10. Il Re fa abbassar l'uscio della camera... [...] Astuzia di Bertoldo per comparire innanzi al Re nel modo sopradetto.
Il Re fa abbassar l'uscio della sua camera acciò Bertoldo convenga in chinarsi nell'entrar dentro la mattina. Partissi Bertoldo, e il Re fece abbassar l'uscio della sua camera tanto che chi voleva entrare in essa, bisognava per forza inchinarsi con il capo; e ciò fece acciò che Bertoldo alla tornata ch'ei faceva si dovesse inchinare nell'entrare e così venisse a fargli riverenza al suo dispetto. E così stava aspettando il giorno per vedere il successo della cosa.
Astuzia di Bertoldo per non inchinarsi al Re.
La mattina l'astuto Bertoldo tornò alla corte, come era suo solito, e veduto l'uscio abbassato in quella maniera penso subito alla malizia e conobbe che il Re aveva fatto far questo solamente perché esso nell'entrare a lui se le inchinasse; onde in cambio di chinare il capo e abbassarlo nell'entrare dentro, voltò la schiena ed entrò all'indietro a tal che, in cambio di far riverenza al Re, gli voltò il podice e l'onorò con le natiche. Allora il Re conobbe che costui era astuto sopra gli altri astuti ed ebbe caro simil piacevolezza; pur, mostrando d'essere alquanto alterato, gli disse: Re.
Chi t'ha insegnato, villan ribaldo, d'entrar nelle case a questa foggia? Bertoldo.
Il gambaro.
Re.
Perché il gambaro? Tu hai avuto un buon pedante, certo.
Favola del gambaro e della granzella narrata da Bertoldo.
Bertoldo.
Tu dei sapere che il mio padre aveva fin a dieci figliuoli ed era povero come ancora son io, e perché spesse volte non vi era pane da cena, egli, in iscambio di cibarci e mandarci pasciuti a letto, ci soleva contare qualche favola a buon conto per farci addormentare, e così la solevamo passare fino alla mattina; onde fra l'altre ch'io gli udì raccontare, questa mi restò nella mente, e se tu hai pazienza di darmi un poco di udienza, udirai cosa che non ti spiacerà e torna a punto al proposito nostro. Re.
Di' pur su, che ciò mi sarà di sommo piacere. Bertoldo.
Diceva il mio padre che quando le bestie parlavano e che le civette cacavano mantelli, che il gambaro e la granzella, amici carissimi, si disposero d'andare un poco per lo mondo a vedere come si viveva negli altri paesi (e il gambaro allora caminava all'innanzi come fa l'altro bestiame, e similmente la Granzella non andava per traverso, come fanno al presente). Ora costoro partironsi dalle paterne case, andarono molto tempo girando il mondo e furono nel regno delle cavallette; poi passarono su quello delle lucerte, che confina con quello del Re dè parpaglioni, e così circondarono gran parte della terra e videro vari riti e vari costumi fra quelle bestiole; alla fine capitarono nel paese dè schiratoli ed era sera; e perché fra gli schiratoli e le donnole era grandissima guerra per esser confinanti insieme e per una nuova sospizione di tradimento si stava in arme dall'una e dall'altra parte, arrivati questi due compagni in simil luoco, furono dalle guardie scoperti e tolti per due spioni; e subito presi e legati furono condotti innanzi al loro capitano, il quale, fattogli essaminare minutamente non trovò in essi altro se non che, desiderosi di veder del mondo, erano giunti in quelle parti e che come forastieri non erano informati di cosa alcuna, e che bramavano di esser posti in libertà e tornarsene alle patrie loro; o pure, se volevano trattenergli per soldati, gli dessero il soldo come agli altri, ch'essi gli averiano serviti in quella guerra fidelissimamente. Inteso ciò dal capitano, subito gli fece slegare, e parendogli essere bestie da fazzione, per avere tanti piedi e tante braccia, gli accettò e subito gli fece passar la panca. Ora avvenne che, essendo mandato il gambaro a spiare quello che si faceva nel campo dè nemici, come quello ch'era nuovo personaggio in quel paese e che caminava con grandissimo silenzio e spesso si copriva tutto sotto la coda, non sarebbe conosciuto così facilmente; esso andò animosamente nel campo nemico e, trovando le guardie che dormivano, passò avanti e andò fino al padiglione del Donnolotto, pensando ch'ivi ancora si dormisse; ma il meschino ebbe la mala fortuna perché ivi si stava svegliato e giocavano a massa e topa, onde nel porre ch'ei fece il capo dentro, subito fu visto da uno di quei soldati, il quale cheto cheto si levò da giocare, che il povero gambaro non se n'avidde, e preso uno stanghetto gli tirò così fatto colpo sul capo, che lo stordì di maniera ch'ei parea morto, e se egli non si fusse trovato indosso le sue solite arme, il cervello gli andava a spasso. Colui che lo percosse, non sapendo ch'ei fosse una spia, ma credendosi che quivi fosse capitato a caso, non avendo mostaccio a proposito da spia e credendolo morto, lo prese per le corna e lo gettò in un fosso, e senza altro sospetto tornò a giocare. Ora, ritornato il misero in se stesso e non potendo appena levare il capo per la gran percossa ricevuta, giurò di mai più non voler entrare con il capo inanti in luoco alcuno, ma caminare con la coda, acciò se più gli veniva dato delle busse, che più tosto gli fusse dato sulla schiena che sulla testa. Così, tornato al campo, fece la relazione di quanto gli era intravenuto, e come le guardie dormivano ma che nel padiglione si veghiava; onde il capitano fece armare chetamente le sue schiere, e andò ad assaltare il nemico e prese il padiglione e uccise tutti quelli che vi erano dentro, e fecero le vendette del bastonato gambaro. Il quale, per non giunger più a simil passo, disse alla granzella: "Andiamoci con Dio, perché la guerra non fa per noi". "Ma come fuggiremo - disse la granzella - che non siano vedute le nostre pedate?" "Tu caminerai per traverso - disse il gambaro - e io all'indietro, e così ci torremo di sotto". Piacque la proposta alla granzella, e subito si levò in punta di piedi e gentilmente cominciò a caminare di gallone e con tanta destrezza che il gambaro a pena poteva tenergli dietro; e così si partirono dal campo e mai non potero coloro sapere dove fossero andati per lo stravagante caminare che facevano. Così giunsero alle case loro e, per i pericoli nè quali erano stati, lasciarono per testamento che tutti i descendenti loro dovessero per l'avenire caminare sempre come avevano fatto essi nel tornare alle case loro; e fin ora si vede che il gambaro camina all'indietro e la granzella per fianco. E perché il gambaro ebbe quella bacchettata sul capo nel cacciarsi nel padiglione, io me lo son sempre tenuto a mente, e per questo nel cacciarmi nella tua camera sono entrato alla roversa, perché meglio è che il sedere sia percosso che il capo. Or che ne dici? Non è bella questa favola
Re.
Sì, certo, e sei stato un grand'uomo. Orsù vattene a casa e torna domani da me e fa' ch'io ti vegga e non ti vegga, e portami l'orto, la stalla e il molino. Bertoldo.
Indovinala tu, Grillo. Orsù, io vado, e m'ingegnarò di fare quel ch'io saprò. Astuzia di Bertoldo per comparire innanzi al Re nel modo sopradetto.
Il giorno seguente Bertoldo fece fare una torta a sua madre di bietole ben unta con butiro, casio e ricotta in abbondanza, e poi, preso un crivello da formento, se lo pose sopra la fronte, sì che pendeva giù al petto e al ventre; e così con esso e con la torta tornò dal Re, il quale, vedendolo comparire in guisa tale, ridendo disse:
Re.
Che cosa vuol dire quel crivello che tu hai dinanzi al viso?
Bertoldo.
Non mi commettesti tu ch'io tornassi a te in modo tale che tu mi vedessi e non mi vedessi? Re.
Sì, ti commisi.
Bertoldo.
Eccomi dunque doppo i buchi di questo crivello, dove tu mi puoi vedere e non mi puoi vedere.
Re.
Tu sei un grand'uomo e ingegnoso; ma dove l'orto, la stalla e il molino ch'io ti dissi che tu portassi? Bertoldo.
Ecco qui questa torta, nella quale vi sono infuse tutte tre le dette cose, cioè la bietola, la quale dinota l'orto, il casio, il butiro e la ricotta, che significa la stalla, e la spoglia della farina, che altro non vuol dimostrare che il molino. Re.
Io non ho mai veduto né pratticato il più vivo intelletto del tuo; però serviti della mia corte in ogni tua occorrenza.