5. DISCIPLINA AUGUSTA (1)
Tornai in Grecia via terra. Fu un viaggio lungo. Avevo ragione di credere che, senza alcun dubbio, sarebbe stato il mio ultimo viaggio ufficiale in Oriente; e a maggior ragione ci tenevo a ispezionare tutto di persona. Antiochia dove feci una sosta di poche settimane, m'apparve sotto un aspetto nuovo; ero meno sensibile che in altri tempi all'attrazione dei teatri, alle feste, ai piaceri dei giardini di Dafne, alla folla turbinante che mi sfiorava. Notai di più l'incostanza perenne di quel popolo maldicente o motteggiatore, che mi ricordava quello d'Alessandria, la vacuità dei pretesi esercizi intellettuali, lo sfoggio volgare del lusso da parte dei ricchi. Quasi nessuno di quei notabili afferrava l'insieme dei miei programmi di opere e di riforme in Asia: si contentavano di profittarne a vantaggio della città, e, soprattutto, proprio. Per un momento, ebbi l'idea d'incrementare l'importanza di Smirne o di Pergamo a danno dell'arrogante capitale siriaca; ma i vizi di Antiochia sono inseparabili da qualsiasi metropoli: non v'è grande città che possa andarne esente.
Il disgusto per la vita di città m'indusse a volgermi ancor più, se possibile, alle riforme agrarie; detti l'ultimo tocco alla lunga e complessa riorganizzazione dei possedimenti imperiali in Asia minore; i contadini ne furono avvantaggiati, e anche lo Stato. In Tracia, volli visitare Andrinopoli, dov'erano affluiti i veterani delle campagne daciche e sarmate, attirati da elargizioni di terre e da sgravii d'imposte. Ad Antinopoli, risolsi d'adottare lo stesso programma. Da lunga data, avevo accordato in ogni luogo esenzioni analoghe a medici e a insegnanti, sperando di secondare la conservazione e lo sviluppo d'una classe media seria e dotta. Ne conosco bene i limiti, ma uno Stato dura soltanto per opera sua.
Atene restava la mia sosta prediletta; mi stupiva ogni volta che il suo incanto fosse così poco legato alle memorie, mie personali o della storia: quella città sembrava nuova ogni mattina. Quella volta, mi stabilii in casa di Arriano. Iniziato a Eleusi, al pari di me, per questo motivo era stato adottato da una delle grandi famiglie sacerdotali del territorio attico, quella dei Kerykes, come io stesso lo ero stato da quella degli Eumolpidi. Lì, aveva preso moglie; aveva sposato una giovane ateniese fine e altera. Mi circondarono entrambi di premure discrete. La loro casa era situata a pochi passi dalla nuova biblioteca di cui da poco avevo dotato Atene. In essa, nulla mancava di quel che può secondare la meditazione (nonché la quiete che la precede): comodi sedili, riscaldamento adeguato durante l'inverno spesso pungente, scale agevoli per accedere alle gallerie nelle quali si conservano i libri, l'alabastro e l'oro d'un lusso sobrio e discreto. Era stata dedicata un'attenzione particolare alla scelta e alla collocazione delle lampade. Sentivo sempre più il bisogno di raccogliere e conservare antichi volumi, e d'incaricare scrivani coscienziosi di trarne nuove copie. Nobile compito; non meno urgente - pensavo - dell'aiuto ai veterani o dei sussidi alle famiglie prolifiche e disagiate; qualche guerra, dicevo a me stesso, la miseria che la segue, un periodo di volgarità e d'incultura sotto un cattivo principe basterebbero a far perire per sempre i pensieri pervenuti fino a noi mediante quei fragili oggetti di pergamena e d'inchiostro. Ogni uomo così fortunato da beneficiare, più o meno, di quei legati di cultura, mi sembrava responsabile verso tutto il genere umano.
Durante quel periodo lessi molto. Avevo spinto Flegone a comporre, sotto il titolo di "Olimpiadi", una serie di cronache destinate a continuare le "Elleniche" di Senofonte, e a terminare con il mio regno: un piano audace, in quanto faceva dell'immensa storia di Roma nient'altro che un seguito di quella greca. Flegone scrive in uno stile sgradevole, arido, ma dar conto degli eventi, stabilirli, sarebbe stato già qualcosa. Questo progetto m'ispirò il desiderio di rileggere gli storici antichi; la loro opera, commentata dalla mia esperienza, mi riempì di foschi pensieri: l'energia, la buona volontà di ogni uomo di governo sembravano poca cosa di fronte agli svolgimenti fortuiti e fatali al tempo stesso, a quel torrente di eventi troppo confusi per poterli prevedere, dirigere o giudicare. Mi occupai anche dei poeti: amavo evocare le voci piene e pure di un lontano passato. Mi fu caro Teognide, l'aristocratico, l'esule, l'osservatore scevro di illusioni e d'indulgenza per le cose umane, sempre pronto a denunciare gli errori e le colpe che chiamiamo i nostri mali. Quell'uomo tanto lucido aveva assaporato le gioie dolorose dell'amore; e, ad onta di sospetti, gelosie, rancori reciproci, il suo legame con Cyrno era durato fino alla vecchiezza dell'uno, e all'età matura dell'altro: l'immortalità che aveva promesso al giovinetto di Megara era più che una vana parola, dato che il suo ricordo giungeva sino a me, dopo più di sei secoli. Ma, tra gli antichi poeti, amai soprattutto Antimaco: ne apprezzavo lo stile denso e involuto, le frasi ampie e tuttavia concentrate al massimo, grandi coppe di bronzo colme di un vino denso. Preferivo il suo racconto del periplo di Giasone alle "Argonautiche" più movimentate di Apollonio: Antimaco aveva compreso meglio il mistero degli orizzonti e dei viaggi, l'ombra che l'uomo, così effimero, proietta su paesaggi eterni. Aveva pianto appassionatamente sua moglie Lidia; aveva dato il suo nome a un lungo poema nel quale figuravano tutte le leggende di lutto e di dolore. E quella Lidia, che forse da viva mi sarebbe passata inosservata, diventava un'immagine familiare per me, più cara di tante figure femminili della mia stessa esistenza. Quelle poesie, tuttavia quasi obliate, a poco a poco mi restituivano fiducia nell'immortalità.
Rilessi le mie opere: versi d'amore, componimenti di circostanza, l'ode in memoria di Plotina. Chissà che un giorno non possa venire a qualcuno la fantasia di leggerli. Esitai dinanzi a un gruppo di versi osceni: ma finii per includerveli. Da noi, le persone più serie ne scrivono, per diletto: avrei preferito che i miei fossero diversi, l'immagine esatta d'una verità nuda. Ma in questo argomento, come in tutto il resto, siamo avvinti nei lacci dei luoghi comuni: cominciavo a rendermi conto che non basta l'audacia di spirito per infrangerli, che il poeta non trionfa della maniera e non impone il proprio pensiero alle parole se non grazie a sforzi intensi e assidui quanto la mia opera d'imperatore. Da parte mia, non potevo pretendere ad altro che a un successo da dilettante: sarà già molto se mi sopravvivranno due o tre versi, da tutto quel guazzabuglio. Tuttavia, in quell'epoca, abbozzai un'opera un po' ambiziosa, metà in versi metà in prosa, nella quale avrei voluto mettere cose serie e ironiche al tempo stesso, i fatti singolari osservati durante la mia vita, le meditazioni, i sogni: il tutto tenuto insieme da un filo conduttore sottilissimo: una specie di "Satyricon", ma più aspro. Vi avrei esposto una filosofia che era ormai divenuta la mia, l'idea eraclitea del mutamento e del ritorno. Ma deposi quel progetto troppo impegnativo.
Quell'anno, ebbi con la sacerdotessa che un tempo m'aveva iniziato a Eleusi (il suo nome deve restare segreto) parecchi colloqui, nel corso dei quali furono stabilite minutamente le modalità del culto di Antinoo. Gli augusti simboli di Eleusi continuavano a distillare una virtù salutare per me: può darsi che il mondo non abbia alcun senso, ma se ne ha uno, a Eleusi esso si esprime in forma più saggia e più nobile che altrove. Sotto l'influenza di quella donna, iniziai le ripartizioni amministrative di Antinopoli, i rioni, le strade, i blocchi urbani; un sistema del mondo divino insieme a un'immagine trasfigurata della mia vita. Tutto vi entrava, Hestia e Bacco, gli déi del focolare e quelli dell'orgia, le divinità celesti e quelle d'oltretomba. Vi posi i miei avi imperiali, Traiano, Nerva, divenuti parte integrante di quel sistema di simboli. Anche Plotina v'era compresa; la buona Matidia vi si vedeva assimilata a Demetra; e mia moglie, con la quale in quel periodo avevo rapporti abbastanza cordiali, figurava anch'essa in quel corteo di persone divine. Qualche mese più tardi, diedi il nome di mia sorella Paolina a uno dei quartieri di Antinopoli. Con la moglie di Serviano avevo rotto ogni rapporto; ma, dopo morta, Paolina ritrovava in quella città della memoria il suo posto unico di sorella. Quel luogo triste diventava la sede ideale delle riunioni e dei ricordi, i Campi Elisi d'una vita, il luogo dove le nostre contraddizioni si risolvono, dove tutto, al suo posto, è egualmente sacro.
Alla finestra della casa di Arriano, nella notte costellata di stelle, ripensavo a quella frase che i sacerdoti egizi avevano fatto incidere sulla bara di Antinoo: «Ha obbedito all'ordine del cielo». Poteva esser vero che il cielo c'intimasse ordini, e che i migliori tra noi li udissero là dove il resto degli uomini altro non avverte se non un silenzio opprimente? La sacerdotessa di Eleusi e Cabria lo credevano. Avrei voluto dar loro ragione. Rivedevo nel pensiero il palmo di quella mano levigato dalla morte, quale l'avevo contemplato l'ultima volta il mattino dell'imbalsamazione: le linee che un tempo mi avevano preoccupato non c'erano più; era avvenuto di essa come delle piccole tavole di cera, da cui si cancella un ordine eseguito. Ma queste alte affermazioni c'illuminano senza riscaldarci, come il chiarore delle stelle; e la notte attorno è ancora più buia. Se in qualche luogo il sacrificio di Antinoo era stato pesato in mio favore su una bilancia divina, i risultati di quell'atroce dono di sé non si manifestavano ancora; quei benefici non erano quelli della vita e neppure quelli dell'immortalità. Osavo appena tentare di darvi un nome. A volte, in rari intervalli, un tenue barlume palpitava, gettava una pallida luce sull'orizzonte del mio cielo, ma non abbelliva né il mondo, né me stesso; continuavo a sentirmi più deteriorato che salvato.