22. Il deserto dei Tartari (C. 27)
Si volta pagina, passano mesi ed anni. Quelli che furono i compagni di scuola di Drogo sono quasi stanchi di lavorare, essi hanno barbe quadrate e grige, camminano con compostezza per le città salutati rispettosamente, i loro figli sono uomini fatti, qualcuno è già nonno. Gli antichi amici di Drogo, sulla soglia della casa che si sono costruita, amano adesso soffermarsi a osservare, paghi della propria carriera, come corra il fiume della vita e nel turbine della moltitudine si divertono a distinguere i propri figli, incitandoli a fare presto, sopravanzare gli altri, arrivare per primi. Giovanni Drogo invece aspetta ancora, sebbene la speranza si affievolisca ad ogni minuto.
Adesso sì egli è finalmente cambiato. Ha cinquantaquattro anni, il grado di maggiore e il comando in seconda del magro presidio della Fortezza. Fino a poco tempo fa non era gran che mutato, lo si poteva dire ancora giovane. Di tanto in tanto, sia pure con fatica, faceva per igiene qualche giro a cavallo per la spianata.
Poi ha cominciato a dimagrire, il volto si è fatto di un tristo colore giallo, i muscoli si sono afflosciati. Disturbi di fegato, diceva il dottor Rovina, oramai vecchissimo, determinato ostinatamente a finire lassù la vita. Ma le polverine del dottor Rovina non ebbero effetto, Giovanni al mattino si svegliava con una scoraggiante stanchezza che lo prendeva alla nuca. Seduto poi nel suo ufficio, non vedeva l'ora che la sera arrivasse, per poter gettarsi su una poltrona o sul letto. Disturbi di fegato aggravati da esaurimento generale, diceva il medico, ma stranissimo era un esaurimento con la vita che faceva Giovanni. Comunque era una cosa passeggera, frequente a quell'età - diceva il dottor Rovina - un po' lunghetta, forse, ma senza alcun pericolo di complicazioni.
Si innestò così nella vita di Drogo un'attesa supplementare, la speranza della guarigione. Del resto egli non si mostrava impaziente. Il deserto settentrionale era sempre vuoto, nulla lasciava presagire un'eventuale discesa nemica.
"Stai meglio di cera" gli dicevano quasi ogni giorno i colleghi, ma in verità Drogo non sentiva il minimo miglioramento. Erano sì scomparsi i mali di testa e le penose diarree dei primi tempi; nessuna specifica sofferenza lo tormentava. Le energie complessive però si facevano sempre più fioche.
Simeoni, il comandante della Fortezza, gli diceva: "Prenditi una licenza, va a riposarti, ti farebbe bene una città di mare". E dicendogli Drogo di no, che già si sentiva meglio, che preferiva restare, Simeoni scuoteva il capo riprovando, come se Giovanni respingesse per ingratitudine un consiglio prezioso, corrispondente in tutto allo spirito del regolamento, all'efficienza del presidio e al suo medesimo vantaggio personale. Perché Simeoni riusciva perfino a far rimpiangere il Matti, da tanto faceva pesare sugli altri la propria virtuosa perfezione.
Qualsiasi discorso facesse, le sue parole, in superficie cordialissime, avevano sempre un vago sapore di rampogna per tutti gli altri, quasi che lui solo facesse il dovere fino all'ultimo, lui solo fosse il sostegno della Fortezza, lui solo provvedesse a rimediare infiniti guai che altrimenti avrebbero mandato tutto a remengo. Anche Matti, ai suoi bei tempi, era stato un po' così, ma meno ipocrita; Matti non aveva ritegno a scoprire l'aridità del suo cuore e certe spietate rudezze ai soldati non dispiacevano. Per fortuna Drogo si era fatto amico del dottor Rovina e aveva ottenuto la sua complicità per poter rimanere. Una oscura superstizione gli diceva che se avesse lasciato adesso la Fortezza, per malattia, mai più sarebbe ritornato. Questo pensiero gli era motivo di angoscia. Vent'anni prima sì avrebbe voluto andarsene, mettersi nella placida e brillante vita di guarnigione, con le manovre estive, le esercitazioni di tiro, le gare a cavallo, i teatri, le società, le belle signore. Ma adesso che cosa gli sarebbe restato? Mancavano pochi anni alla sua messa in pensione, la carriera era esaurita, tutt'al più gli potevano dare un posto in qualche Comando, tanto perché terminasse il servizio. Gli restavano pochi anni, l'ultima riserva, e forse prima del termine poteva accadere l'avvenimento sperato. Aveva buttato via gli anni buoni, adesso voleva almeno attendere fino all'ultimo minuto.
Rovina per affrettare la guarigione, consigliò a Drogo di non strapazzarsi, di starsene tutto il giorno a letto e di farsi portare in camera le pratiche da sbrigare. Questo avveniva in un marzo freddo e piovoso, accompagnato da smisurate frane sulle montagne; interi pinnacoli crollavano improvvisamente, per sconosciuti motivi, sfracellandosi negli abissi, e lugubri voci ritronavano nella notte anche per ore e ore.
Finalmente, con estremi stenti, cominciò ad affacciarsi la buona stagione. La neve sul valico si era già sciolta ma nebbie bagnate si attardavano sulla Fortezza. Ci voleva un sole potente per scacciarle, tanto intristita dall'inverno era l'aria delle valli. Ma una mattina, svegliandosi, Drogo vide risplendere sul pavimento di legno una bella striscia di sole e sentì venuta la primavera.
Si lasciò prendere dalla speranza che al bel tempo corrispondesse in lui una simile ripresa di forze. Anche nelle antiche travi risuscita di primavera un residuo di vita; di qui gli innumerevoli scricchiolii che popolano quelle notti. Tutto sembra ricominciare da capo, un fiotto di salute e di gioia si riversa sul mondo.
Questo pensava con intensità Drogo, richiamandosi alla mente scritti di illustri autori sull'argomento, allo scopo di persuadersi. Levatosi dal letto, andò barcollando alla finestra. Sentì un principio di capogiro ma si consolò pensando che sempre succede così quando ci si alza dopo molti giorni di letto, anche se si è guariti. Infatti il senso di capogiro scomparve e Drogo poté vedere lo splendore del sole. Una allegria senza limiti pareva diffusa nel mondo. Drogo non la poteva constatare direttamente, perché di fronte c'era il muro, ma la intuiva senza fatica. Perfino quelle vecchie pareti, la terra rossastra del cortile, le panchine di legno scolorito, una carretta vuota, un soldato che passava lentamente, sembravano contenti. Chissà fuori, al di là delle mura!
Ebbe la tentazione di vestirsi di sedersi all'aperto su una poltrona a prendere il sole, ma un sottile brivido gli diede paura, consigliandolo a tornare in letto. "Però oggi mi sento meglio, veramente meglio" pensava, convinto di non farsi illusioni. Quietamente avanzava la stupenda mattina di primavera, la striscia di sole sul pavimento andava spostandosi. Drogo la osservava di tanto in tanto, senza nessuna voglia di esaminare gli scartafacci ammucchiati su un tavolo di fianco al letto. C'era per di più uno straordinario silenzio a cui non facevano danno i rari segnali di tromba, né i tonfi della cisterna. Anche dopo la nomina a maggiore Drogo infatti non aveva voluto cambiare di camera, quasi temendo che non gli avrebbe portato fortuna; ma oramai i singhiozzi del serbatoio erano divenuti un'abitudine profonda e non gli davano più alcuna noia. Drogo osservava una mosca che si era fermata per terra proprio sulla striscia di sole, bestia strana in quella stagione, chissà come sopravvissuta all'inverno. La osservava camminare con circospezione, quando uno batté alla porta.
Era un picchio diverso dai soliti, notò Giovanni. Non era certo l'attendente, né il capitano Corradi della maggiorità, il quale soleva invece chiedere permesso, né alcun altro dei visitatori abituali. "Avanti!" disse Drogo.
Si aprì la porta e avanzò il vecchio caposarto Prosdocimo, tutto curvo oramai, con uno strano vestito che un giorno doveva essere stato una uniforme da maresciallo. Si fece avanti ansimando un poco, fece un segno, con l'indice destro, riferendosi a cosa di là dei muri.
"Vengono! Vengono!" esclamò in sordina, come fosse un grande segreto.
"Chi vengono?" fece Drogo, stupito di vedere il caposarto così spiritato. "Sto fresco" pensò "questo qui comincia le sue chiacchiere e va avanti per un'ora almeno."
"Dalla strada vengono, se Dio vuole, dalla strada del nord! Sono andati tutti sulla terrazza a vederli." "Dalla strada del nord? Dei soldati?"
"A battaglioni, a battaglioni!" gridava, fuori di sé il vecchietto, stringendo i pugni. "Questa volta non ci si sbaglia, e poi è venuta una lettera dello Stato Maggiore, per avvertire che ci mandano rinforzi! La guerra, la guerra!" gridava e non si capiva se fosse anche un poco spaventato. "E si vedono già?" chiese Drogo. "Si vedono anche senza cannocchiale?"
(Si era levato a sedere sul letto, invaso da una tremenda inquietudine.)
"Perdio se si vedono! I cannoni si vedono, ne hanno già contati diciotto!"
"E fra quanto potranno attaccare, quanto tempo ci metteranno ancora?" "Ah, con la strada fanno presto, io dico che fra due giorni sono qui, due giorni al massimo!"
Maledetto questo letto, si disse Drogo, eccomi bloccato qui dalla malattia. Non gli passò neppure per la mente che Prosdocimo avesse detto una storia, improvvisamente egli aveva sentito che tutto era vero, si era accorto che persino l'aria era in qualche modo cambiata, perfino la luce del sole.
"Prosdocimo" disse con affanno. "Va a chiamarmi Luca, il mio attendente, è inutile che suoni il campanello, deve essere giù in maggiorità ad aspettare che gli diano delle carte, fa presto, ti prego!"
"Su, svelto, signor maggiore" raccomandò Prosdocimo avviandosi. "Non ci pensi più ai suoi malanni, venga anche lei sulle mura a vedere!" Uscì svelto dimenticando di chiudere la porta; si udì il suono dei suoi passi allontanarsi per il corridoio, poi ritornò il silenzio.
"Dio, fammi star meglio, te lo scongiuro, almeno per sei sette giorni" bisbigliò Drogo senza riuscire a dominare l'orgasmo. Voleva alzarsi subito, ad ogni costo, andare immediatamente sulle mura, farsi vedere da Simeoni, far capire che lui non mancava, che era al suo posto di comando, che avrebbe preso le sue responsabilità come al solito, come se non fosse ammalato.
Ban! un respiro di vento nel corridoio fece sbattere la porta malamente. Nel grande silenzio il rumore echeggiò forte e cattivo, come risposta alla preghiera di Drogo. E perché Luca non veniva, quanto ci metteva quell'imbecille a fare due rampe di scale?
Senza attenderlo, Drogo scese dal letto e fu colto da un'onda di vertigine, che però lentamente si dissolse. Adesso era davanti allo specchio e guardava spaventato il proprio volto, giallo e consunto. È la barba che mi fa sembrare così, provò a dirsi Giovanni; e a passi incerti, ancora in camicia da notte, girò per la stanza in cerca del rasoio. Ma perché Luca non si decideva a venire?
Ban! fece nuovamente la porta, agitata dalla corrente. "Che ti prenda il diavolo!" disse Drogo e si avviò per chiuderla. In quel momento udì i passi dell'attendente che si avvicinavano.
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Sbarbato e vestito di tutto punto - ma si sentiva ballare dentro alla troppo larga divisa - il maggiore Giovanni Drogo uscì dalla camera, si avviò per il corridoio che gli parve molto più lungo del solito. Luca stava al suo fianco, leggermente più indietro, pronto a sorreggerlo, perché vedeva come l'ufficiale stesse in piedi a fatica. Ora le ondate di vertigine ritornavano a sbalzi, ogni volta Drogo doveva fermarsi, appoggiandosi al muro. "Mi agito troppo, il solito nervosismo" pensò "nel complesso però mi sento meglio."
Effettivamente i capogiri passarono e Drogo giunse sulla terrazza sommitale del Forte, dove diversi ufficiali stavano scrutando con i cannocchiali il triangolo visibile di pianura lasciato libero dalle montagne. Giovanni restò abbacinato dal pieno splendore del sole, a cui non era più abituato, rispose confusamente ai saluti degli ufficiali presenti. Gli parve,ma forse era soltanto un'interpretazione maligna, che i subalterni lo salutassero con una certa disinvoltura, quasi egli non fosse più il loro diretto superiore, l'arbitro in un certo senso della loro vita quotidiana. Lo giudicavano già liquidato?
Questo sgradevole pensiero fu breve, ritornando la maggiore preoccupazione: l'idea della guerra. Drogo scorse per prima cosa, dal ciglio della Ridotta Nuova, alzarsi un sottile fumo; dunque c'era stata rimessa la guardia, erano state già prese misure di eccezione, il Comando era già in moto, senza che nessuno avesse interpellato lui, comandante in seconda. Non l'avevano neppure avvertito, anzi. Se Prosdocimo di sua iniziativa non fosse andato a chiamarlo, Drogo sarebbe stato ancora in letto, ignaro della minaccia.
Lo colse un'ira cocente ed amara, gli occhi gli si appannarono, dovette appoggiarsi al parapetto della terrazza, e lo fece controllandosi al massimo, perché gli altri non capissero in che stato egli era ridotto. Si sentiva orribilmente solo, fra gente nemica. C'era sì qualche giovane tenente, come Moro, che gli era affezionato, ma che cosa contava per lui l'appoggio dei subalterni? In quel mentre sentì dare l'attenti. A passi precipitati si fece avanti il tenente colonnello Simeoni, rosso in volto. "È mezz'ora che ti cerco dappertutto" esclamò a Drogo. "Non sapevo più come fare! Bisogna prendere delle decisioni!"
Si accostò con esuberante cordialità, aggrottando le ciglia, come fosse preoccupatissimo e ansioso di avere i consigli di Drogo. Giovanni si sentì disarmato, la sua ira di colpo si spense, benché sapesse bene che Simeoni lo stava ingannando. Simeoni si era illuso che Drogo non potesse muoversi, non si era più curato di lui, aveva deciso per suo conto, salvo poi a informarlo quando tutto fosse stato eseguito: poi gli avevano detto che Drogo era in giro per la Fortezza, era corso alla sua ricerca, ansioso di dimostrare la sua buona fede.
"Ho qui un messaggio del generale Stazzi" disse Simeoni, prevenendo ogni domanda di Drogo e conducendolo in disparte perché gli altri non potessero udire. "Stanno arrivando due reggimenti capisci? E io dove li metto?"
"Due reggimenti di rinforzo?" fece Drogo sbalordito. Simeoni gli diede il messaggio. Il generale annunciava che per misura di sicurezza, temendosi possibili provocazioni nemiche, due reggimenti, il Diciassettesimo Fanteria, più un secondo di formazione con un gruppo di artiglieria leggera, erano stati mandati a rinforzare il presidio della Fortezza; si ristabilisse, appena possibile, il servizio di guardia secondo l'antico organico, vale a dire con forza completa, si preparassero gli accantonamenti per ufficiali e soldati. Una parte, naturalmente, si sarebbe attendata.
"Intanto ho mandato un plotone alla Ridotta Nuova, ho fatto bene, no?" aggiunse Simeoni senza dar tempo a Drogo di rispondere. "Li hai già visti?"
"Sì, sì, hai fatto bene" rispose Giovanni faticosamente. Le parole di Simeoni gli entravano nelle orecchie con un suono staccato e irreale, le cose attorno oscillavano sgradevolmente. Drogo si sentiva male, uno sfinimento atroce lo aveva invaso di colpo, tutta la sua volontà era concentrata nel solo sforzo di sostenersi in piedi. "O Dio, o Dio" supplicò mentalmente, "aiutami un poco!"
Per mascherare il collasso si fece dare un cannocchiale (era il famoso cannocchiale del tenente Simeoni) e si mise a guardare verso il nord appoggiando i gomiti al parapetto, ciò che lo aiutava a tenersi in piedi. Oh, se almeno i nemici avessero aspettato un poco, sarebbe bastata una settimana perché lui si potesse rimettere, avevano aspettato tanti anni, non potevano tardare ancora qualche giorno, qualche giorno soltanto? Guardò nel cannocchiale il visibile triangolo di deserto, sperò di non scorgere nulla, che la strada fosse deserta, non ci fosse alcun segno di vita; questo si augurava Drogo dopo aver consumato la vita nell'attesa del nemico.
Sperava di non scorgere nulla e invece una striscia nera attraversava obliquamente il fondo biancastro della pianura e questa striscia si muoveva, un denso brulichio di uomini e convogli che scendeva verso la Fortezza. Altro che le miserabili file di armati al tempo della delimitazione del confine. Era l'armata del nord, finalmente e chissà…
A questo punto Drogo vide l'immagine entro al cannocchiale mettersi a girare con moto di vortice, farsi sempre più scura, piombare nel buio. Svenuto, si afflosciò sul parapetto come un fantoccio. Simeoni lo sostenne in tempo; sorreggendo il corpo svuotato di vita sentì, attraverso la stoffa lo scarno telaio delle ossa.