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Piccolo mondo antico di Antonio Fogazzaro, PARTE SECONDA - 13. In fuga (parte 1)

PARTE SECONDA - 13. In fuga (parte 1)

Alle due e mezzo dopo la mezzanotte, Franco, l'avvocato V. e il loro amico Pedraglio erano seduti in loggia, al buio, in silenzio. A un tratto Pedraglio si alzò dicendo: «Cosa fa questo asino?», uscì sulla terrazza, vi stette in ascolto e rientrò. «Niente», diss'egli. «Disi mi, e per quell'asino che si sarà addormentato dobbiamo star qui da minchioni ad aspettare che ci prendano? Tu, Maironi, la strada presso a poco la sai e siamo poi anche in tre che abbiamo il fegato buono. Se occorrerà de dà via on quai cazzott el darèm via, neh ti avocàt?»

Il Pedraglio s'era trovato la sera prima, verso le sette, sulla strada fra Loveno e Menaggio nel luogo che chiamano «el crott del Bertin». Un uomo gli aveva chiesto l'elemosina e posto in mano un biglietto. Poi si era allontanato rapidamente. Il biglietto diceva: «Perché il Carlino Pedraj non valo mica subito a Oria a trovare il Signor Maironi e il signor avocatto di Varenna per fare una bella spasseggiata con gli amici cari da quel co di quel palo?». Dopo l'arresto del medico di Pellio, amico suo, Pedraglio era in sospetto di qualche tiro della Polizia, e quel biglietto non era il primo avviso salutare e sgrammaticato che pervenisse a un patriota. Il biglietto parlava chiaro; bisognava passar subito il palo del confine. Il Pedraglio non sapeva niente della disgrazia di Franco né del suo ritorno né che l'avvocato fosse a Oria, ma non andò a cercar altro, corse a Loveno, si provvide di denaro e si pose in cammino. Non si fidò di venire a Porlezza, prese il sentiero che presso Tavordo sale per un vallone deserto al Passo Stretto. Agile come un camoscio, arrivò in quattr'ore a Oria, trovò che Franco e l'avvocato si preparavano a partire per un altro avvertimento misterioso pervenuto loro dal curato di Castello, ch'era stato a Porlezza e ne aveva ricevuto l'incarico in confessione. Ismaele doveva guidarli oltre il confine. I passi del Boglia erano guardatissimi. Ismaele si proponeva di passar fra il monte della Nave e Castello per calar poi nella valle, tagliar dritto all'Alpe di Castello sotto il Sasso Grande e di là scendere a Cadro, un'ora sopra Lugano. Ma Ismaele doveva venire alle due, e alle due e mezzo non s'era veduto ancora. Anche Luisa era in piedi. Stava nell'alcova rammendando un paio di calze di Maria per metterle poi sul lettino dove aveva disposto le cosucce di Ombretta con la stessa cura di quando la piccina era viva. Non aveva voluto vedere né l'avvocato né Pedraglio. Dopo le smanie del funerale il suo dolore aveva ripreso quell'aspetto cupo che più dispiaceva al dottor Aliprandi. Non smaniava più, non parlava; pianto, non aveva mai. Il suo contegno con Franco era un contegno di pietà per l'uomo che l'amava e il cui affetto, la cui presenza le erano, malgrado lei stessa, indifferenti. Franco, sperando nell'impiego di cui gli aveva tenuto parola il suo direttore, aveva parlato di portar seco la famiglia a Torino. Lo zio, poveretto, era disposto anche a questo sacrificio ma Luisa aveva detto chiaro che piuttosto di allontanarsi dalla sua figliuola finirebbe nel lago come lei.

Franco, udita la proposta di partire senza Ismaele, si alzò e disse che andava a congedarsi da sua moglie. Nello stesso momento l'avvocato udì un passo nella strada. «Silenzio!», diss'egli. «È qui.» Franco uscì sulla terrazza. Qualcuno veniva infatti dalla parte di Albogasio. Franco attese che arrivasse sul sagrato e chiamò a mezza voce:

«Ismaele!» «Sono io», rispose una voce che non era quella di Ismaele. «Sono il prefetto. Vengo su.» Il prefetto? A quell'ora? Che poteva essere accaduto? Franco andò in cucina ad accendere un lume e discese le scale in fretta. Passarono cinque minuti e gli amici non lo videro ricomparire. Capitò invece la moglie d'Ismaele a dire che suo marito si sentiva male e non poteva muoversi. Parlò dal sagrato a Pedraglio che stava sulla terrazza. Quegli corse a chiamar Franco. Lo trovò sulle scale che saliva col prefetto. «La guida è ammalata», diss'egli, conoscendo il prete per un galantuomo. «Andiamo e non perdiamo tempo.» Franco gli rispose che subito non poteva venire e che lo precedessero. Come, non poteva venire? No, non poteva. Fece passare il prefetto in sala, chiamò l'avvocato, insistette con lui e con Pedraglio perché partissero subito. Era successa una cosa straordinaria, doveva parlarne a sua moglie, non poteva dire che risoluzione prenderebbe. Gli amici protestarono che mai non l'avrebbero abbandonato. L'allegro Pedraglio, uso a spendere oltre i desideri di suo padre, osservò che alla peggio a Josephstadt o a Kufstein si viveva più a buon mercato e più virtuosamente che a Torino e che ciò avrebbe consolato il suo «regiôr». «No no!», esclamò Franco. «Andate, andate! Prefetto, persuadili tu!» Ed entrò nell'alcova. «Partite?», gli disse Luisa con quella voce che pareva venire da un mondo lontano. «Addio.» Egli le si avvicinò, si chinò a baciar la calzettina che teneva in mano. «Luisa», mormorò, «c'è qui il prefetto della Caravina.» Ella non mostrò alcuna sorpresa. «La nonna lo ha fatto chiamare stanotte», continuò Franco. «Gli ha detto di aver veduto la nostra Maria, luminosa come un angelo.» «Oh, che menzogna!», fece Luisa con una voce grossa di disprezzo, senz'ira. «Come se fosse possibile che andasse da lei e non venisse da me!»

«Maria le ha toccato il cuore», riprese Franco. «Ella ci domanda perdono, ha paura di morire, mi supplica di andar da lei, di portarle una parola di pace anche per te.» Neppure Franco credeva all'Apparizione, scettico profondamente com'era per tutto il soprannaturale non religioso, ma credeva che Maria, nella sua esistenza superiore, avesse già potuto operare un miracolo, toccar il cuore della nonna e ciò gli recava una commozione indicibile. Luisa restò di ghiaccio. Neppur s'irritò, come Franco temeva, all'idea di mandar un messaggio amorevole. «La nonna avrà paura dell'inferno», osservò con quella sua freddezza mortale. «L'inferno non c'è, tutto si riduce a un po' di spavento, è una pena da niente, la subisca e poi muoia anche lei come si muore tutti e amen.» Franco intese che sarebbe stato inutile insistere. «Allora vado», diss'egli. Ella tacque. «Non credo che potrò ripassar da casa, nel ritorno», riprese Franco. «Dovrò prendere la montagna.» Nessuna risposta.

Il giovane disse sottovoce: «Luisa!». Rimprovero, dolore, passione: tutto questo era nel suo richiamo. Le mani di Luisa, che mai non avevano smesso il lavoro, si fermarono. Ella mormorò: «Non sento più niente. Sono un sasso». Franco si sentì mancare, baciò sua moglie sui capelli, le disse addio, entrò nell'alcova, s'inginocchiò, abbracciò il lettuccio voto, pensò alla vocina del suo tesoro: «ancora un bacio, papà», ebbe un assalto di pianto, si contenne, corse via precipitosamente. Gli amici lo attendevano in sala impazienti. Come partire se non conoscevan le strade? L'avvocato conosceva la strada di Boglia, sì, ma era da prendere, volendo sfuggire alle guardie? Quando udirono che Franco intendeva andare a Cressogno rimasero sbalorditi. Pedraglio uscì dai gangheri, disse ch'era un'indegnità di piantar così gli amici nell'imbarazzo. Il prefetto, udito come le cose stavano, s'unì a Pedraglio, offerse di giustificare Franco, gli propose di scrivere due parole ch'egli avrebbe portate a Cressogno. Ma Franco aveva l'idea che la sua Maria volesse da lui questa cosa e non cedette. Gli venne in mente che il prefetto era pratico di tutti i sentieri come una lepre. «Va' tu!», gli diss'egli. «Accompagnali tu!» Il prefetto stava per rispondere che forse la marchesa potrebbe aver bisogno di lui, quando l'avvocato fece: «Zitto! guardate».

Proprio davanti alla casa, dove l'ombra del monte Bisgnago si profilava sull'acqua ondulando, c'era una barca ferma. Franco riconobbe la lancia delle guardie di finanza. «Scommetto che quei porci là ci fanno la guardia», mormorò Pedraglio. «Temono che si scappi in barca. Almeno spiano!»

«Zitto!», fece ancora l'avvocato affacciandosi alla finestra verso il sagrato. Tutti tacquero, trattenendo il respiro. «Fioeui!», disse V. scostandosi bruscamente dalla finestra: «Ghe semm!». Franco andò alla finestra, vide un uomo solo che veniva correndo, credette a un falso allarme; ma l'uomo, quel tale che portava il nomignolo di «légora fügada», che vedeva e sapeva tutto, gli gittò, passando sotto la finestra, due parole: «La forza!». Si udirono in pari tempo i passi di molte persone. Franco esclamò «Con me! anche tu, prefetto!». Si slanciò, seguito da tutti, nel cortiletto ch'è tra la casa e il monte, raggiunse, passando per una legnaia, la scorciatoia che mette ad Albogasio Superiore. Faceva così scuro che nessuno si accorse di una guardia di finanza appostata con la carabina in pugno a due passi dall'uscio della legnaia. Per fortuna la guardia, certo Filippini di Busto, era un galantuomo che mangiava a malincuore il pane austriaco per non averne potuto trovare altro. «Presto!», diss'egli sottovoce. «Prendano i campi e poi la strada di Boglia! Il sentiero sotto il faggio della Madonnina, a sinistra!» Franco ringraziò quell'uomo, si avventò con i compagni sul ripido sentiero che mette alla stradicciuola comunale di Albogasio Superiore. Giunti a mezza via, saltarono tutti a destra in un campo di granturco e stettero in ascolto. Udirono passi sulla scaletta che sale dal sagrato e poi sul sentiero dov'era appostata la guardia. Evidentemente si voleva accertarsi che tutte le uscite fossero ben guardate. I quattro strisciarono subito via attraverso il granturco e giunti sotto lo scoglio che chiamano «Sass del Lori», tennero consiglio. Avrebbero potuto prendere il sentiero che monta sulla strada di Albogasio proprio alla porta del giardino Pasotti, e poi arrampicarsi di campo in campo fino alla strada di Boglia. Ma il sentiero era difficile a trovare a quell'ora; temendo perdere troppo tempo, prescelsero di raggiungere una scaletta che da Albogasio Inferiore sale presso alla casa Puttini. Quindi, girando a destra la casa Puttini, avrebbero raggiunto in due salti la strada di Boglia. Faceva già un po' meno scuro; ciò era male per un verso ma era bene per cavarsela da quel labirinto di campicelli e di muricciuoli. Nessuno parlava. Il solo Pedraglio, qualche volta, inciampando in un sasso o pungendosi in una siepe, tirava una maledizione meneghina. Allora gli altri zittivano. Arrivarono sulla scaletta preceduti dal prefetto che saltava muri e siepi come uno scoiattolo. Quando furono tutti raccolti sulla scaletta, Franco si staccò dal gruppo. Per la strada di Boglia non avevano bisogno di lui, egli andava a Cressogno. Invano Pedraglio lo afferrò per le braccia, invano il prefetto lo supplicò di non esporsi a un arresto sicuro, magari all'ergastolo. Egli credeva di obbedire alla voce di Maria, a un dovere di coscienza. Si strappò da Pedraglio e disparve su per la scaletta, non volendo andar a Cressogno per S. Mamette che sarebbe stato troppo pericoloso. «Avanti!», disse il prefetto. «Quello là è matto, pensiamo a noi.»

Girando la casa del Puttini udirono gente che veniva loro incontro e ridiscesero. La porta di casa Puttini era aperta. Vi entrarono. La gente passò discorrendo. Erano contadini e uno diceva: «Dove diavol el va a st'ora chì?». Ahimè, hanno incontrato e riconosciuto Franco. Se i gendarmi e le guardie si mettono alla caccia dei fuggitivi e s'imbattono in quella gente, ecco che trovano una traccia. Sull'alba si trova sempre gente. Stavolta s'è potuta evitare; un'altra volta, forse, non si potrà; un altro incontro può riescir fatale all'avvocato e a Pedraglio come il primo riuscirà probabilmente fatale a Franco. «Bisognerebbe che vi travestiste da contadini», dice il prefetto. All'avvocato, che ha dell'artista e del poeta e conosce bene il Puttini, viene un'idea: pigliar gli abiti del sior Zacomo per il Pedraglio ch'è piccolo anche lui, pigliar per sé un vestito della serva ch'è grande e grossa, cacciar le spoglie proprie in una gerla, caricarsene le spalle e via per Boglia. Il primo deputato politico di Albogasio ha cento ragioni di andare nel bosco del Comune. Detto fatto salgon le scale e il prefetto, ch'è pratico, va diritto a chiamare la Marianna. Costei non risponde; la sua camera è vuota. Il prefetto indovina subito che la perfida servente è andata a S. Mamette per qualche negozio segreto, come quello dell'olio. Ecco perché l'uscio di strada era aperto! Vanno in cucina, accendono due lumi, l'avvocato ne piglia uno e si fa insegnare la camera del sior Zacomo. Intanto Pedraglio esplora la cucina con l'altro lume, in cerca «de on quai diavol de bev» per pigliar fiato. Il sior Zacomo dormiva in una stanza d'angolo oltre una sala che l'avvocato attraversò in punta di piedi camminando tra mucchi di castagne, di noci, di nocciuole e di pere. Egli si accosta all'uscio: è chiuso. Origlia: silenzio. Gira pian piano la maniglia e spinge. L'infame uscio scricchiola, si ode un formidabile soffio e il sior Zacomo dice rabbiosamente: «Andé! No seché! Andé via!». L'avvocato entrò senz'altro. «Via, maledeta, digo!», gridò il sior Zacomo, rizzando sul guanciale la punta bianca del suo berretto da notte. Veduto l'avvocato, si mise a gemere. «Oh Dio, oh Dio! povareto mi, La me perdoni per carità, credeva che fosse la servente! Avvocato distintissimo, in nome de Dio, cossa xe nato?» «Gnente gnente, sior Zacomo», fece l'avvocato contraffacendolo molto lombardamente col suo imperturbabile umorismo. «Ghe xe qua, digo, ciò, el Commissario de Porlezza.»

«Oh Dio!» Il sior Zacomo fece atto di gettar le gambe fuori del letto. «Gnente, gnente, quieto quieto, soto soto. Andemo in Boglia, digo, ciò, per quel maledeto toro!» «Oh Dio, cossa disela, che a sta stagion in Boglia no ghe xe tori! Mi sudo tuto!» «No fa gnente, andemo, digo, a veder el posto, ciò, dove ch'el gera. Ma il signor Commissario», continuò il beffardo avvocato lasciando un linguaggio che troppo lo imbarazzava, «Le proibisce assolutamente di venire con noi, per le sue buone ragioni. Le proibisce di uscire prima del nostro ritorno e anzi mi ha ordinato di portarle via gli abiti.» E si diede a raccogliere rapidamente gli abiti del sior Zacomo, gl'intimò il silenzio in nome del Commissario, pigliò il cappellone a cilindro, arraffò la mazza di canna d'India, ordinò al disgraziato di dare il chiavistello appena uscito lui e di non aprire a nessuno, di non parlare a nessuno prima del ritorno del Commissario e tutto in nome del signor Commissario. Poi, lasciatolo più morto che vivo, raggiunse i compagni che, fruga qua e fruga là, avevano scovato un lurido vestito della Marianna, un fazzolettone rosso, una gerla e una bottiglia di anesone triduo . «Accidenti!», fece l'avvocato, quando vide la roba immonda che doveva mettere. Il suo travestimento andava veramente male, la sottana era corta, il fazzolettone non gli nascondeva abbastanza la faccia, ma non c'era tempo di far meglio. Invece il Pedraglio, cappellone in testa e canna d'India in mano, riescì un sior Zacomo perfetto. L'avvocato gli fece prendere sotto l'ascella uno scartafaccio che trovò in cucina, gl'insegnò come doveva camminare e soffiare. Prese per ultimo le chiavi della cantina, due chiavi enormi, ne diede una al Pedraglio e una ne mise in tasca per due possibili pugni, uno in chiave di violino, disse, e l'altro in chiave di basso. E così uscirono, il prefetto davanti, poi il finto sior Zacomo che soffiava come una macchina a vapore, poi la finta Marianna con la gerla. Appena furono in istrada ecco spuntar la Marianna vera di ritorno da San Mamette con un fiasco vuoto. Vista, tra il fosco e il chiaro, la tuba del padrone, diede volta e via a gambe.

«Brutta ladra», fece il prefetto. «Benone. Il travestimento va benone.» In cinque minuti furono sulla strada di Boglia. Il prefetto ridiscese, udì persone che salivano da Albogasio Superiore discorrendo di gendarmi e di guardie, andò loro incontro, domandò che ci fosse di nuovo. Una bagatella. Polizia, gendarmi, soldati a casa Ribera per arrestare don Franco Maironi e pare anche l'avvocato V., perché sapevano che ci doveva essere e hanno molto domandato di lui. Non hanno trovato né l'uno né l'altro benché le guardie di finanza sieno state di piantone intorno alla casa fin dalla mezzanotte. Adesso la Polizia perquisisce tutte le case di Oria ritenendo che i due sieno scappati per il tetto. Mentre si danno queste informazioni al prefetto, ecco un ragazzo venir di corsa dalla parte di Albogasio Superiore. Lo fermano. «I gendarmi!», dice. «I gendarmi!» È pallido come un cencio lavato e scappa senza saper perché, non gli si può cavare dove questi gendarmi sieno. Arriva una donna che si spiega meglio. Quattro guardie di finanza e quattro gendarmi sono passati in questo punto dalla piazza di Albogasio Superiore. Pare che don Franco sia stato veduto sulla strada di Castello. Due gendarmi e due guardie hanno preso la strada di Boglia. Il prefetto rabbrividisce. «Già», dice qualcuno. «La strada di Boglia per tagliargli il passo.» Questa è la speranza del prefetto, che gendarmi e guardie abbiano di mira il solo Franco. Egli è tanto smilzo, tanto alto: né il finto Puttini né la finta Marianna possono dar sospetto di esser lui. Il loro destino è ormai fuori delle sue mani mentre per Franco egli può far molto ancora. Si incammina verso Cressogno, confidando che a Cressogno Franco arriverà sano e salvo se i gendarmi non ne trovano tracce, perché lo cercheranno su tutti i sentieri che da Castello menano al confine e non mai sulla via di Cressogno. Pedraglio e l'avvocato fecero il primo tratto di strada, da Albogasio alle stalle di Püs, strisciando su per la ripidissima erta come gatti, a passi lunghi e cauti. L'avvocato camminava in silenzio, l'altro malediceva continuamente, sottovoce, il suo vestiario, «el loder d'on cappel» che gl'invischiava la fronte d'unto; «el boia d'un marsinon» che gli puzzava di troppi sudori antichi. Sino a Püs non incontrarono anima nata. A Püs una vecchia uscì tra le stalle un momento dopo ch'eran passati, disse stupefatta: «Sü per de chì, scior Giacom? A st'ora?». L'avvocato mormorò: «Boffa!», e l'altro si mise a soffiar «apff! apff!» come un mantice. «Se perd el fiaa per sti strad chì, cara lü», disse la vecchia. Non incontrarono più nessuno fino alla Sostra.

PARTE SECONDA - 13. In fuga (parte 1) PART TWO - 13. On the Run (Part 1)

Alle due e mezzo dopo la mezzanotte, Franco, l'avvocato V. e il loro amico Pedraglio erano seduti in loggia, al buio, in silenzio. A un tratto Pedraglio si alzò dicendo: «Cosa fa questo asino?», uscì sulla terrazza, vi stette in ascolto e rientrò. «Niente», diss'egli. «Disi mi, e per quell'asino che si sarà addormentato dobbiamo star qui da minchioni ad aspettare che ci prendano? Tu, Maironi, la strada presso a poco la sai e siamo poi anche in tre che abbiamo il fegato buono. Se occorrerà de dà via on quai cazzott el darèm via, neh ti avocàt?»

Il Pedraglio s'era trovato la sera prima, verso le sette, sulla strada fra Loveno e Menaggio nel luogo che chiamano «el crott del Bertin». Un uomo gli aveva chiesto l'elemosina e posto in mano un biglietto. Poi si era allontanato rapidamente. Il biglietto diceva: «Perché il Carlino Pedraj non valo mica subito a Oria a trovare il Signor Maironi e il signor avocatto di Varenna per fare una bella spasseggiata con gli amici cari da quel co di quel palo?». Dopo l'arresto del medico di Pellio, amico suo, Pedraglio era in sospetto di qualche tiro della Polizia, e quel biglietto non era il primo avviso salutare e sgrammaticato che pervenisse a un patriota. Il biglietto parlava chiaro; bisognava passar subito il palo del confine. Il Pedraglio non sapeva niente della disgrazia di Franco né del suo ritorno né che l'avvocato fosse a Oria, ma non andò a cercar altro, corse a Loveno, si provvide di denaro e si pose in cammino. Non si fidò di venire a Porlezza, prese il sentiero che presso Tavordo sale per un vallone deserto al Passo Stretto. Agile come un camoscio, arrivò in quattr'ore a Oria, trovò che Franco e l'avvocato si preparavano a partire per un altro avvertimento misterioso pervenuto loro dal curato di Castello, ch'era stato a Porlezza e ne aveva ricevuto l'incarico in confessione. Ismaele doveva guidarli oltre il confine. I passi del Boglia erano guardatissimi. Ismaele si proponeva di passar fra il monte della Nave e Castello per calar poi nella valle, tagliar dritto all'Alpe di Castello sotto il Sasso Grande e di là scendere a Cadro, un'ora sopra Lugano. Ma Ismaele doveva venire alle due, e alle due e mezzo non s'era veduto ancora. Anche Luisa era in piedi. Stava nell'alcova rammendando un paio di calze di Maria per metterle poi sul lettino dove aveva disposto le cosucce di Ombretta con la stessa cura di quando la piccina era viva. Non aveva voluto vedere né l'avvocato né Pedraglio. Dopo le smanie del funerale il suo dolore aveva ripreso quell'aspetto cupo che più dispiaceva al dottor Aliprandi. Non smaniava più, non parlava; pianto, non aveva mai. Il suo contegno con Franco era un contegno di pietà per l'uomo che l'amava e il cui affetto, la cui presenza le erano, malgrado lei stessa, indifferenti. Franco, sperando nell'impiego di cui gli aveva tenuto parola il suo direttore, aveva parlato di portar seco la famiglia a Torino. Lo zio, poveretto, era disposto anche a questo sacrificio ma Luisa aveva detto chiaro che piuttosto di allontanarsi dalla sua figliuola finirebbe nel lago come lei.

Franco, udita la proposta di partire senza Ismaele, si alzò e disse che andava a congedarsi da sua moglie. Nello stesso momento l'avvocato udì un passo nella strada. «Silenzio!», diss'egli. «È qui.» Franco uscì sulla terrazza. Qualcuno veniva infatti dalla parte di Albogasio. Franco attese che arrivasse sul sagrato e chiamò a mezza voce:

«Ismaele!» «Sono io», rispose una voce che non era quella di Ismaele. «Sono il prefetto. Vengo su.» Il prefetto? A quell'ora? Che poteva essere accaduto? Franco andò in cucina ad accendere un lume e discese le scale in fretta. Passarono cinque minuti e gli amici non lo videro ricomparire. Capitò invece la moglie d'Ismaele a dire che suo marito si sentiva male e non poteva muoversi. Parlò dal sagrato a Pedraglio che stava sulla terrazza. Quegli corse a chiamar Franco. Lo trovò sulle scale che saliva col prefetto. «La guida è ammalata», diss'egli, conoscendo il prete per un galantuomo. «Andiamo e non perdiamo tempo.» Franco gli rispose che subito non poteva venire e che lo precedessero. Come, non poteva venire? No, non poteva. Fece passare il prefetto in sala, chiamò l'avvocato, insistette con lui e con Pedraglio perché partissero subito. Era successa una cosa straordinaria, doveva parlarne a sua moglie, non poteva dire che risoluzione prenderebbe. Gli amici protestarono che mai non l'avrebbero abbandonato. L'allegro Pedraglio, uso a spendere oltre i desideri di suo padre, osservò che alla peggio a Josephstadt o a Kufstein si viveva più a buon mercato e più virtuosamente che a Torino e che ciò avrebbe consolato il suo «regiôr». «No no!», esclamò Franco. «Andate, andate! Prefetto, persuadili tu!» Ed entrò nell'alcova. «Partite?», gli disse Luisa con quella voce che pareva venire da un mondo lontano. «Addio.» Egli le si avvicinò, si chinò a baciar la calzettina che teneva in mano. «Luisa», mormorò, «c'è qui il prefetto della Caravina.» Ella non mostrò alcuna sorpresa. «La nonna lo ha fatto chiamare stanotte», continuò Franco. «Gli ha detto di aver veduto la nostra Maria, luminosa come un angelo.» «Oh, che menzogna!», fece Luisa con una voce grossa di disprezzo, senz'ira. «Come se fosse possibile che andasse da lei e non venisse da me!»

«Maria le ha toccato il cuore», riprese Franco. «Ella ci domanda perdono, ha paura di morire, mi supplica di andar da lei, di portarle una parola di pace anche per te.» Neppure Franco credeva all'Apparizione, scettico profondamente com'era per tutto il soprannaturale non religioso, ma credeva che Maria, nella sua esistenza superiore, avesse già potuto operare un miracolo, toccar il cuore della nonna e ciò gli recava una commozione indicibile. Luisa restò di ghiaccio. Neppur s'irritò, come Franco temeva, all'idea di mandar un messaggio amorevole. «La nonna avrà paura dell'inferno», osservò con quella sua freddezza mortale. «L'inferno non c'è, tutto si riduce a un po' di spavento, è una pena da niente, la subisca e poi muoia anche lei come si muore tutti e amen.» Franco intese che sarebbe stato inutile insistere. «Allora vado», diss'egli. Ella tacque. «Non credo che potrò ripassar da casa, nel ritorno», riprese Franco. «Dovrò prendere la montagna.» Nessuna risposta.

Il giovane disse sottovoce: «Luisa!». Rimprovero, dolore, passione: tutto questo era nel suo richiamo. Le mani di Luisa, che mai non avevano smesso il lavoro, si fermarono. Ella mormorò: «Non sento più niente. Sono un sasso». Franco si sentì mancare, baciò sua moglie sui capelli, le disse addio, entrò nell'alcova, s'inginocchiò, abbracciò il lettuccio voto, pensò alla vocina del suo tesoro: «ancora un bacio, papà», ebbe un assalto di pianto, si contenne, corse via precipitosamente. Gli amici lo attendevano in sala impazienti. Come partire se non conoscevan le strade? L'avvocato conosceva la strada di Boglia, sì, ma era da prendere, volendo sfuggire alle guardie? Quando udirono che Franco intendeva andare a Cressogno rimasero sbalorditi. Pedraglio uscì dai gangheri, disse ch'era un'indegnità di piantar così gli amici nell'imbarazzo. Il prefetto, udito come le cose stavano, s'unì a Pedraglio, offerse di giustificare Franco, gli propose di scrivere due parole ch'egli avrebbe portate a Cressogno. Ma Franco aveva l'idea che la sua Maria volesse da lui questa cosa e non cedette. Gli venne in mente che il prefetto era pratico di tutti i sentieri come una lepre. «Va' tu!», gli diss'egli. «Accompagnali tu!» Il prefetto stava per rispondere che forse la marchesa potrebbe aver bisogno di lui, quando l'avvocato fece: «Zitto! guardate».

Proprio davanti alla casa, dove l'ombra del monte Bisgnago si profilava sull'acqua ondulando, c'era una barca ferma. Franco riconobbe la lancia delle guardie di finanza. «Scommetto che quei porci là ci fanno la guardia», mormorò Pedraglio. «Temono che si scappi in barca. Almeno spiano!»

«Zitto!», fece ancora l'avvocato affacciandosi alla finestra verso il sagrato. Tutti tacquero, trattenendo il respiro. «Fioeui!», disse V. scostandosi bruscamente dalla finestra: «Ghe semm!». Franco andò alla finestra, vide un uomo solo che veniva correndo, credette a un falso allarme; ma l'uomo, quel tale che portava il nomignolo di «légora fügada», che vedeva e sapeva tutto, gli gittò, passando sotto la finestra, due parole: «La forza!». Si udirono in pari tempo i passi di molte persone. Franco esclamò «Con me! anche tu, prefetto!». Si slanciò, seguito da tutti, nel cortiletto ch'è tra la casa e il monte, raggiunse, passando per una legnaia, la scorciatoia che mette ad Albogasio Superiore. Faceva così scuro che nessuno si accorse di una guardia di finanza appostata con la carabina in pugno a due passi dall'uscio della legnaia. Per fortuna la guardia, certo Filippini di Busto, era un galantuomo che mangiava a malincuore il pane austriaco per non averne potuto trovare altro. «Presto!», diss'egli sottovoce. «Prendano i campi e poi la strada di Boglia! Il sentiero sotto il faggio della Madonnina, a sinistra!» Franco ringraziò quell'uomo, si avventò con i compagni sul ripido sentiero che mette alla stradicciuola comunale di Albogasio Superiore. Giunti a mezza via, saltarono tutti a destra in un campo di granturco e stettero in ascolto. Udirono passi sulla scaletta che sale dal sagrato e poi sul sentiero dov'era appostata la guardia. Evidentemente si voleva accertarsi che tutte le uscite fossero ben guardate. I quattro strisciarono subito via attraverso il granturco e giunti sotto lo scoglio che chiamano «Sass del Lori», tennero consiglio. Avrebbero potuto prendere il sentiero che monta sulla strada di Albogasio proprio alla porta del giardino Pasotti, e poi arrampicarsi di campo in campo fino alla strada di Boglia. Ma il sentiero era difficile a trovare a quell'ora; temendo perdere troppo tempo, prescelsero di raggiungere una scaletta che da Albogasio Inferiore sale presso alla casa Puttini. Quindi, girando a destra la casa Puttini, avrebbero raggiunto in due salti la strada di Boglia. Faceva già un po' meno scuro; ciò era male per un verso ma era bene per cavarsela da quel labirinto di campicelli e di muricciuoli. Nessuno parlava. Il solo Pedraglio, qualche volta, inciampando in un sasso o pungendosi in una siepe, tirava una maledizione meneghina. Allora gli altri zittivano. Arrivarono sulla scaletta preceduti dal prefetto che saltava muri e siepi come uno scoiattolo. Quando furono tutti raccolti sulla scaletta, Franco si staccò dal gruppo. Per la strada di Boglia non avevano bisogno di lui, egli andava a Cressogno. Invano Pedraglio lo afferrò per le braccia, invano il prefetto lo supplicò di non esporsi a un arresto sicuro, magari all'ergastolo. Egli credeva di obbedire alla voce di Maria, a un dovere di coscienza. Si strappò da Pedraglio e disparve su per la scaletta, non volendo andar a Cressogno per S. Mamette che sarebbe stato troppo pericoloso. «Avanti!», disse il prefetto. «Quello là è matto, pensiamo a noi.»

Girando la casa del Puttini udirono gente che veniva loro incontro e ridiscesero. La porta di casa Puttini era aperta. Vi entrarono. La gente passò discorrendo. Erano contadini e uno diceva: «Dove diavol el va a st'ora chì?». Ahimè, hanno incontrato e riconosciuto Franco. Se i gendarmi e le guardie si mettono alla caccia dei fuggitivi e s'imbattono in quella gente, ecco che trovano una traccia. Sull'alba si trova sempre gente. Stavolta s'è potuta evitare; un'altra volta, forse, non si potrà; un altro incontro può riescir fatale all'avvocato e a Pedraglio come il primo riuscirà probabilmente fatale a Franco. «Bisognerebbe che vi travestiste da contadini», dice il prefetto. All'avvocato, che ha dell'artista e del poeta e conosce bene il Puttini, viene un'idea: pigliar gli abiti del sior Zacomo per il Pedraglio ch'è piccolo anche lui, pigliar per sé un vestito della serva ch'è grande e grossa, cacciar le spoglie proprie in una gerla, caricarsene le spalle e via per Boglia. Il primo deputato politico di Albogasio ha cento ragioni di andare nel bosco del Comune. Detto fatto salgon le scale e il prefetto, ch'è pratico, va diritto a chiamare la Marianna. Costei non risponde; la sua camera è vuota. Il prefetto indovina subito che la perfida servente è andata a S. Mamette per qualche negozio segreto, come quello dell'olio. Ecco perché l'uscio di strada era aperto! Vanno in cucina, accendono due lumi, l'avvocato ne piglia uno e si fa insegnare la camera del sior Zacomo. Intanto Pedraglio esplora la cucina con l'altro lume, in cerca «de on quai diavol de bev» per pigliar fiato. Il sior Zacomo dormiva in una stanza d'angolo oltre una sala che l'avvocato attraversò in punta di piedi camminando tra mucchi di castagne, di noci, di nocciuole e di pere. Egli si accosta all'uscio: è chiuso. Origlia: silenzio. Gira pian piano la maniglia e spinge. L'infame uscio scricchiola, si ode un formidabile soffio e il sior Zacomo dice rabbiosamente: «Andé! No seché! Andé via!». L'avvocato entrò senz'altro. «Via, maledeta, digo!», gridò il sior Zacomo, rizzando sul guanciale la punta bianca del suo berretto da notte. Veduto l'avvocato, si mise a gemere. «Oh Dio, oh Dio! povareto mi, La me perdoni per carità, credeva che fosse la servente! Avvocato distintissimo, in nome de Dio, cossa xe nato?» «Gnente gnente, sior Zacomo», fece l'avvocato contraffacendolo molto lombardamente col suo imperturbabile umorismo. «Ghe xe qua, digo, ciò, el Commissario de Porlezza.»

«Oh Dio!» Il sior Zacomo fece atto di gettar le gambe fuori del letto. «Gnente, gnente, quieto quieto, soto soto. Andemo in Boglia, digo, ciò, per quel maledeto toro!» «Oh Dio, cossa disela, che a sta stagion in Boglia no ghe xe tori! Mi sudo tuto!» «No fa gnente, andemo, digo, a veder el posto, ciò, dove ch'el gera. Ma il signor Commissario», continuò il beffardo avvocato lasciando un linguaggio che troppo lo imbarazzava, «Le proibisce assolutamente di venire con noi, per le sue buone ragioni. Le proibisce di uscire prima del nostro ritorno e anzi mi ha ordinato di portarle via gli abiti.» E si diede a raccogliere rapidamente gli abiti del sior Zacomo, gl'intimò il silenzio in nome del Commissario, pigliò il cappellone a cilindro, arraffò la mazza di canna d'India, ordinò al disgraziato di dare il chiavistello appena uscito lui e di non aprire a nessuno, di non parlare a nessuno prima del ritorno del Commissario e tutto in nome del signor Commissario. Poi, lasciatolo più morto che vivo, raggiunse i compagni che, fruga qua e fruga là, avevano scovato un lurido vestito della Marianna, un fazzolettone rosso, una gerla e una bottiglia di anesone triduo . «Accidenti!», fece l'avvocato, quando vide la roba immonda che doveva mettere. Il suo travestimento andava veramente male, la sottana era corta, il fazzolettone non gli nascondeva abbastanza la faccia, ma non c'era tempo di far meglio. Invece il Pedraglio, cappellone in testa e canna d'India in mano, riescì un sior Zacomo perfetto. L'avvocato gli fece prendere sotto l'ascella uno scartafaccio che trovò in cucina, gl'insegnò come doveva camminare e soffiare. Prese per ultimo le chiavi della cantina, due chiavi enormi, ne diede una al Pedraglio e una ne mise in tasca per due possibili pugni, uno in chiave di violino, disse, e l'altro in chiave di basso. E così uscirono, il prefetto davanti, poi il finto sior Zacomo che soffiava come una macchina a vapore, poi la finta Marianna con la gerla. Appena furono in istrada ecco spuntar la Marianna vera di ritorno da San Mamette con un fiasco vuoto. Vista, tra il fosco e il chiaro, la tuba del padrone, diede volta e via a gambe.

«Brutta ladra», fece il prefetto. «Benone. Il travestimento va benone.» In cinque minuti furono sulla strada di Boglia. Il prefetto ridiscese, udì persone che salivano da Albogasio Superiore discorrendo di gendarmi e di guardie, andò loro incontro, domandò che ci fosse di nuovo. Una bagatella. Polizia, gendarmi, soldati a casa Ribera per arrestare don Franco Maironi e pare anche l'avvocato V., perché sapevano che ci doveva essere e hanno molto domandato di lui. Non hanno trovato né l'uno né l'altro benché le guardie di finanza sieno state di piantone intorno alla casa fin dalla mezzanotte. Adesso la Polizia perquisisce tutte le case di Oria ritenendo che i due sieno scappati per il tetto. Mentre si danno queste informazioni al prefetto, ecco un ragazzo venir di corsa dalla parte di Albogasio Superiore. Lo fermano. «I gendarmi!», dice. «I gendarmi!» È pallido come un cencio lavato e scappa senza saper perché, non gli si può cavare dove questi gendarmi sieno. Arriva una donna che si spiega meglio. Quattro guardie di finanza e quattro gendarmi sono passati in questo punto dalla piazza di Albogasio Superiore. Pare che don Franco sia stato veduto sulla strada di Castello. Due gendarmi e due guardie hanno preso la strada di Boglia. Il prefetto rabbrividisce. «Già», dice qualcuno. «La strada di Boglia per tagliargli il passo.» Questa è la speranza del prefetto, che gendarmi e guardie abbiano di mira il solo Franco. Egli è tanto smilzo, tanto alto: né il finto Puttini né la finta Marianna possono dar sospetto di esser lui. Il loro destino è ormai fuori delle sue mani mentre per Franco egli può far molto ancora. Si incammina verso Cressogno, confidando che a Cressogno Franco arriverà sano e salvo se i gendarmi non ne trovano tracce, perché lo cercheranno su tutti i sentieri che da Castello menano al confine e non mai sulla via di Cressogno. Pedraglio e l'avvocato fecero il primo tratto di strada, da Albogasio alle stalle di Püs, strisciando su per la ripidissima erta come gatti, a passi lunghi e cauti. L'avvocato camminava in silenzio, l'altro malediceva continuamente, sottovoce, il suo vestiario, «el loder d'on cappel» che gl'invischiava la fronte d'unto; «el boia d'un marsinon» che gli puzzava di troppi sudori antichi. Sino a Püs non incontrarono anima nata. A Püs una vecchia uscì tra le stalle un momento dopo ch'eran passati, disse stupefatta: «Sü per de chì, scior Giacom? A st'ora?». L'avvocato mormorò: «Boffa!», e l'altro si mise a soffiar «apff! apff!» come un mantice. «Se perd el fiaa per sti strad chì, cara lü», disse la vecchia. Non incontrarono più nessuno fino alla Sostra.