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Piccolo mondo antico di Antonio Fogazzaro, PARTE SECONDA - 12. Fantasmi

PARTE SECONDA - 12. Fantasmi

La sera di quello stesso giorno una conversazione fiorita si raccolse nella sala rossa della marchesa. Pasotti vi portò seco a forza la sua disgraziata moglie e quasi a forza il signor Giacomo Puttini riluttante invano ai capricci dispotici del Controllore gentilissimo. Vennero pure il curato di Puria e il Paolin, curiosi di veder l'effetto della tragedia di Oria sulla vecchia faccia di marmo. Il Paolin trascinò seco il buon Paolon, mollemente riluttante anche lui come un pecorone. Venne il curato di Cima, devoto alla marchesa, venne il prefetto della Caravina, tutto, in cuor suo, per Franco e Luisa, obbligato, come parroco di Cressogno, a certi riguardi verso la loro nemica.

Costei accolse tutti col solito viso impassibile, col solito flemmatico saluto. Si fece sedere accanto, sul canapè, la signora Barborin alla quale il padrone aveva proibito il menomo accenno ai casi di Oria, si lasciò ossequiare dagli altri, fece le solite domande al Paolin e al Paolon circa le rispettive loro dame e soddisfatta d'aver appreso che la Paolina e la Paolona stavano bene, incrociò le mani sul ventre e tacque dignitosamente in faccia al semicerchio dè suoi cortigiani. Pasotti, non vedendo Friend, s'informò subito di lui con ossequiosa premura: «E 'l Friend? Poer Friend!» benché se lo avesse avuto nelle grinfie, solus cum solo , quel brutto diavolaccio ringhioso che sciupava i calzoni a lui e le sottane a sua moglie, lo avrebbe strozzato con gioia. Friend era infermo da due giorni. Tutta la brigata si commosse e lamentò il caso con la segreta speranza che il maledetto mostro fosse per crepare. La Pasotti vedendo tante bocche parlare, tante facce diventar contrite, e non udendo una parola, suppose che si discorresse di Oria, si rivolse al Paolon suo vicino, lo interrogò con gli occhi, spalancando la bocca, indicando col dito la direzione di Oria. Il Paolon le fece segno di no. «Parlen del cagnoeu», diss'egli. La sorda non intese, fece «ah!» e prese, a caso, un'aria compunta. Friend mangiava troppo e troppo bene, soffriva d'una malattia schifosa. Il Paolin e il curato di Puria diedero premurosi consigli. Il prefetto della Caravina aveva espresso altrove la temperata opinione che fosse da buttarlo nel lago con la sua padrona al collo. Mentre si parlava con tanto interesse della bestia di casa, egli pensava a Luisa stravolta, livida, come l'aveva vista la mattina, quando s'era opposta come una forsennata, prima alla chiusura della bara, poi al trasporto, e quando nel cimitero aveva gettato lei con le sue proprie mani la terra sulla sua bambina, dicendole d'aspettarla e che sarebbe presto discesa a giacer con lei e che quello doveva essere il loro paradiso. Se si parlava con interesse del rognoso Friend, i fantasmi della bambina morta e della madre disperata erano però nella sala. Quando nessuno seppe più che dire del cane e vi ebbe un momento di silenzio, i due fantasmi squallidi furono uditi da tutti domandar che si parlasse di loro; e ciascuno li vide negli occhi della persona che li amava, la sorda Pasotti. Suo marito cercò subito una diversione, propose al signor Giacomo un problema di tarocchi. Uno scartante che ha tre cartine, tutte figure, una dama e due cavalli, e ha pure il matto, cosa deve fare? Scartare la dama e un cavallo o i due cavalli? Il signor Giacomo si mise a soffiare a tutto vapore, gonfiando le gote rosse e il cravattone bianco: «Apff! No. Controllore gentilissimo, no, La me dispensa. Da le dame no digo ma dai cavai mi son stà sempre lontan. Apff!». Gli altri tarocchisti raccolsero in fretta il problema, i fantasmi non furono più uditi e ciascuno respirò.

Erano le nove. Alle nove, di solito, il cameriere entrava con due candele accese e apparecchiava il tavolino del tarocco in un angolo della sala, fra il gran camino e il balcone di ponente. Allora la marchesa si alzava e diceva con la sua flemma sonnolenta: «Se creden».

I due o tre presenti rispondevano «sem chì» e incominciava l' entro in tre o la partita in quattro. Il vecchio cameriere, affezionatissimo a don Franco, esitò, quella sera, a portare i lumi. Non gli pareva possibile che la padrona e i signori avessero il coraggio di giuocare. Alle nove e cinque minuti, non vedendolo entrare, ciascuno commentò il ritardo fra sé. Il Paolin, prima di entrar in casa, aveva sostenuto contro il prefetto che non si sarebbe giuocato. Egli guardò trionfante il suo avversario e lo guardò pure il Paolon compiacendosi, per una solidarietà di Paoli, che avesse ragione il Paolin. Pasotti, che si era tenuto sicuro di giuocare, cominciò a dar segni d'inquietudine. Alle nove e sette minuti, la marchesa pregò il prefetto di suonare il campanello. Quegli restituì al Paolin l'occhiata trionfante e vi aggiunse tutto il muto disprezzo per la vecchia, che poté. «Apparecchiate», diss'ella al cameriere. Questi entrò poco dopo con le due candele. Anche in fondo agli occhi suoi crucciosi si vedeva il fantasma della bambina morta. Mentr'egli disponeva sul tavolino le candele, le carte da giuoco e i gettoni d'avorio, si fece nella sala quel silenzio di aspettazione che soleva precedere l'alzarsi della marchesa. Ma la marchesa non diede segno di volersi alzare. Si voltò a Pasotti e gli disse: «Controllore, se desideran giuocare Loro...»

«Marchesa», rispose Pasotti, pronto, «la presenza di mia moglie non deve impedirle di fare la Sua partita. Barbara giuoca male ma si diverte moltissimo a guardare.» «Stasera non giuoco», rispose la marchesa. La voce era molle ma il no era duro. Il buon Paolon, che taceva sempre e non sapeva giuocare a tarocchi, credette aver finalmente trovato una parola ossequiosa e savia da metter fuori.

«Già!», diss'egli. Pasotti lo guardò in cagnesco, pensò: «cosa c'entra lui?», ma non osò parlare. La marchesa non parve accorgersi della scoperta del Paolon e soggiunse: «Posson giuocare Loro». «Mai più!», esclamò il prefetto. «Neanche per sogno!» Pasotti levò di tasca la tabacchiera. «Il signor prefetto», diss'egli facendo spiccare le sillabe e alzando un poco la mano aperta con una presa tra il pollice e l'indice, «parla per sé. Per parte mia, se la signora marchesa lo desidera, son pronto a soddisfare il suo desiderio.» La marchesa tacque e il focoso prefetto, incoraggiato da quel silenzio, borbottò a mezza voce: «È un lutto di famiglia, infine». Da quando Franco era uscito di casa il suo nome non era mai stato pronunciato nelle conversazioni serali della sala rossa, la marchesa non aveva mai fatto allusione a lui né a sua moglie. Ella ruppe adesso il silenzio di quattro anni. «Mi rincresce per la creatura», diss'ella, «ma per suo padre e sua madre è un castigo di Dio.» Tutti tacquero. Dopo alcuni minuti, Pasotti disse a voce bassa, in tono solenne: «Fulmineo». E il curato di Cima soggiunse più forte: «Evidente». Il Paolin ebbe paura di tacere e di parlare, fece «ma!» e allora il Paolon osservò: «Proprio!». Il signor Giacomo soffiò. «Un castigo di Dio!», ripeté con enfasi il curato di Cima. «E anche, date le circostanze, un segno della Sua protezione sopra qualche altra persona.» Tutti, meno il prefetto che si rodeva, guardarono la marchesa come se la Mano protettrice dell'Onnipotente fosse sospesa sopra la sua parrucca. Invece quella Mano Divina stava sopra il cappello della Pasotti e le teneva ben chiusi gli orecchi onde non avessero a penetrarvi contaminatrici parole d'iniquità. «Curato», disse Pasotti, «poiché la signora marchesa lo propone, facciamo una partitina? Lei, il Paolin, il signor Giacomo e io.» I quattro che sedettero al tavolino da giuoco si lasciarono subito dolcemente andare, nel loro angolo, alle comode mollezze della conversazione sbottonata, alle vecchie barzellette ambrosiane attaccate ai tarocchi come l'unto. «Hin nanca arrivaa a Barlassina!», esclamò Pasotti dopo la prima giuocata, ridendo forte per far suonare la sua vittoria e la sua allegria. Quelli là si erano liberati dai fantasmi; gli altri no. La sorda, impettita e immobile sul canapè, aveva sofferto angosce mortali aspettando un gesto del marito che le imponesse di giuocare. Oh Signore, dovrebbe toccarle anche questa condanna? Per grazia del cielo il gesto non venne fatto e la sua prima impressione nel veder i quattro prender posto al tavolino fu di sollievo. Ma poi la riprese subito un disgusto amaro. Che insulto, quel giuoco, alla sua Luisa, che disprezzo per la povera cara Ombrettina morta! Nessuno le parlava, nessuno faceva attenzione a lei: ella si mise a recitare mentalmente una fila di Pater, Ave e Gloria , per la cattiva creatura seduta all'altro angolo del canapè, tanto vecchia, tanto vicina a comparire davanti a Dio. Le dedicò la preghiera per la conversione dei peccatori che soleva dire mattina e sera per suo marito da quando aveva scoperto certe sue familiarità con una bassa persona di casa.

Il prefetto, a udir gli schiamazzi di Pasotti, si alzò e prese congedo. «Aspetti», gli disse la marchesa, «di prender un bicchier di vino.» Alle nove e mezzo soleva capitare una bottiglia preziosa di San Colombano vecchio. «Stasera non bevo», rispose il prefetto, eroicamente. «Son troppo sottosopra da questa mattina in poi. Il Puria sa perché.»

«Ma!», fece il Puria, sottovoce. «È stata una gran tragedia, già.» Silenzio. Il prefetto s'inchinò alla marchesa, salutò la Pasotti con l'espressione del «c'intendiamo» e partì. Il curato di Puria, corpo grosso e cervello fino, studiava la marchesa senza parere. Era ella tocca o no dai fatti di Oria? L'essersi astenuta dal giuoco gli pareva un indizio dubbio. Poteva averlo fatto per rispetto al proprio sangue in astratto. Osservandola bene il curato notò che le sue mani tremavano: cosa nuova. Ella dimenticò di domandare a Pasotti se il vino fosse buono: cosa nuova. La maschera cerea del viso aveva di tratto in tratto qualche contrazione: cosa nuovissima. «È tocca», pensò il curato. Siccome ella taceva, la Pasotti taceva, il Paolon taceva, tutto il gruppo pareva petrificato, cercò lui di rompere il ghiaccio, non trovò di meglio che voltar quelle teste verso il tavolino del giuoco e commentare le apostrofi di Pasotti, le proteste del Paolin, i «no digo» e gli «apff» del signor Giacomo. La marchesa si scosse un poco, si compiacque di osservare che i giuocatori si divertivano. La Pasotti non udì né disse mai parola e gli altri tre finirono con parlar di lei. La marchesa si dolse che fosse tanto sorda, che non si potesse farle un po' di conversazione. Gli altri due dissero di lei tutto il gran bene che meritava e che dice ancora chi la ricorda. Ella stava lì malinconica e muta, non sospettando affatto d'esser il soggetto dei loro discorsi. Il Signore proteggeva la sua profonda, ingenua umiltà, non le lasciava penetrar negli orecchi le lodi della gente ma solo le strapazzate del consorte. I suoi grandi, compunti occhi neri si ravvivarono quando il signor Giacomo pronunciò un gran soffio finale, e i colleghi, lasciate le carte, si abbandonarono sulle spalliere delle rispettive seggiole a riposare alquanto, a ruminar il piacere del giuoco. Finalmente il suo signore si avvicinò al canapè, le fece segno di alzarsi. Per la prima volta in vita sua, forse, ella fu contenta di salire in barca, con grande meraviglia del Puria il quale dichiarò che sul lago, di notte, era un «fifone». È vero che a cento passi da Cressogno l'orrore del lago e delle tenebre la riprese. Pensò allora con invidia al curato del quale udiva la voce sopra il Tentiòn, fra gli ulivi. «Addio, fifone!», gridò Pasotti. Il «fifone» non udì. Egli e il Paolin discorrevano sottovoce ma con gran calore, commentando le parole della marchesa, del prefetto, di Pasotti, cercando di frugar nel cuore della vecchia, disputando se vi fossero pietà e rimorsi. Il curato era per il sì, il Paolin per il no. Il Paolon precedeva con la lanterna mettendo continui, inintelligibili grugniti. Il Paolin andò poi mordendo tutto che fosse da mordere, la durezza della marchesa, la malignità di Pasotti, la dabbenaggine di sua moglie, la cortigianeria del Cima, la temerità del prefetto, le pazzie di Luisa e di Franco, la debolezza dell'ingegnere Ribera, tante altre colpe di vivi e di morti. Durezze, debolezze, malignità, ostinazioni, cortigianerie: dappertutto, secondo lui, c'era in fondo quell'egoismo porco. «Che gran mond mincion!», fu il suo riassunto finale. «Ch'el senta car el me curat, quand gh'è quel poo de ris e verz con quel poo de formagg per sora, lassèm pür andà tüsscoss al diavol che l'è mej.» Dopo una sentenza tanto logica nulla restava più a dire né a grugnire e la piccola comitiva giunta in capo alla salita procedette silenziosa per le umide ombre del Campò, nell'odor fresco dei castagni e dei noci, senz'accorgersi di uno spettro che passava in aria, vôlto a Cressogno. Partiti i suoi ospiti, la marchesa suonò il campanello per il rosario che non s'era potuto dire alla solita ora. Il rosario di casa Maironi era una cosa viva che aveva le sue radici nei peccati antichi della marchesa e veniva sempre più sviluppandosi, mettendo nuovi Ave e nuovi Gloria a misura che la vecchia dama avanzava negli anni e si scorgeva più netto e più visibile a fronte un teschio schifoso, il proprio. Perciò il suo rosario era lungo assai. I peccati dolci della protratta gioventù non le pesavano troppo sulla coscienza; ma qualche grossa furfanteria d'altro genere, misurabile in lire, soldi e denari, mal confessata e quindi mal perdonatale, le dava una modestia sempre compressa a furia di rosari e sempre rinascente. Mentre chiedeva al Creditore Grande la remissione dè suoi debiti le pareva ch'Egli avesse facoltà d'accordarla intera; invece dopo le si levavano da capo in mente le facce crucciose dei creditori piccoli, ritornava con esse il dubbio del perdono, e la sua avarizia, la sua superbia avevano a lottare con il terrore di un carcere perpetuo per debiti, oltre la tomba. Recitare le preghiere per la conversione dei peccatori e quelle per la guarigione degl'infermi, prima di venire ai Deprofundis , annunciò tre Avemarie nuove secondo la sua intenzione. La guattera, una semplice pia contadina di Cressogno, suppose che le tre Avemarie fossero domandate per quei poveretti di Oria e le recitò con tutto lo zelo. Le Avemarie della guattera urtarono e dispersero quelle della padrona, che chiedevano sonno, riposo di nervi e di coscienza. Quanto alle Avemarie degli altri, esse furono dette secondo la loro comune intenzione che non restassero, come troppo spesso accadeva, definitivamente appiccicate al rosario. Nessuna insomma poté arrestare lo spettro nel suo cammino.

La marchesa si ritirò verso le undici. Prese dell'acqua di cedro e avendo la cameriera incominciato a parlare di Oria, di don Franco che si sussurrava essere arrivato, le impose silenzio. Era tocca, sì. Aveva sempre davanti agli occhi l'immagine di Maria come l'aveva veduta una volta passando in gondola sotto la villetta Gilardoni, piccina, con un grembiale bianco, i capelli lunghi e le braccia nude, stranamente somigliante ad un bambino suo, mortole a tre anni. Sentiva ella affetto, pietà? Non sapeva ella stessa quello che sentisse. Forse dispetto e sgomento di non sapersi liberare da una immagine molesta; forse paura di questo pensiero, che se non fosse stato commesso certo grosso peccato antico, se il testamento del marchese Franco non fosse stato arso, la bambina non sarebbe morta.

Come fu a letto si fece leggere altre preghiere dalla cameriera, le ordinò di spegnere il lume e la congedò. Chiuse gli occhi, cercò di non pensare a niente, e si vide sotto le palpebre una chiara macchia informe che si venne disegnando in un guancialetto, poi in una lettera, poi in un gran crisantemo bianco e poi in un viso supino, morto, che diventava via via più piccolo. Le pareva già di assopirsi ma per effetto di quest'ultima trasformazione le vibrò nel cuore il pensiero della bambina, non vide più nulla sotto le palpebre, il sopore si dileguò ed ella aperse gli occhi, inquieta, malcontenta. Si propose di pensar una partita di tarocchi per cacciar le immaginazioni moleste e richiamar il sonno. Pensò ai tarocchi, poté, con uno sforzo, vedersi nella testa il tavolino da giuoco, i giuocatori, i lumi, le carte; ma quando cessò dallo sforzo per abbandonarsi ad una visione passiva di questi soporifici fantasmi, le comparve sotto le palpebre tutt'altra cosa, una testa che cambiava continuamente lineamenti, espressione, attitudini e che venne per ultimo lentamente ripiegandosi avanti sopra se stessa come nel sonno o nella morte, non mostrando più che i capelli. Altra scossa di nervi; la marchesa riaperse gli occhi e udì l'orologio della scala suonare. Contò le ore: dodici. Già mezzanotte e non poter dormire! Stette alquanto ad occhi aperti ed ecco adesso immagini nel buio come prima sotto le palpebre. Cominciavano da un nucleo informe e si svolgevano continuamente. Si disegnò un quadrante d'orologio, che diventò un occhio spaventato di pesce, un occhio umano severo. Ad un tratto venne alla marchesa l'idea che non riuscirebbe a dormire e il sopore già inoltrato andò rotto da capo. Allora ella suonò il campanello.

La cameriera si fece chiamar due volte e poi venne mezzo svestita, dormigliosa. L'ordine fu di posar il lume sopra una sedia per modo che dal letto non si potesse veder la fiamma; di prendere un volume di prediche del Barbieri e di leggere a mezza voce. La cameriera era abituata a somministrare questi narcotici. Si pose a leggere e in capo alla seconda pagina, udendo il respiro della padrona farsi greve, andò pian piano smorzando la voce per un mormorio inarticolato, fino al silenzio. Aspettò un poco, ascoltò il respiro regolare e pesante, si alzò a guardar la faccia cupa, supina sul doppio guanciale con le sopracciglia aggrottate e la bocca semiaperta, prese il lume e si ritirò in punta di piedi.

La marchesa dormiva e sognava. Sognava di giacer sulla soglia nello stanzone buio di un carcere, con i ceppi ai piedi, accusata di assassinio. Entrava il giudice con un lume, sedeva presso a lei e leggeva una predica sulla necessità della confessione. Ella gli si protestava innocente, ripeteva: «Ma non sa che si è annegata da sé?». Il giudice non rispondeva, leggeva, leggeva sempre con voce compunta e solenne, e la marchesa insisteva: «No, non l'ho uccisa». Non era flemmatica nel sogno, si agitava come una disperata. «Badi», rispondeva il giudice. «La bambina lo dice.» Egli si alzava in piedi e ripeteva: «Lo dice». Poi batté forte le mani palma a palma ed esclamò: «Entrate!». Fino a questo punto la marchesa aveva sentito, sognando, di sognare; qui credette svegliarsi, vide con orrore che qualcuno era entrato infatti.

Una forma umana debolmente luminosa stava a sedere sulla poltrona ingombra di vesti, presso il suo letto, sì ch'ella non poteva vedere la parte inferiore dell'Apparizione. Il busto, le braccia, le mani raccolte insieme avevano un colore biancastro e contorni alquanto incerti; la testa, appoggiata alla spalliera, era nitida e circonfusa d'un chiaror pallido. Gli occhi scuri, vivi, fissavano la marchesa. Che orrore! Era veramente la bambina morta. Che orrore, che orrore! Gli occhi dell'Apparizione parlavano, lo dicevano. Il giudice aveva ragione, la bambina lo diceva, senza parole, con gli occhi. «Tu, nonna, tu sei stata, tu. Io avrei dovuto nascer e vivere nella tua casa. Tu non l'hai voluto. Sei condannata alla morte eterna.»

Gli occhi soli, i fissi, tristi, pietosi occhi dicevano tutto questo ad un tempo. La marchesa mise un lungo gemito, stese le braccia verso l'Apparizione, credendo dir qualche cosa e non riuscendo che a rantolare «ah... ah... ah...» mentre le mani, le braccia, il busto del fantasma sfumavano in una nebbia, i contorni del viso illanguidivano e solo rimaneva intenso lo sguardo, che finalmente pure si velò e rientrò quasi in un lontano e profondo Se stesso, null'altro rimanendo dell'Apparizione che poca fosforescenza poi assorbita dall'ombra. La marchesa si svegliò di soprassalto, ansante, non si ricordò del campanello, si provò a gridare e non riuscì a metter fuori la voce. Con un impeto della sua volontà potente ancora nello sfacelo delle forze, cacciò le gambe dal letto, discese, fece due passi brancolando nel buio, incespicò nella poltrona, si aggrappò a una sedia, cadde con essa pesantemente sul pavimento, si mise a gemere.

La cameriera si svegliò al tonfo, chiamò, non ebbe risposta, udì il gemito e, acceso il lume, accorse, vide nella penombra, tra la sedia e la poltrona, qualche cosa di bianco e d'enorme che si divincolava sul pavimento come una bestia mostruosa del mare tirata in secco. Gridò, corse al campanello, svegliò d'un colpo tutta la casa e si precipitò ad aiutar la vecchia che rantolava: «Il prete, il prete! Il prefetto, il prefetto!»

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PARTE SECONDA - 12. Fantasmi

La sera di quello stesso giorno una conversazione fiorita si raccolse nella sala rossa della marchesa. Pasotti vi portò seco a forza la sua disgraziata moglie e quasi a forza il signor Giacomo Puttini riluttante invano ai capricci dispotici del Controllore gentilissimo. Vennero pure il curato di Puria e il Paolin, curiosi di veder l'effetto della tragedia di Oria sulla vecchia faccia di marmo. Il Paolin trascinò seco il buon Paolon, mollemente riluttante anche lui come un pecorone. Venne il curato di Cima, devoto alla marchesa, venne il prefetto della Caravina, tutto, in cuor suo, per Franco e Luisa, obbligato, come parroco di Cressogno, a certi riguardi verso la loro nemica.

Costei accolse tutti col solito viso impassibile, col solito flemmatico saluto. Si fece sedere accanto, sul canapè, la signora Barborin alla quale il padrone aveva proibito il menomo accenno ai casi di Oria, si lasciò ossequiare dagli altri, fece le solite domande al Paolin e al Paolon circa le rispettive loro dame e soddisfatta d'aver appreso che la Paolina e la Paolona stavano bene, incrociò le mani sul ventre e tacque dignitosamente in faccia al semicerchio dè suoi cortigiani. Pasotti, non vedendo Friend, s'informò subito di lui con ossequiosa premura: «E 'l Friend? Poer Friend!» benché se lo avesse avuto nelle grinfie, solus cum solo , quel brutto diavolaccio ringhioso che sciupava i calzoni a lui e le sottane a sua moglie, lo avrebbe strozzato con gioia. Friend era infermo da due giorni. Tutta la brigata si commosse e lamentò il caso con la segreta speranza che il maledetto mostro fosse per crepare. La Pasotti vedendo tante bocche parlare, tante facce diventar contrite, e non udendo una parola, suppose che si discorresse di Oria, si rivolse al Paolon suo vicino, lo interrogò con gli occhi, spalancando la bocca, indicando col dito la direzione di Oria. Il Paolon le fece segno di no. «Parlen del cagnoeu», diss'egli. La sorda non intese, fece «ah!» e prese, a caso, un'aria compunta. Friend mangiava troppo e troppo bene, soffriva d'una malattia schifosa. Il Paolin e il curato di Puria diedero premurosi consigli. Il prefetto della Caravina aveva espresso altrove la temperata opinione che fosse da buttarlo nel lago con la sua padrona al collo. Mentre si parlava con tanto interesse della bestia di casa, egli pensava a Luisa stravolta, livida, come l'aveva vista la mattina, quando s'era opposta come una forsennata, prima alla chiusura della bara, poi al trasporto, e quando nel cimitero aveva gettato lei con le sue proprie mani la terra sulla sua bambina, dicendole d'aspettarla e che sarebbe presto discesa a giacer con lei e che quello doveva essere il loro paradiso. Se si parlava con interesse del rognoso Friend, i fantasmi della bambina morta e della madre disperata erano però nella sala. Quando nessuno seppe più che dire del cane e vi ebbe un momento di silenzio, i due fantasmi squallidi furono uditi da tutti domandar che si parlasse di loro; e ciascuno li vide negli occhi della persona che li amava, la sorda Pasotti. Suo marito cercò subito una diversione, propose al signor Giacomo un problema di tarocchi. Uno scartante che ha tre cartine, tutte figure, una dama e due cavalli, e ha pure il matto, cosa deve fare? Scartare la dama e un cavallo o i due cavalli? Il signor Giacomo si mise a soffiare a tutto vapore, gonfiando le gote rosse e il cravattone bianco: «Apff! No. Controllore gentilissimo, no, La me dispensa. Da le dame no digo ma dai cavai mi son stà sempre lontan. Apff!». Gli altri tarocchisti raccolsero in fretta il problema, i fantasmi non furono più uditi e ciascuno respirò.

Erano le nove. Alle nove, di solito, il cameriere entrava con due candele accese e apparecchiava il tavolino del tarocco in un angolo della sala, fra il gran camino e il balcone di ponente. Allora la marchesa si alzava e diceva con la sua flemma sonnolenta: «Se creden».

I due o tre presenti rispondevano «sem chì» e incominciava l' entro in tre o la partita in quattro. Il vecchio cameriere, affezionatissimo a don Franco, esitò, quella sera, a portare i lumi. Non gli pareva possibile che la padrona e i signori avessero il coraggio di giuocare. Alle nove e cinque minuti, non vedendolo entrare, ciascuno commentò il ritardo fra sé. Il Paolin, prima di entrar in casa, aveva sostenuto contro il prefetto che non si sarebbe giuocato. Egli guardò trionfante il suo avversario e lo guardò pure il Paolon compiacendosi, per una solidarietà di Paoli, che avesse ragione il Paolin. Pasotti, che si era tenuto sicuro di giuocare, cominciò a dar segni d'inquietudine. Alle nove e sette minuti, la marchesa pregò il prefetto di suonare il campanello. Quegli restituì al Paolin l'occhiata trionfante e vi aggiunse tutto il muto disprezzo per la vecchia, che poté. «Apparecchiate», diss'ella al cameriere. Questi entrò poco dopo con le due candele. Anche in fondo agli occhi suoi crucciosi si vedeva il fantasma della bambina morta. Mentr'egli disponeva sul tavolino le candele, le carte da giuoco e i gettoni d'avorio, si fece nella sala quel silenzio di aspettazione che soleva precedere l'alzarsi della marchesa. Ma la marchesa non diede segno di volersi alzare. Si voltò a Pasotti e gli disse: «Controllore, se desideran giuocare Loro...»

«Marchesa», rispose Pasotti, pronto, «la presenza di mia moglie non deve impedirle di fare la Sua partita. Barbara giuoca male ma si diverte moltissimo a guardare.» «Stasera non giuoco», rispose la marchesa. La voce era molle ma il no era duro. Il buon Paolon, che taceva sempre e non sapeva giuocare a tarocchi, credette aver finalmente trovato una parola ossequiosa e savia da metter fuori.

«Già!», diss'egli. Pasotti lo guardò in cagnesco, pensò: «cosa c'entra lui?», ma non osò parlare. La marchesa non parve accorgersi della scoperta del Paolon e soggiunse: «Posson giuocare Loro». «Mai più!», esclamò il prefetto. «Neanche per sogno!» Pasotti levò di tasca la tabacchiera. «Il signor prefetto», diss'egli facendo spiccare le sillabe e alzando un poco la mano aperta con una presa tra il pollice e l'indice, «parla per sé. Per parte mia, se la signora marchesa lo desidera, son pronto a soddisfare il suo desiderio.» La marchesa tacque e il focoso prefetto, incoraggiato da quel silenzio, borbottò a mezza voce: «È un lutto di famiglia, infine». Da quando Franco era uscito di casa il suo nome non era mai stato pronunciato nelle conversazioni serali della sala rossa, la marchesa non aveva mai fatto allusione a lui né a sua moglie. Ella ruppe adesso il silenzio di quattro anni. «Mi rincresce per la creatura», diss'ella, «ma per suo padre e sua madre è un castigo di Dio.» Tutti tacquero. Dopo alcuni minuti, Pasotti disse a voce bassa, in tono solenne: «Fulmineo». E il curato di Cima soggiunse più forte: «Evidente». Il Paolin ebbe paura di tacere e di parlare, fece «ma!» e allora il Paolon osservò: «Proprio!». Il signor Giacomo soffiò. «Un castigo di Dio!», ripeté con enfasi il curato di Cima. «E anche, date le circostanze, un segno della Sua protezione sopra qualche altra persona.» Tutti, meno il prefetto che si rodeva, guardarono la marchesa come se la Mano protettrice dell'Onnipotente fosse sospesa sopra la sua parrucca. Invece quella Mano Divina stava sopra il cappello della Pasotti e le teneva ben chiusi gli orecchi onde non avessero a penetrarvi contaminatrici parole d'iniquità. «Curato», disse Pasotti, «poiché la signora marchesa lo propone, facciamo una partitina? Lei, il Paolin, il signor Giacomo e io.» I quattro che sedettero al tavolino da giuoco si lasciarono subito dolcemente andare, nel loro angolo, alle comode mollezze della conversazione sbottonata, alle vecchie barzellette ambrosiane attaccate ai tarocchi come l'unto. «Hin nanca arrivaa a Barlassina!», esclamò Pasotti dopo la prima giuocata, ridendo forte per far suonare la sua vittoria e la sua allegria. Quelli là si erano liberati dai fantasmi; gli altri no. La sorda, impettita e immobile sul canapè, aveva sofferto angosce mortali aspettando un gesto del marito che le imponesse di giuocare. Oh Signore, dovrebbe toccarle anche questa condanna? Per grazia del cielo il gesto non venne fatto e la sua prima impressione nel veder i quattro prender posto al tavolino fu di sollievo. Ma poi la riprese subito un disgusto amaro. Che insulto, quel giuoco, alla sua Luisa, che disprezzo per la povera cara Ombrettina morta! Nessuno le parlava, nessuno faceva attenzione a lei: ella si mise a recitare mentalmente una fila di Pater, Ave e Gloria , per la cattiva creatura seduta all'altro angolo del canapè, tanto vecchia, tanto vicina a comparire davanti a Dio. Le dedicò la preghiera per la conversione dei peccatori che soleva dire mattina e sera per suo marito da quando aveva scoperto certe sue familiarità con una bassa persona di casa.

Il prefetto, a udir gli schiamazzi di Pasotti, si alzò e prese congedo. «Aspetti», gli disse la marchesa, «di prender un bicchier di vino.» Alle nove e mezzo soleva capitare una bottiglia preziosa di San Colombano vecchio. «Stasera non bevo», rispose il prefetto, eroicamente. «Son troppo sottosopra da questa mattina in poi. Il Puria sa perché.»

«Ma!», fece il Puria, sottovoce. «È stata una gran tragedia, già.» Silenzio. Il prefetto s'inchinò alla marchesa, salutò la Pasotti con l'espressione del «c'intendiamo» e partì. Il curato di Puria, corpo grosso e cervello fino, studiava la marchesa senza parere. Era ella tocca o no dai fatti di Oria? L'essersi astenuta dal giuoco gli pareva un indizio dubbio. Poteva averlo fatto per rispetto al proprio sangue in astratto. Osservandola bene il curato notò che le sue mani tremavano: cosa nuova. Ella dimenticò di domandare a Pasotti se il vino fosse buono: cosa nuova. La maschera cerea del viso aveva di tratto in tratto qualche contrazione: cosa nuovissima. «È tocca», pensò il curato. Siccome ella taceva, la Pasotti taceva, il Paolon taceva, tutto il gruppo pareva petrificato, cercò lui di rompere il ghiaccio, non trovò di meglio che voltar quelle teste verso il tavolino del giuoco e commentare le apostrofi di Pasotti, le proteste del Paolin, i «no digo» e gli «apff» del signor Giacomo. La marchesa si scosse un poco, si compiacque di osservare che i giuocatori si divertivano. La Pasotti non udì né disse mai parola e gli altri tre finirono con parlar di lei. La marchesa si dolse che fosse tanto sorda, che non si potesse farle un po' di conversazione. Gli altri due dissero di lei tutto il gran bene che meritava e che dice ancora chi la ricorda. Ella stava lì malinconica e muta, non sospettando affatto d'esser il soggetto dei loro discorsi. Il Signore proteggeva la sua profonda, ingenua umiltà, non le lasciava penetrar negli orecchi le lodi della gente ma solo le strapazzate del consorte. I suoi grandi, compunti occhi neri si ravvivarono quando il signor Giacomo pronunciò un gran soffio finale, e i colleghi, lasciate le carte, si abbandonarono sulle spalliere delle rispettive seggiole a riposare alquanto, a ruminar il piacere del giuoco. Finalmente il suo signore si avvicinò al canapè, le fece segno di alzarsi. Per la prima volta in vita sua, forse, ella fu contenta di salire in barca, con grande meraviglia del Puria il quale dichiarò che sul lago, di notte, era un «fifone». È vero che a cento passi da Cressogno l'orrore del lago e delle tenebre la riprese. Pensò allora con invidia al curato del quale udiva la voce sopra il Tentiòn, fra gli ulivi. «Addio, fifone!», gridò Pasotti. Il «fifone» non udì. Egli e il Paolin discorrevano sottovoce ma con gran calore, commentando le parole della marchesa, del prefetto, di Pasotti, cercando di frugar nel cuore della vecchia, disputando se vi fossero pietà e rimorsi. Il curato era per il sì, il Paolin per il no. Il Paolon precedeva con la lanterna mettendo continui, inintelligibili grugniti. Il Paolin andò poi mordendo tutto che fosse da mordere, la durezza della marchesa, la malignità di Pasotti, la dabbenaggine di sua moglie, la cortigianeria del Cima, la temerità del prefetto, le pazzie di Luisa e di Franco, la debolezza dell'ingegnere Ribera, tante altre colpe di vivi e di morti. Durezze, debolezze, malignità, ostinazioni, cortigianerie: dappertutto, secondo lui, c'era in fondo quell'egoismo porco. «Che gran mond mincion!», fu il suo riassunto finale. «Ch'el senta car el me curat, quand gh'è quel poo de ris e verz con quel poo de formagg per sora, lassèm pür andà tüsscoss al diavol che l'è mej.» Dopo una sentenza tanto logica nulla restava più a dire né a grugnire e la piccola comitiva giunta in capo alla salita procedette silenziosa per le umide ombre del Campò, nell'odor fresco dei castagni e dei noci, senz'accorgersi di uno spettro che passava in aria, vôlto a Cressogno. Partiti i suoi ospiti, la marchesa suonò il campanello per il rosario che non s'era potuto dire alla solita ora. Il rosario di casa Maironi era una cosa viva che aveva le sue radici nei peccati antichi della marchesa e veniva sempre più sviluppandosi, mettendo nuovi Ave e nuovi Gloria a misura che la vecchia dama avanzava negli anni e si scorgeva più netto e più visibile a fronte un teschio schifoso, il proprio. Perciò il suo rosario era lungo assai. I peccati dolci della protratta gioventù non le pesavano troppo sulla coscienza; ma qualche grossa furfanteria d'altro genere, misurabile in lire, soldi e denari, mal confessata e quindi mal perdonatale, le dava una modestia sempre compressa a furia di rosari e sempre rinascente. Mentre chiedeva al Creditore Grande la remissione dè suoi debiti le pareva ch'Egli avesse facoltà d'accordarla intera; invece dopo le si levavano da capo in mente le facce crucciose dei creditori piccoli, ritornava con esse il dubbio del perdono, e la sua avarizia, la sua superbia avevano a lottare con il terrore di un carcere perpetuo per debiti, oltre la tomba. Recitare le preghiere per la conversione dei peccatori e quelle per la guarigione degl'infermi, prima di venire ai Deprofundis , annunciò tre Avemarie nuove secondo la sua intenzione. La guattera, una semplice pia contadina di Cressogno, suppose che le tre Avemarie fossero domandate per quei poveretti di Oria e le recitò con tutto lo zelo. Le Avemarie della guattera urtarono e dispersero quelle della padrona, che chiedevano sonno, riposo di nervi e di coscienza. Quanto alle Avemarie degli altri, esse furono dette secondo la loro comune intenzione che non restassero, come troppo spesso accadeva, definitivamente appiccicate al rosario. Nessuna insomma poté arrestare lo spettro nel suo cammino.

La marchesa si ritirò verso le undici. Prese dell'acqua di cedro e avendo la cameriera incominciato a parlare di Oria, di don Franco che si sussurrava essere arrivato, le impose silenzio. Era tocca, sì. Aveva sempre davanti agli occhi l'immagine di Maria come l'aveva veduta una volta passando in gondola sotto la villetta Gilardoni, piccina, con un grembiale bianco, i capelli lunghi e le braccia nude, stranamente somigliante ad un bambino suo, mortole a tre anni. Sentiva ella affetto, pietà? Non sapeva ella stessa quello che sentisse. Forse dispetto e sgomento di non sapersi liberare da una immagine molesta; forse paura di questo pensiero, che se non fosse stato commesso certo grosso peccato antico, se il testamento del marchese Franco non fosse stato arso, la bambina non sarebbe morta.

Come fu a letto si fece leggere altre preghiere dalla cameriera, le ordinò di spegnere il lume e la congedò. Chiuse gli occhi, cercò di non pensare a niente, e si vide sotto le palpebre una chiara macchia informe che si venne disegnando in un guancialetto, poi in una lettera, poi in un gran crisantemo bianco e poi in un viso supino, morto, che diventava via via più piccolo. Le pareva già di assopirsi ma per effetto di quest'ultima trasformazione le vibrò nel cuore il pensiero della bambina, non vide più nulla sotto le palpebre, il sopore si dileguò ed ella aperse gli occhi, inquieta, malcontenta. Si propose di pensar una partita di tarocchi per cacciar le immaginazioni moleste e richiamar il sonno. Pensò ai tarocchi, poté, con uno sforzo, vedersi nella testa il tavolino da giuoco, i giuocatori, i lumi, le carte; ma quando cessò dallo sforzo per abbandonarsi ad una visione passiva di questi soporifici fantasmi, le comparve sotto le palpebre tutt'altra cosa, una testa che cambiava continuamente lineamenti, espressione, attitudini e che venne per ultimo lentamente ripiegandosi avanti sopra se stessa come nel sonno o nella morte, non mostrando più che i capelli. Altra scossa di nervi; la marchesa riaperse gli occhi e udì l'orologio della scala suonare. Contò le ore: dodici. Già mezzanotte e non poter dormire! Stette alquanto ad occhi aperti ed ecco adesso immagini nel buio come prima sotto le palpebre. Cominciavano da un nucleo informe e si svolgevano continuamente. Si disegnò un quadrante d'orologio, che diventò un occhio spaventato di pesce, un occhio umano severo. Ad un tratto venne alla marchesa l'idea che non riuscirebbe a dormire e il sopore già inoltrato andò rotto da capo. Allora ella suonò il campanello.

La cameriera si fece chiamar due volte e poi venne mezzo svestita, dormigliosa. L'ordine fu di posar il lume sopra una sedia per modo che dal letto non si potesse veder la fiamma; di prendere un volume di prediche del Barbieri e di leggere a mezza voce. La cameriera era abituata a somministrare questi narcotici. Si pose a leggere e in capo alla seconda pagina, udendo il respiro della padrona farsi greve, andò pian piano smorzando la voce per un mormorio inarticolato, fino al silenzio. Aspettò un poco, ascoltò il respiro regolare e pesante, si alzò a guardar la faccia cupa, supina sul doppio guanciale con le sopracciglia aggrottate e la bocca semiaperta, prese il lume e si ritirò in punta di piedi.

La marchesa dormiva e sognava. Sognava di giacer sulla soglia nello stanzone buio di un carcere, con i ceppi ai piedi, accusata di assassinio. Entrava il giudice con un lume, sedeva presso a lei e leggeva una predica sulla necessità della confessione. Ella gli si protestava innocente, ripeteva: «Ma non sa che si è annegata da sé?». Il giudice non rispondeva, leggeva, leggeva sempre con voce compunta e solenne, e la marchesa insisteva: «No, non l'ho uccisa». Non era flemmatica nel sogno, si agitava come una disperata. «Badi», rispondeva il giudice. «La bambina lo dice.» Egli si alzava in piedi e ripeteva: «Lo dice». Poi batté forte le mani palma a palma ed esclamò: «Entrate!». Fino a questo punto la marchesa aveva sentito, sognando, di sognare; qui credette svegliarsi, vide con orrore che qualcuno era entrato infatti.

Una forma umana debolmente luminosa stava a sedere sulla poltrona ingombra di vesti, presso il suo letto, sì ch'ella non poteva vedere la parte inferiore dell'Apparizione. Il busto, le braccia, le mani raccolte insieme avevano un colore biancastro e contorni alquanto incerti; la testa, appoggiata alla spalliera, era nitida e circonfusa d'un chiaror pallido. Gli occhi scuri, vivi, fissavano la marchesa. Che orrore! Era veramente la bambina morta. Che orrore, che orrore! Gli occhi dell'Apparizione parlavano, lo dicevano. Il giudice aveva ragione, la bambina lo diceva, senza parole, con gli occhi. «Tu, nonna, tu sei stata, tu. Io avrei dovuto nascer e vivere nella tua casa. Tu non l'hai voluto. Sei condannata alla morte eterna.»

Gli occhi soli, i fissi, tristi, pietosi occhi dicevano tutto questo ad un tempo. La marchesa mise un lungo gemito, stese le braccia verso l'Apparizione, credendo dir qualche cosa e non riuscendo che a rantolare «ah... ah... ah...» mentre le mani, le braccia, il busto del fantasma sfumavano in una nebbia, i contorni del viso illanguidivano e solo rimaneva intenso lo sguardo, che finalmente pure si velò e rientrò quasi in un lontano e profondo Se stesso, null'altro rimanendo dell'Apparizione che poca fosforescenza poi assorbita dall'ombra. La marchesa si svegliò di soprassalto, ansante, non si ricordò del campanello, si provò a gridare e non riuscì a metter fuori la voce. Con un impeto della sua volontà potente ancora nello sfacelo delle forze, cacciò le gambe dal letto, discese, fece due passi brancolando nel buio, incespicò nella poltrona, si aggrappò a una sedia, cadde con essa pesantemente sul pavimento, si mise a gemere.

La cameriera si svegliò al tonfo, chiamò, non ebbe risposta, udì il gemito e, acceso il lume, accorse, vide nella penombra, tra la sedia e la poltrona, qualche cosa di bianco e d'enorme che si divincolava sul pavimento come una bestia mostruosa del mare tirata in secco. Gridò, corse al campanello, svegliò d'un colpo tutta la casa e si precipitò ad aiutar la vecchia che rantolava: «Il prete, il prete! Il prefetto, il prefetto!»