2. VARIUS MULTIPLEX MULTIFORMIS (2)
Se fosse durata troppo a lungo, la vita di Roma m'avrebbe inasprito, corrotto o logorato. Tornare alle armi mi salvò. La vita militare comporta anch'essa qualche compromesso, ma meno impegnativo. Partire per l'esercito significava viaggiare: partii folle di gioia. Ero stato promosso tribuno alla Seconda Legione, l'Adiutrice: trascorsi qualche mese d'un autunno piovoso sulle sponde dell'alto Danubio, senz'altra compagnia che l'ultima opera di Plutarco. In novembre fui trasferito alla Quinta Legione Macedone, acquartierata a quei tempi (come tuttora) alle foci di quello stesso fiume, sulle frontiere della Mesia Inferiore. La neve che bloccava le strade m'impedì di viaggiare via terra; m'imbarcai a Pola; ed ebbi appena il tempo, cammin facendo, di rivedere Atene, dove più tardi avrei vissuto a lungo. La notizia dell'assassinio di Domiziano, annunciata pochi giorni dopo il mio arrivo al campo, non meravigliò nessuno e rallegrò tutti. Ben presto, Traiano fu adottato da Nerva; l'età avanzata del nuovo principe rendeva questa successione una faccenda di mesi, al più tardi: la politica di conquiste, nella quale si sapeva che mio cugino si proponeva d'impegnare i concentramenti di truppe che cominciavano a effettuarsi, il progressivo irrigidirsi della disciplina tenevano l'esercito in uno stato di fervore e di attesa. Quelle legioni danubiane operavano con la precisione d'una macchina di guerra ben lubrificata; non somigliavano affatto alle guarnigioni intorpidite dall'inerzia che avevo conosciute in Spagna; quel che più conta, l'attenzione dell'esercito non si rivolgeva più alle discordie di palazzo, e tornava agli affari esteri dell'impero; le nostre truppe non si riducevano più a una banda di littori pronti ad acclamare o a sgozzare il primo venuto. I più intelligenti tra gli ufficiali cercavano d'individuare un piano generale in quelle riorganizzazioni alle quali prendevano parte, di prevedere l'avvenire, e non soltanto il proprio. D'altro canto, su questi eventi ancora nella fase iniziale venivano scambiati non pochi commenti ridicoli, e ogni sera, sulla superficie del tavolino, si abbozzavano piani strategici, gratuiti oltreché insensati. Il patriottismo romano, la fede incrollabile nei benefici della nostra autorità su tutte le genti, nella missione di Roma di governarle, in quegli uomini del mestiere assumevano forme brutali, alle quali non ero ancora assuefatto. Alle frontiere, proprio là dove sarebbe stato saggio usare diplomazia, almeno sul momento, per conciliarci alcuni capi nomadi, i militari eclissavano completamente i politici; le prestazioni obbligatorie e le requisizioni in natura davano luogo ad abusi di cui nessuno si sorprendeva più.
Grazie alle discordie perpetue tra barbari, la situazione a nord-est a conti fatti era la più favorevole che si potesse sperare: dubito persino che le guerre ulteriori l'abbiano migliorata in qualche modo. Gli incidenti di frontiera ci provocavano scarse perdite, preoccupanti solo perchè reiterate; riconosco però che quello stato di allarme permanente serviva almeno a tener desto lo spirito di corpo. Tuttavia, ero persuaso che si sarebbe riusciti, con un dispendio minore, ma esercitando maggiore perspicacia, a soggiogare alcuni capi, ad attirarci le simpatie degli altri; e stabilii di consacrarmi in particolar modo a quest'ultimo compito, che tutti trascuravano.
Mi ci spingeva la mia inclinazione verso tutto ciò che è esotico: frequentare i barbari mi piaceva. Il vasto paese che si estende tra le bocche del Danubio e quelle del Boristene, un triangolo del quale ho percorso almeno due lati, vanta alcune tra le regioni più sorprendenti del mondo, almeno per noi, nati sulle rive del Mare Interno, avvezzi ai paesaggi nitidi e aridi del Sud, alle colline, alle penisole. Laggiù, m'è accaduto di adorare la dea Terra, come qui adoriamo la dea Roma; e non parlo tanto di Cerere, quanto d'una divinità più antica, anteriore persino alla scoperta delle messi. Il nostro suolo greco o latino, sostenuto ovunque dall'ossatura delle rocce, ha l'eleganza schietta d'un corpo virile: la terra scita aveva l'opulenza un po' greve d'un corpo riverso di donna. La pianura si confondeva con il cielo. Non finivo mai di stupirmi di fronte al miracolo dei fiumi: quella vasta terra vuota rappresentava soltanto un declivio e un alveo. I corsi d'acqua da noi sono brevi: non ci si sente mai lontano dalle sorgenti. Ma quel flusso enorme che sfociava in estuari intricati trascinava il fango di un continente sconosciuto, i ghiacci di regioni inabitabili. Non c'è freddo più intenso che quello di un altipiano di Spagna, ma laggiù mi trovavo faccia a faccia per la prima volta con l'inverno autentico; nei nostri paesi, esso non fa che apparizioni più o meno fugaci, ma laggiù s'insedia per periodi interminabili, di mesi, e più a settentrione s'indovina immutabile, senza inizio e senza fine. La sera del mio arrivo al campo, il Danubio era un'immensa pista di ghiaccio purpureo, poi si fece turchino; il lavorìo sotterraneo delle correnti lo striava di solchi profondi come quelli dei carri. Ci proteggevamo dal freddo con pellicce. La presenza di quel nemico impersonale, quasi astratto, produceva in noi un'esaltazione straordinaria, un senso di energia più intensa. Si lottava per conservare il calore come altrove il coraggio. Vi erano giorni in cui la neve, sulla steppa, cancellava tutti i contorni, già appena discernibili; si galoppava in un mondo di spazio puro, di atomi puri. Il gelo donava alle cose più banali, alle più molli, una trasparenza, e nello stesso tempo una durezza celeste. Ogni canna infranta si trasformava in un flauto di cristallo. Al crepuscolo, Assar, la mia guida caucasica, fendeva il ghiaccio per abbeverare i cavalli. Quegli animali, del resto, rappresentavano una delle occasioni più utili di contatto con i barbari: si stabiliva tra noi una specie di dimestichezza nelle compravendite, nelle discussioni interminabili; nasceva un certo rispetto reciproco, per qualche prodezza equestre. A sera, i fuochi dei bivacchi illuminavano le piroette straordinarie di quei loro danzatori dalla vita sottile, e i loro bizzarri braccialetti d'oro.
Quante volte, in primavera, quando il disgelo mi consentì di avventurarmi nelle regioni dell'interno, m'è accaduto di volgere le spalle all'orizzonte del Sud, che racchiudeva i mari e le isole note, a quello dell'Occidente, ove in qualche posto il sole tramontava su Roma, e di sognare d'inoltrarmi in quelle steppe, oltrepassare i contrafforti del Caucaso, verso nord, o verso gli estremi confini dell'Asia. Quali climi, quale fauna, quali razze d'uomini avrei scoperto, quali imperi, ignari di noi come noi di loro, o tutt'al più informati della nostra esistenza grazie a qualche mercanzia, giunta loro attraverso lunghe serie di mercanti, rara per essi quanto lo è per noi il pepe dell'India, il chicco d'ambra delle regioni baltiche?
A Odessos, un mercante tornato da un viaggio di vari anni in quei luoghi mi donò una pietra verde, quasi diafana, che pare sia considerata sacra in un regno immenso di cui egli aveva solo costeggiato i confini, e di cui quell'individuo, inteso solo al suo profitto, non aveva osservato i costumi né gli dèi. Quella gemma bizzarra fece su me la stessa impressione d'una pietra caduta dal cielo, una meteora d'un altro mondo. Conosciamo ancora piuttosto male la configurazione della terra; e non capisco come ci si rassegni a tale ignoranza. Invidio coloro che riusciranno a compiere il giro dei duecentocinquantamila stadi greci calcolati così bene da Eratostene, percorrendo i quali ci si ritroverebbe al punto di partenza. M'immaginavo nell'atto di prendere semplicemente la decisione di continuare a camminare davanti a me, sulla pista che ormai sostituiva le nostre strade. Questa idea mi piaceva... Esser solo, senza beni, senza prestigio, senza alcuno dei benefici d'una qualsiasi cultura, tra uomini nuovi, nel cuore di mondi vergini... Va da sè che era solo un sogno, il più breve di tutti. Quella libertà che inventavo non esisteva che nella mia fantasia: presto, mi sarei creato di nuovo tutto quello a cui avrei rinunciato. Dappertutto non sarei stato altro che un romano in esilio: una specie di cordone ombelicale mi legava all'Urbe. Forse, in quegli anni, al rango di tribuno, mi sentivo legato all'impero più strettamente di quel che non lo sia oggi, da imperatore, per la stessa ragione che le ossa del polso sono meno libere del cervello. Ciò nonostante, quel sogno mostruoso, che avrebbe fatto fremere i nostri avi, saggiamente confinati nella loro terra del Lazio, io l'ho fatto, e l'averlo avuto solo un istante mi rende diverso da essi per sempre.
Traiano si trovava alla testa delle truppe, nella Germania Inferiore; l'armata del Danubio mi inviò a recare i suoi rallegramenti al nuovo erede dell'impero. Mi trovavo a tre giorni di marcia da Colonia, in piena Gallia, quando, durante la tappa della sera, ci fu annunciata la morte di Nerva. Fui tentato di precedere il corriere imperiale, e di recare io stesso la notizia del suo avvento a mio cugino. Partii al galoppo e viaggiai senza fermarmi in nessun luogo, salvo a Treviri, ove risiedeva mio cognato Serviano, in qualità di governatore. Cenammo insieme. La mente vacua di Serviano era piena di fumi imperiali. Quell'uomo tortuoso cercava di nuocermi, o almeno d'impedirmi di aver successo, e almanaccò di prevenirmi inviando un suo messo a Traiano. Due ore dopo, al guado d'un corso d'acqua, subii un'aggressione: i sicari ferirono la mia ordinanza, e uccisero i nostri cavalli. Riuscimmo tuttavia a catturare uno dei nostri aggressori, un antico schiavo di mio cognato, e costui confessò ogni cosa. Serviano avrebbe dovuto rendersi conto che non si ferma tanto facilmente un uomo risoluto di proseguire il suo cammino, a men di non giungere fino al delitto, davanti al quale la sua viltà indietreggiava. Mi toccò fare a piedi circa dodici miglia prima d'incontrare un contadino che mi vendette il suo cavallo. Giunsi a Colonia la sera stessa, precedendo di poche lunghezze il messo di mio cognato. Questa singolare avventura ebbe successo, e le accoglienze nell'armata furono ancora migliori. L'imperatore mi trattenne presso di sè in qualità di tribuno della Seconda Legione, la Fedele.
Aveva appreso la notizia del suo avvento con disinvoltura ammirevole. Se l'aspettava da tempo: i suoi progetti non ne venivano modificati affatto. Restava quello che era stato sempre, quel che sarebbe stato fino alla morte: un capo delle forze armate, ma la sua virtù consisteva nell'aver acquisito, grazie a una concezione tutta militare della disciplina, un'idea di quel che è l'ordine nello Stato. Tutto si disponeva attorno a questa idea, per lo meno agli inizi; persino i suoi piani di guerra e i suoi progetti di conquista. Imperatore-soldato, sì, ma non soldato-imperatore. Non mutò nulla della sua vita; la sua modestia non aveva bisogno né di affettazione né di boria. Mentre l'esercito faceva festa, egli accettava le responsabilità nuove come una parte del suo lavoro quotidiano, e mostrava la sua contentezza, agli intimi, con semplicità.
Gli ispiravo scarsissima fiducia. Era mio cugino, di ventiquattro anni più vecchio di me, e, dopo la morte di mio padre, mio cotutore. Adempiva i suoi doveri verso la famiglia con la serietà che si usa in provincia, pronto a far di tutto per promuovermi, se ne ero degno, ma a trattarmi con maggior rigore di chiunque altro se mi mostravo incompetente. Per le mie follie giovanili, aveva mostrato un'indignazione non del tutto ingiustificata, ma di quelle che si hanno solo tra parenti; i miei debiti, del resto, lo scandalizzavano più delle mie sregolatezze. Altri aspetti della mia natura lo impensierivano: uomo di scarsa cultura, nutriva un rispetto commovente verso i filosofi e i letterati, ma altro è ammirarli alla lontana, altro avere al proprio fianco un giovane luogotenente invasato di letteratura. Ignorando ove si trovassero i miei principi, i miei freni, riteneva che ne fossi sprovvisto, e alla mercè degli istinti. Però, non avevo commesso mai l'errore di trascurare il servizio: la mia reputazione di ufficiale lo rassicurava, ma, per lui, non ero che un giovane tribuno promettente, da sorvegliare da vicino.
Poco mancò che un incidente privato non mi pregiudicasse: un bel volto mi conquistò. Mi legai appassionatamente a un giovinetto che anche l'imperatore aveva adocchiato. Era un'avventura pericolosa, e proprio per questo la godevo di più. Un certo Gallo, segretario di Traiano, che da un pezzo si faceva un dovere di fornirgli ogni particolare sui miei debiti, ci denunciò all'imperatore. Egli s'irritò enormemente: fu un momento difficile. Qualche amico, tra i quali Acilio Attiano, s'interpose per impedirgli d'intestardirsi in un rancore ridicolo; finì per cedere alle loro insistenze, e questa riconciliazione, sulle prime poco sincera da ambo le parti, fu più umiliante per me di quel che non fossero state le sue scenate. Confesso d'aver conservato un odio senza pari contro quel tale Gallo. Molti anni dopo, l'uomo fu dichiarato colpevole di falso in atto pubblico, e mi vidi vendicato con gioia.
La prima spedizione contro i Daci fu lanciata l'anno seguente. Io mi sono sempre opposto, sia per inclinazione che per politica, a tutte le guerre, ma sarebbe stato troppo al di sopra- o al di sotto - dell'umano non inebriarsi per quelle grandiose imprese di Traiano. Visti nell'insieme, a distanza, quegli anni di guerra, posso annoverarli tra quelli felici. Gli inizi furono duri, o almeno tali mi parvero. Sulle prime, occupai posti subalterni; non avevo ancora guadagnato interamente la benevolenza di Traiano. Ma conoscevo bene il paese; sapevo d'essere utile. Quasi a mia insaputa, un inverno dopo l'altro, un accampamento dopo l'altro, una battaglia dopo l'altra, sentivo crescere in me le obiezioni alla politica dell'imperatore; obiezioni che in quell'epoca, non avevo né il diritto né il dovere di esprimere a voce alta; e del resto, nessuno m'avrebbe dato retta. Quanto più ero messo in disparte, al quinto grado o addirittura al decimo, tanto meglio conoscevo le truppe, e partecipavo alla loro vita. Possedevo ancora una certa libertà d'azione, o piuttosto consideravo con un certo distacco l'azione in se stessa - cose che ci si permettono difficilmente una volta giunti al potere, e varcati i trent'anni. E avevo qualche vantaggio al mio attivo: la simpatia per quel paese inclemente, la passione per tutte le forme volontarie, e del resto intermittenti, di privazioni e di austerità. Ero forse il solo tra gli ufficiali giovani a non avere nostalgia di Roma. Più si prolungavano gli anni nel fango e nella neve, più si mettevano in evidenza le mie qualità.
Vissi laggiù tutta un'epoca di esaltazione straordinaria, dovuta in parte all'influenza d'un gruppo di luogotenenti che avevo intorno; essi, dalle più remote guarnigioni d'Asia, erano venuti a conoscenza di strane divinità. Il culto di Mitra, che allora era meno diffuso di quel che non sia divenuto dopo le nostre spedizioni contro i Parti, mi attirò qualche tempo con le esigenze di quell'arduo ascetismo, che tendeva duramente l'arco della volontà, con l'ossessione della morte, del ferro e del sangue, che elevava al livello di spiegazione del mondo i banali disagi della nostra esistenza di soldati. Nulla poteva contrastare di più con le opinioni che cominciavo a formarmi sulla guerra; ma quei riti barbari, che creano tra gli affiliati legami di vita e di morte, lusingavano le fantasticherie più recondite d un giovane impaziente del presente, incerto dell'avvenire, e proprio per questo accessibile agli dei. Fui iniziato in una torre di legno e di canne in riva al Danubio, fu mio padrino Marcio Turbo, un compagno d'armi. Ricordo che il peso del toro agonizzante fu lì lì per far crollare il pavimento a graticci sotto cui stavo per ricevere l'aspersione di sangue. In seguito, ho riflettuto ai pericoli che possono rappresentare per lo Stato, sotto un principe debole, siffatte società segrete, e ho finito per infierire contro di esse, ma confesso che quando si è in presenza del nemico esse conferiscono agli adepti una forza quasi sovrumana. Ciascuno di noi era convinto di sfuggire ai limiti angusti della propria condizione umana, si sentiva se stesso e l'avversario simultaneamente, assimilato al dio di cui non si sa più se muore nelle spoglie di bestia o se uccide sotto forma umana. Quei sogni bizzarri, che a volte oggi mi sgomentano, non differivano poi profondamente dalle teorie di Eraclito sull'identità dell'arco e del bersaglio. Allora, mi aiutavano a tollerare la vita. La vittoria e la sconfitta si mescolavano, si confondevano, erano raggi diversi d'una stessa luce solare. Quei fanti daci che calpestavo sotto gli zoccoli del cavallo, quei cavalieri sarmati abbattuti in seguito nei corpo a corpo dove i nostri cavalli impennati si mordevano al petto, m'era tanto più facile colpirli in quanto m'identificavo con loro. Se fosse rimasto abbandonato sul campo di battaglia, il mio corpo spoglio delle vesti non sarebbe stato tanto diverso dal loro. Identico sarebbe stato l'urto dell'ultimo colpo di spada. Ti confesso qui pensieri singolari, tra i più segreti della mia vita, e un'ebbrezza strana, che non ho mai più ritrovata esattamente sotto quella forma.
Un certo numero di azioni brillanti, che forse, compiute da un semplice soldato, non si sarebbero nemmeno notate, mi procurarono una reputazione a Roma e una certa notorietà nell'armata. La maggior parte delle mie sedicenti prodezze, d'altro canto, non erano che bravate inutili; oggi vi scopro, non senza vergogna, la mia bassa voglia di successo a qualunque prezzo, e di emergere, insieme a quell'esaltazione quasi sacra di cui ti parlavo poc'anzi. Fu così che un giorno d'autunno traversai a cavallo il Danubio gonfiato dalle piogge, avendo indosso l'armatura pesante dei militi batavi. Di questo fatto d'arme, se tale lo si può chiamare, il mio cavallo ebbe maggior merito di me. Ma quel periodo di eroiche follie m'ha insegnato a distinguere tra i diversi aspetti del coraggio: quello che mi piacerebbe possedere sempre dovrebbe essere gelido, indifferente, scevro da qualsiasi esaltazione fisica, impassibile come l'equanimità d'un dio. Non mi lusingo di averlo raggiunto mai. In seguito, mi sono servito d'una contraffazione di esso; ma questa, nei miei giorni peggiori, non era che cinica noncuranza della vita, e, in quelli migliori, senso del dovere, al quale m'aggrappavo. Ma ben presto, per poco che durasse il pericolo, l'uno o l'altro sentimento cedevano il posto a un delirio d'intrepidità, specie di strano orgasmo dell'uomo unito al suo destino. All'età che avevo, questo coraggio insensato persisteva incessante. Un essere ebbro di vita non pensa alla morte; la morte non esiste; ciascuno dei suoi gesti la nega. Se ne è colpito, probabilmente non se ne accorge; per lui, essa non è che un colpo, uno spasimo. Sorrido amaramente nel ripetermi che oggi, su due pensieri, uno lo dedico alla fine, come se si dovessero far tante storie per convincere all'inevitabile questo nostro corpo logorato. A quei tempi, invece, un giovane che avrebbe perduto molto a non vivere qualche anno di più, rischiava il suo avvenire allegramente ogni giorno.
Sarebbe facile mostrare quel che t'ho raccontato finora come la storia d'un soldato troppo letterato che vuol farsi perdonare le sue letture: ma semplificare così la prospettiva è falso. Regnavano in me di volta in volta personaggi diversi, nessuno dei quali molto a lungo; ma presto quello esautorato riconquistava il potere: l'ufficiale meticoloso, fanatico della disciplina, pronto a dividere con gioia le privazioni della guerra con i suoi uomini; il malinconico sognatore di dei, l'amante pronto a tutto per un istante di ebbrezza; il giovane luogotenente altero che si ritira sotto la tenda, studia le sue carte alla luce d'un lume, e non fa mistero agli amici del suo disprezzo per come va il mondo; finanche il futuro statista. Ma non dimentichiamo neppure il cortigiano ignobile, che, per non dispiacere, accetta di ubriacarsi alla tavola imperiale; il giovincello che sentenzia dall'alto su ogni questione con sicumera ridicola; il parlatore frivolo, capace di perdere un amico per una battuta; il soldato, che compie con precisione meccanica i suoi bassi compiti da gladiatore. E ricordiamo pure quel personaggio vacuo, senza nome, senza posto nella storia, ma che è me stesso tanto quanto tutti gli altri, semplice zimbello delle cose, null'altro che un corpo, disteso sul letto da campo, distratto da un profumo, preoccupato d'un soffio, vagamente attento al ronzio incessante di un'ape. Poco a poco, entrava in funzione un nuovo venuto, un direttore di compagnia, un regista. Conoscevo i nomi dei miei attori; regolavo loro entrate e uscite plausibili; tagliavo le risposte inutili; evitavo con cura gli effetti volgari. Imparavo, infine, a non abusare del monologo. Poco a poco, le mie azioni mi formavano.
I successi militari avrebbero potuto attirarmi l'invidia d'un uomo che fosse stato meno grande di Traiano. Ma il coraggio era la sola lingua che egli comprendesse immediatamente, le cui parole gli parlassero al cuore. Finì per vedere in me un secondo se stesso, quasi un figlio, e nulla di ciò che avvenne in seguito potè mai separarci completamente. Da parte mia, alcune riserve alle sue opinioni, che nascevano in me, furono messe in disparte, per il momento almeno, obliate al cospetto del suo mirabile genio militare. M'è piaciuto sempre vedere un grande specialista al lavoro: l'imperatore, nel suo campo, era d'un'abilità, d'una sicurezza senza pari. Messo alla testa della Legione Minervina, la più gloriosa di tutte, fui comandato a distruggere le ultime trincee del nemico nella regione delle Porte di Ferro. Accerchiata la cittadella di Sarmizegetusa, entrai al seguito dell'imperatore nella sala sotterranea dove i consiglieri del re Decebalo s'erano appena avvelenati, durante l'ultimo banchetto; ed ebbi dall'imperatore l'incarico di dar fuoco a quel singolare coacervo di morti. La sera stessa, tra i dirupi del campo di battaglia, Traiano m'infilò al dito l'anello di diamanti che aveva ricevuto da Nerva, e ch'era rimasto quasi il pegno della successione al potere.
Quella notte m'addormentai contento.