molto in breve perché non possiamo stare tanto, ma l'ossessione è perigliato fine.

O anche in racconti molto drammatici dove ci sono tanti morti, l'idea che però i protagonisti restano in vita, sono enormemente resilienti anche quando non sono supereroi e quindi va tutto bene alla fine e quindi comunque c'è un esito positivo.

Questo propone a tutti noi un contratto narrativo che non ci chiede soltanto di sospendere temporaneamente la nostra incredulità e quindi pensare che le persone volano in cielo, risolvono qualunque problema, vivono anche nel mezzo di una terribile pandemia stile serie di Rihanna di Armaniti che adesso si può vedere ma poi alla fine te la cavi in ogni caso.

È molto infantilizzante ed è una sospensione dell'incredulità totale, ti chiede questo e ti chiede la rimozione del tragico dal tuo universo immaginario.

Questo lo trovo enormemente infantilizzante, spinge verso atteggiamenti molto conformistici e faccio un'ultima battuta. Questa faccenda dell'infantilizzazione la ritrovo molto in tanti comportamenti che ho visto circolare nel periodo della pandemia.

È vero che c'è una resistenza per dire della nostra società positiva agli effetti della pandemia, una capacità di seguire anche le indicazioni che vengono date per proteggerci dalla pandemia. Ho sentito fare affermazioni pazzesche, prendere sotto gamba l'epidemia, la pandemia, chiedere sostanzialmente all'autorità di tirar fuori la battuta magica e risolvere il problema dall'oggi a domani.

Sono finalità economiche o politiche che capiscono molto necessarie la riapertura di ristoranti, esercizi pubblici, però a volte ci sono degli ostacoli, a volte bisogna prendere atto dei limiti che la realtà ti impone. Ho avuto la sensazione che abbia sbaldato molto.

In questo senso, Ilde, quando Alberto parlava di questo tipo di atteggiamento un po' infantilizzante, tu come lo vedi? Ma soprattutto se i social saranno in qualche modo la chiave per il futuro, come ci si fa a difendere da questo tipo di critica?

Come si fa a dire che alla fine il social è solo il mezzo e il contenuto è quello che cambia?

Il ragionamento che mi ha fatto è molto interessante. Io ho una mia posizione che chiaramente non è riferibile agli uffizi, che è un problema sociale. Chi detiene il controllo sui social e sui mezzi di comunicazione non sono certo i ragazzi, ma sono le generazioni precedenti.

Un atteggiamento verso l'infantilismo credo sia eventualmente, ho studiato, ho cercato una semplificazione voluta da chi decide le politiche di comunicazione, sociali, eccetera. Questo a livello più ampio.

Penso però che i social abbiano dato a volte un contributo positivo durante la pandemia. Parlo del fatto che noi abbiamo fatto le specifiche campagne sul covid, su TikTok, tant'è che uno dei nostri video meglio riusciti, che è stato ripreso da un TED Talk, era proprio la medusa che sconfiggeva il coronavirus,

che riprendeva un audio virale chiaramente reinterpretato e avevamo messo una mascherina medusa per far vedere che se la puoi mettere la medusa in ravaggio, te la puoi mettere anche tu. Passando un messaggio di questo tipo, il ministero della salute aveva fatto una buona campagna.

Da un lato è vero che c'è la delega, l'autorità di risolvere tutti i problemi di questo mondo, dall'altro lato c'è anche una controtendenza a cercare di passare messaggi positivi, educativi e di responsabilizzazione attraverso i canali.

Io penso che il mezzo sia neutro, non è superficiale, non è stupido, la tecnologia non prende parte, sta sempre alle persone, quindi sicuramente i social sono uno strumento indispensabile di comunicazione di cui non possiamo fare a meno.

Le ritengo delle vere e proprie agora e credo che l'opinione sia diffusa, sono delle piazze pubbliche in cui si discute, si informa, si conosce, si comprende. Il fenomeno delle bolle è normale, nel senso che si tende ad andare a cercare quello che ci piace, che ci aggrada, ma con la curiosità e uno sforzo ulteriore se ne può uscire.

La curiosità è sempre la chiave secondo me, perché ci sono sempre interferenze e ci si può contaminare con qualcosa che non si conosce.

Se è irrealistico pensare di tornare indietro a un momento in cui si comunicava in un altro modo, però la scoperta di queste piattaforme è sicuramente ancora in corso e ci vorrà del tempo affinché si crei una coscienza, una consapevolezza sui rischi.

Io li ritengo davvero la chiave del futuro, perché sono imprescindibili. Sta a noi poi capire come utilizzarli al meglio.

Chiaro se l'Italia è il paese delle corporazioni, se si va verso l'aggregazione per sicurezza della società, questo è un punto della società e non del mezzo. Io penso che il mezzo rispecchi la società semplicemente.

Sono assolutamente d'accordo su alcuni punti di questo discorso. È vero che come i social, la questione delle bolle è sempre una questione che si tira fuori con i social, ma non è che prima quando leggevi il giornale andavi a comprare il tuo giornale di fiducia, leggevi delle notizie raccontate in un modo completamente diverso da come te le aspettavi, a meno che non ci fosse un cambio editoriale.

Però lancio una provocazione su questo, nel senso che è vero che i social aiutano a portare avanti delle comunicazioni e delle campagne che sono sicuramente positive, dall'altra parte, Virginia, tu mi insegni che chi lancia questa campagna si fa bello di quel tipo di messaggio.

Io non insegno niente Silvia, scusami. Perché altro che farsi bello, diciamo che c'è una contraddizione nel senso che poi determinati discorsi nel momento in cui tu acquisisci un'influenza, dopodiché diventi appetibile per un mercato che tende a volerti ricondurre all'interno di logiche di profitto.

Quindi per me, non so se esista una soluzione, però io ho capito che ad esempio io mi definisco un hacker, riconducendomi al testo di McKenzie Work, Manifesto Hacker, perché come dicevi tu all'inizio io ho lavorato anche per grossi media

e ho sempre anche invece frequentato ambienti di controcultura proprio per acquisire gli strumenti.

Se Yilde parla di codici comunicativi e di sfruttare i codici comunicativi e di sfruttarli a favore di una causa che si ritiene valida e che si ritiene nobile, che si ritiene culturalmente ricca, così secondo me dovrebbe essere un processo di acquisizione di strumenti, di conoscenza innanzitutto, di come si fa a fare un progetto.

Come funzionano i grossi meccanismi di comunicazione o di marketing in cui siamo inseriti per metterli a servizio di qualcosa che esca poi dalle logiche di profitto.

Faccio un esempio, una cosa che io ho organizzato durante la primissima fase del primo lockdown, quindi la pandemia appena scoppiata, entrata nel vivo, è stato un festival online che abbiamo organizzato su Twitch,

e si vedeva, secondo noi che abbiamo organizzato questo festival, anche un processo di creazione di una piccola comunità. Il festival si chiamava Avant Gardening e parlava appunto, i contenuti erano contenuti di cultura di nicchia, diciamo abbastanza di nicchia, ma non soltanto di nicchia.

Abbiamo tentato di inserire un paio di contenuti che fossero di richiamo per poi far luce anche su tutti gli altri. Quindi c'è anche una sorta di processo di curatela che è un altro strumento comunicativo molto importante,

nel senso che così come Ilde utilizza uno strumento popolare per inserire contenuti alti, anche noi abbiamo tentato facendo questo festival di cercare di portare avanti una causa con uno strumento che fosse riconoscibile come un mini festival,

perché questo festival noi l'abbiamo creato per fare luce su un'esperienza politica che stava avvenendo in quel momento, che era l'esperienza delle Brigate Volontarie, che sono queste persone che appartengono a circuiti controculturali, diciamo di politica dal basso, i famosi ragazzi e ragazze dei centri sociali,

che in un momento in cui le istituzioni erano abbastanza manchevoli, hanno iniziato a distribuire pasti a chi non poteva permettersi di uscire di casa, di andare a prenderli, a distribuire medicinali, eccetera, eccetera.

E quello che secondo noi potevamo fare a servizio di questa causa era fornire degli strumenti comunicativi, cioè noi quattro che abbiamo organizzato questo festival eravamo quattro persone che hanno sempre lavorato in ambienti di comunicazione, in agenzie di comunicazione,

che insomma a Milano quantomeno solitamente sono le bocche d'inferno, cioè sono sempre a servizio poi del capitale, ecco, mentre noi da brave hacker abbiamo messo questi strumenti e anche il nostro network, diciamo, a servizio invece di una causa che ci stava a cuore e che stava proprio fuori da ogni logica, diciamo, di profitto capitalista,

perché il nostro sindaco diceva che dovevamo tornare a lavorare, c'era invece chi si occupava più della parte di cura della società che era, insomma, che è fondamentale ancora, soprattutto in questo momento.

Carmen chiede cultura di nicchia, se puoi fare degli esempi, giusto per farci capire.

Musica sperimentale, poesia, c'era videoarte e poi c'erano anche, diciamo, dei workshop di costruzione di mascherine, c'era anche, diciamo, il nostro VIP era Venerus che è un musicista abbastanza famoso, non so se sia così tanto famoso, ma non è che avessimo neanche poi la possibilità di pagare nessuno.

Però ecco, il modo che abbiamo trovato per hackerare, tra virgolette, il sistema è appunto fornire a un progetto politico, che di solito, diciamo, i progetti politici, soprattutto le esperienze dal basso, fanno fatica a comunicarsi oppure si comunicano in una maniera ancora abbastanza poco accessibile, ecco, alla massa e cercare di fornire un impianto di comunicazione che fosse al loro servizio

In più abbiamo attivato questa raccolta fondi sempre tramite Twitch, che permetteva la donazione diretta e abbiamo raccolto, diciamo, materialmente anche dei soldi per loro, quindi ecco, se ci fosse, secondo me, un punto su cui ragionare sarebbe appunto prendere degli strumenti che noi abbiamo, che di solito sono a servizio di profitto, di logica di profitto,

e metterli invece a servizio di qualche causa culturale o sociale o politica che ci sta più a cuore, insomma.

Quindi, in qualche modo, la tua soluzione è quella dell'hacker. Io per concludere, perché abbiamo proprio pochissimi minuti, volevo porre la stessa domanda anche a Ilde e Alberto, cioè, come se ne esce da questa situazione? C'è bisogno di una controcultura? E nel caso come la si fa, a Ilde chiedo, ce n'è bisogno? Oppure stiamo già andando nella direzione giusta senza bisogno di avere qualcosa di controcultura?

Allora, prima di rispondere a questa domanda, ho visto dei commenti che chiedono sulla sicurezza dei dati di TikTok e volevo rispondere perché la cosa dei dati è molto molto importante. Quindi, se mi permetti, Silvia, vorrei rispondere a questi commenti.

Assolutamente.

Ma in una battuta. Primo, TikTok non esiste come lo conosciamo noi in Cina. Loro usano Duinna. Usano proprio un social diverso, molto molto più controllato dal governo, ovviamente. E non c'è più quella libertà espressiva che c'è su TikTok.

Il problema dei dati è un problema comune a tutti i social. Facebook è in questo momento sottoposto a una classe action miliardaria per la questione dei dati e del tracciamento dei dati anche quando l'utente è fuori da Facebook. Quindi non è un problema di TikTok.

Il problema è che, come sappiamo, i dati sono il nuovo petrolio, sono la nuova ricchezza e quindi tutti cercano di sfruttarli commercialmente. Come è stato più volte detto, se la cosa è gratis, il prezzo sei tu, insomma. Sei tu la match di scambio.

Sulla contropoltura, ed è una posizione sicuramente provocatoria e probabilmente da criticare, non so, però è la mia, io credo che i social in un certo senso la facciano. Perché? Perché per inserirti nel panorama istituzionalizzato della comunicazione, che sono i giornali, la televisione, anche l'editoria in un certo senso, uno ha bisogno di avere un capitale proprio fisico alle spalle.

E sicuramente qualcuno che è in senso lato ti sponsorizza, cioè qualcuno che ti presenta. Il social in questo senso fa contropoltura ed è democratico perché se tu sei bravo, sai comunicare e hai delle idee, non importa essere ricchi, avere gli strumenti o venire da un certo ambiente per riuscire a comunicare.

Quindi io in questo senso li trovo molto democratici e possono essere un modo per qualcuno per emergere senza avere possibilità o strumenti per farlo. Il che non vuol dire che poi il messaggio che viene passato sia banale, perché qualcuno può non avere gli strumenti per farsi largo nei settori più istituzionalizzati, ma può avere qualcosa da dire su un social e avere un messaggio profondo allo stesso modo.

Ci sono dei grandissimi pensatori del passato che ci hanno insegnato e non serve la laurea per saper pensare e io credo che questo sia possibile anche lì. Non sarà su 100, ce ne sarà uno, però è possibile.

Per chiudere perché siamo davvero alla fine, l'ultima battuta di Alberto e abbiamo 30 secondi per aprire un mondo e richiuderlo, quindi chiedo già scusa.

Era interessante questo aspetto della nascita della controcultura. La controcultura negli anni 60-70 nasce da un'idea di comunità, di gente unita, di gruppo che si muove insieme. Oggi è diversa l'ambientazione in cui viviamo, in cui respiriamo. Come si fa controcultura oggi? Come se ne esce da questo impasto?

Come se ne esce? Faccio due osservazioni un pochino in dissenso rispetto a Ilde. E' un peccato che arriviamo al dissenso alla fine e dopo dobbiamo chiudere. I social sono democratici, sì, lo sono, ma sono democratici sia che uno voglia far passare dei contenuti alti come quelli che sono fatti passare da Ilde e dal team degli uffizi e sono democratici.

Sia che uno voglia far passare teorie terapie triste. Se uno è bravo a muoversi con le strategie comunicative, a costruire una comunità emotiva facendo passare i contenuti di qua non, e ce la fa. Allora, come si esce da questa dinamica?

Secondo me si esce riportando il discorso in un'altra parte, cioè facendo in modo che i sistemi educativi, che la scuola in modo particolare, formi nuove generazioni con strumenti adeguati. Non solo strumenti che consentono alle nuove generazioni di sapere come ci si muove su TikTok e Facebook, che pure mi fanno una cosa molto importante, ma anche strumenti che sono quelli delle migliori scienze sociali del XX e XXI secolo.

Non riesco che nelle scuole superiori, a parte i licei delle scienze umane, i programmi siano strutturati in modo tale per cui tu non sai chi è Derrida, non sai chi è Foucault, non sai chi è Geertz, non sai chi è Margaret Mead e non lo saprei mai molto spesso se quando è finito il tuo curriculum o non sai chi è Chomsky o non sai chi è Jenkins, cioè persone che studiano i media e la cultura di massa.

E non lo saprei mai nella tua vita probabilmente se tu magari non fai studi umanistici dopo che hai finito gli studi superiori. Ecco, io trovo che questo è una cosa pazzesca. Quindi, per rendere più solida la nostra società, credo che dovremmo affrontare seriamente il tema in Italia e anche altrove sempre quello di una serie di forma scolastica, non come quelle che sono state fatte finora.

Io trovo stupefacente che da secoli, adesso esagero, da decenni non si parli dei contenuti educativi in modo serio. È possibile che non si possa trasmettere alle ragazze le scienze umane, le scienze sociali più aggiornate?

Ecco, questo lo trovo, se ci fosse questo meccanismo avremmo, come dire, molte persone con strutture cognitive molto più solide in modo da, per dire, rifiutare senza neanche un attimo di incertezza un operatore bravo su TikTok che ti vuole svendere una teoria terapietista o che ti vuole svendere una teoria Qanon o una teoria basata su fake news.

Però se invece hai persone che sono perse dietro parmenide, trovo difficile che ci siano strutture cognitive solide.

Sicuramente è un dibattito che non si può esaurire in un'ora, noi ci abbiamo provato ma ovviamente arriviamo ai conflitti anche forse in ritardo.

Ma io ringrazio tutti, ringrazio Alberto, Vanti e il De Forgione Virginia Ricci per aver partecipato a questo panel perché abbiamo veramente tirato fuori un sacco di temi, cultura, educazione, social, eccetera.

Io rinnovo l'appuntamento, vi ricordo che ci rivediamo tra due settimane, quindi il 12 maggio, per una puntata che sarà sul futuro, quindi saranno altri temi ancora più, forse più divisivi, vedremo.

Grazie mille per aver partecipato stasera e ci vediamo tra due settimane.

Grazie.