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Piccolo mondo antico di Antonio Fogazzaro, PARTE TERZA - 1. Il savio parla

PARTE TERZA - 1. Il savio parla

Non una ma tre primavere erano passate dopo quell'autunno del 1855 senza la fioritura d'armi e di stendardi che gl'italiani aspettavano sulle rive del Ticino. Nel febbraio del 1859 si era sicuri che non sarebbe passata così la quarta. Grandi avvenimenti, annunciati debitamente da una splendida cometa, erano in cammino. Correvano nelle viscere del mondo antico fremiti e scricchiolii sordi, come nelle viscere d'un fiume gelato alla vigilia dello sgelo. Il freddo mortale, il silenzio pauroso di dieci anni erano per passare portati via in un fragor d'urti e di rovine da correnti nuove, calde, brillanti. Il Carlascia faceva lo spaccone e parlava alle sue guardie, che tacevano, di una prossima passeggiata militare a Torino. Il signor Giacomo Puttini non s'era più riavuto bene dal colpo di quella mattina, dal tradimento dell'avvocato, dalla fine tragica del cappellone e dalla fine comica del «marsinon», aveva perduto ogni stima per i patrioti. Appunto nel febbraio del '59 il Paolin, tedescone, gli parlava alla farmacia di S. Mamette delle pazze speranze dei liberali. «No, signor Paolo riveritissimo», gli disse l'ometto. «Mi son nato soto San Marco, gran santo; go visto i franzesi, bona zente; adesso vedo i tedeschi, lassemo star, podaria vederghene anca dei altri ma i birbanti, La me creda, i birbanti no pol trionfar.» Il dottor Aliprandi era già in Piemonte. Un vecchio sott'ufficiale di Napoleone che abitava a Puria si rimetteva segretamente in ordine l'uniforme con l'idea di presentarsi all'imperatore dei francesi quando venisse in Italia. Il curato di Castello, Introini, quando incontrava don Giuseppe Costabarbieri, gli ricordava la canzone del 1796 che don Giuseppe aveva tirata fuori nel 1848 e poi nascosta da capo:

Stare nostre crante ulane Qua fenute d'Ungheria, Ma franzose crante...! Fato tuti scappar fia!

E don Giuseppe, tutto spaventato: «Citto, citto, citto!» Intanto sui pendii di Valsolda fiorivano pacificamente le viole come se nulla fosse. La sera del venti febbraio Luisa ne portò un mazzolino in Camposanto. Ella vestiva ancora a lutto, era terrea, macilenta, aveva gli occhi più grandi e molti fili d'argento in testa. Pareva che dal giorno della sua sventura fossero passati vent'anni. Uscita dal Camposanto si avviò verso Albogasio e si accompagnò ad alcune donne di Oria che andavano a dire il rosario alla parrocchia. Non pareva più lo spettro cupo che aveva posato le viole sopra la fossa di Maria. Parlò serena, ilare quasi, con l'una e con l'altra, domandò di una bestia malata, accarezzò e lodò una bambina che andava al rosario con la nonna, le raccomandò di stare tranquilla in chiesa come sempre vi stava la sua Maria. Disse questo e nominò Maria quietamente, mentre quelle donne rabbrividivano e anche stupivano perché adesso Luisa non andava in chiesa mai. Domandò a una ragazza se i giovanotti pensassero, come al solito, di recitare, se recitasse anche suo fratello; udito che sì, offerse aiuto per i costumi. Si accomiatò sul sagrato dell'Annunciata e nello scender soletta la Calcinera riprese il viso di spettro. Andava a Casarico, dai Gilardoni, sposi da tre anni. La felicità del professore, la sua adorazione per Ester vorrebbero un poema. Lo zio Piero diceva di lui ch'era diventato ebete. Ester temeva che diventasse ridicolo e non gli permetteva, quando c'era gente, di prender davanti a lei certe pose estatiche. La sola persona per la quale non valesse questa proibizione era Luisa. Ma di Luisa il Gilardoni aveva un certo riguardo; ella era sempre per lui un essere sovrumano; al rispetto per la persona s'era aggiunto il rispetto per il dolore e in presenza di lei egli teneva sempre un contegno riguardoso. Da due anni, circa, Luisa andava a casa Gilardoni quasi ogni sera e, se qualche cosa poteva turbare la pace degli sposi, erano queste visite. Esse avevano infatti un motivo strano e antipatico a Ester; ma Ester aveva un tale affetto per l'amica sua, una tale pietà della sua sventura e si sentiva fitto nel cuore un tal rammarico di non aver fatto più attenzione a Maria nel giorno terribile, che non osava opporsi risolutamente ai desideri di lei né distogliere suo marito dall'accondiscendervi. Espresse a Luisa la sua disapprovazione, la pregò di volere almeno tener segreto ciò che faceva di sera nello studio del professore; non andò più oltre. Il professore, invece, sarebbe stato felice di questi convegni ma soffriva del dispiacere di Ester. Era già notte quando Luisa suonò alla porticina di casa Gilardoni. Fu Ester che le aperse. Luisa non rispose al suo saluto che le parve imbarazzato, la guardò soltanto e quando fu nel salottino terreno dove Ester soleva passar le sue serate, l'abbracciò tanto appassionatamente che l'altra si mise a piangere. «Abbi pazienza», le disse Luisa. «Non mi resta che questo». Ester si provò a confortarla, a dirle che si avvicinava per lei un tempo migliore, la riunione con suo marito. Fra pochi mesi la Lombardia sarebbe libera, Franco ritornerebbe a casa. E allora... allora... Potrebbero succedere tante cose... Potrebbe ritornare anche Maria! Luisa diede un balzo, le afferrò le mani. «No!», diss'ella. «Non dire questa cosa! Mai! mai! Son tutta sua! Son tutta di Maria!» Ester non poté replicare perché, frettoloso e sorridente, entrò il professore. Egli vide che sua moglie aveva gli occhi bagnati di lagrime e che Luisa pareva sovreccitata. Salutò mogio mogio e sedette in silenzio accanto a Ester, immaginando che avessero parlato del solito argomento spiacevole a sua moglie. Questa avrebbe voluto mandarlo via, riprendere il discorso con Luisa, ma non osò farlo. Luisa fremeva contro quella immagine di futuro pericolo che di quando in quando le si era affacciata confusamente all'anima, che aveva sempre cacciata con orrore prima di considerarla, e che ora, per le parole dell'amica sua, le risorgeva davanti scoperta e netta. Dopo un lungo, penoso silenzio, Ester sospirò e le disse sottovoce: «Va' pure, sai. Andate pure». Luisa ebbe un impeto di gratitudine, s'inginocchiò davanti all'amica sua, le posò il capo in grembo. «Sai», diss'ella, «io non credo più in Dio. Prima credevo che ci fosse un Dio cattivo, adesso non credo più che esista; ma se vi fosse il Dio buono nel quale credi tu, non potrebbe condannare una madre che ha perduto la sua unica figliuola e cerca persuadersi che una parte di lei vive ancora!» Ester non rispose. Quasi ogni sera, da due anni, suo marito e Luisa evocavano la bambina morta. Il professore Gilardoni, strano miscuglio di libero pensatore e di mistico, aveva letto con moltissimo interesse le cose meravigliose che si raccontavano delle sorelle americane Fox, degli esperimenti di Eliphas Levi, aveva seguito il movimento spiritista propagatosi rapidamente in Europa come una mania che prendeva le teste e le tavole. Ne aveva parlato a Luisa, e Luisa, invasa, acciecata dall'idea di poter sapere se la sua bambina esistesse ancora e, posto che esistesse, di aver qualche comunicazione con lei, non vedendo altro in tutto il meraviglioso dei fatti e lo strano delle teorie che questo punto lucente, lo aveva supplicato di tentar qualche esperimento con Ester e con lei. Ester non credeva in fatto di soprannaturale che alla dottrina cristiana. Non pigliò quindi la cosa sul serio e acconsentì subito a posar le mani sopra un tavolino insieme all'amica e al marito, il quale, dal canto suo, mostrava un gran zelo, una gran fede di riuscire. I primi esperimenti non riuscirono. Ester, molto annoiata, avrebbe voluto che si rinunciasse a continuare; ma una sera il tavolino, dopo venti minuti di aspettazione, si chinò lentamente da un lato alzando un piede in aria, si riabbassò, tornò ad alzarsi, con grande sgomento di Ester, con grande gioia del professore e di Luisa. La sera dopo bastarono cinque minuti a farlo muovere. Il professore gl'insegnò l'alfabeto e tentò un'evocazione. Il tavolino rispose battendo il piede a terra secondo l'alfabeto suggeritogli. Lo spirito evocato diede il suo nome: Van Helmont. Ester tremava di paura come una foglia, il professore tremava di commozione, voleva far sapere a Van Helmont che aveva in biblioteca le sue opere, ma Luisa lo scongiurò di chiedergli dove fosse Maria. Van Helmont rispose: «Vicina». Allora Ester, pallida come un cadavere, si alzò protestando che non voleva continuare. Né le suppliche né le lagrime di Luisa valsero a persuaderla. Era peccato, era peccato! Ester non aveva un sentimento religioso profondo, ma paura del diavolo e dell'inferno sì, molto. Per parecchio tempo non fu possibile ricominciare le sedute. Ella ne aveva orrore e suo marito non osava contraddirla. Fu Luisa che a forza di scongiuri ottenne una transazione. Le sedute ricominciarono ma Ester non vi prese parte più.

Non volle neanche sapere cosa vi accadesse. Solamente, quando vedeva sua marito preoccupato, distratto, gli gittava un'allusione crucciosa alle pratiche segrete dello studio. Allora egli si affliggeva, offriva di desistere, ed era Ester che si sentiva debole di fronte a Luisa. Poiché, indirettamente, aveva capito che Luisa credeva di comunicare con lo spirito della bambina. Ella le aveva detto una volta: «Domani sera non vengo perché Maria non vuole». E un'altra volta: «Vado a Looch perché Maria vuole un fiore dalla Nonna». A Ester pareva incredibile che una testa lucida e forte come quella si smarrisse così. Comprendeva in pari tempo la difficoltà immensa di persuaderla con le buone e la crudeltà di opporsele con le cattive.

Il professore accese una candela e salì, seguito da Luisa, nello studio. Noi conosciamo lo studiolo simile a una cabina di bastimento, con gli scaffali pieni di libri, il caminetto, la finestra che guarda il lago, la poltrona dove Maria s'era addormentata la notte di Natale. Adesso v'era di più, fra il caminetto e la finestra, un piccolo tavolino rotondo con un sol piede tripartito a un palmo da terra. «Mi rincresce molto», disse il Gilardoni, entrando, «di far tanto dispiacere a Ester.» Posò il lume sulla scrivania e invece di disporre, secondo il solito, il tavolino e le sedie, andò a guardar dalla finestra il chiaror vago dell'acqua e dei cielo nelle ombre della notte. Luisa rimase immobile e subito egli si voltò bruscamente come avesse sentito per virtù magnetica l'angoscia di lei. Gliela vide spaventosa in faccia, intese ch'ella lo credeva risoluto di troncare mentre ne aveva solamente avuta la tentazione e le prese, commosso, le mani, le disse che Ester era tanto buona, che l'amava tanto, che né lui né lei avrebbero mai voluto recarle volontariamente un'afflizione. Luisa non rispose ma il professore durò fatica a impedire che gli baciasse la mano. Mentre egli collocava in mezzo alla stanza il tavolino e le due sedie, ella sedette sulla poltrona, come oppressa. «Ecco», fece il professore. Luisa si levò di tasca e gli tese una lettera.

«Ho tanto bisogno di Maria e di Lei, stasera!», diss'ella «Legga, è di Franco. Può cominciare dalla quarta pagina.» Il professore non intese queste ultime parole, si accostò al lume e lesse ad alta voce:

Torino, 18 febbraio 1859.

Luisa mia, Sai che non mi hai scritto da quindici giorni?

«Questo lo può saltare», interruppe Luisa, ma poi si corresse. «No, legga pure, è meglio.» Il professore continuò:

Ecco la terza lettera che io ti mando dopo ricevuta la tua del 6. Sono stato forse, nella prima, troppo vivace e ti ho ferita. Benedetto temperamento il mio, che non solo mi fa dire parole troppo vivaci quando il sangue mi si riscalda, ma me le fa anche scrivere! E benedetto sangue che a trentadue anni suonati si riscalda come a ventidue! Perdonami, Luisa, e permettimi di ritornare sull'argomento onde riprendermi quelle parole che hanno potuto offenderti. Adesso non si discorre più né di tavolini né di spiriti, non si discorre che di diplomazie e di guerra; ma gli anni scorsi se ne parlò moltissimo e parecchie persone che io stimo e onoro ci credevano. Di alcune so positivamente che erano illuse ma non ho mai dubitato, quando mi riferivano conversazioni avute con gli spiriti, della loro buona fede. Pare che l'immaginazione, eccitata, possa far udire e vedere come reale ciò che non è. Ma io voglio credere che nel tuo caso non v'inganni l'immaginazione, che il vostro tavolino si muova e si esprima davvero come dici. Ho avuto torto di metter questo in dubbio, lo confesso, poiché tu sei talmente sicura di non ingannarti e poiché conosco abbastanza l'onestà del professor Gilardoni. Ma vi è poi per me una questione di sentimento. Io so che la mia dolce Maria vive con Dio, io ho la speranza di andare un giorno, con altre anime a me care, dov'ella è. Se mi comparisse spontaneamente, se udissi, senz'averla chiamata, il suono della sua voce viva e vera, forse non potrei sopportare una gioia così grande; chiamarla, costringerla di venire non vorrei mai. Mi ripugna, è contrario a quel senso di venerazione che ho per un Essere tanto più vicino a Dio di me. Anch'io, Luisa, parlo al nostro tesoro ogni giorno, le parlo di me e anche di te, sapendo che ci vede, che ci ama, che potrà molto ancora, in questa vita stessa, sopra di noi. Tali vorrei pure i colloqui tuoi con essa; e se rispondendo alla lettera in cui alludevi a una comunicazione di lei mi sono espresso con acerbità, perdonami in grazia non solamente del mio cattivo carattere ma delle idee altresì e dei sentimenti che sono come parte della mia natura. Perdonami pure in grazia della sovreccitazione immensa in cui si vive qui. La mia gola sta bene; da quando si parla di guerra ho gittato canfora e acqua sedativa, ma i nervi sono tesi straordinariamente, mi par che a toccarli dieno scintille. Questo viene anche dall'intenso lavoro che abbiamo al Ministero, dove non c'è più orario e chi più gode fiducia, sia pure un segretariucolo, più deve sgobbare. Quando ebbi questo posto dalla bontà del conte di Cavour, mi pareva di mangiare il pane dello Stato a tradimento. Adesso non è così ma sto per togliermi a questo gran lavoro e ciò mi conduce a un altro discorso che ho nel cuore da un pezzo e che adesso ti faccio con una commozione indicibile.

Fra otto giorni i miei amici ed io ci arruoliamo nell'esercito come volontari per la durata della campagna. Si entra nel 9° fanteria che ha il deposito a Torino. Qui al Ministero si vorrebbe trattenermi ancora ma io intendo di trovarmi istruito al reggimento quando entrerà in campagna e ho solamente preso l'impegno di non lasciar l'ufficio che un giorno prima di arruolarmi. Luisa, sono tre anni e quasi cinque mesi che non ci vediamo. Vero che tu sei sorvegliata dalla Polizia e che ti è proibito di venire a Lugano; però io ti ho proposto più volte più modi di venirmi a incontrare segretamente almeno al confine, sulla montagna, e tu non mi hai risposto. Ho creduto indovinare che tu non ti sapessi allontanare neppure per poco tempo da un luogo sacro. Mi pareva troppo e ti confesso che ne provai un'amarezza molto profonda! Poi mi pentivo, mi pareva d'essere egoista, ti assolvevo. Adesso, Luisa, le circostanze sono mutate. Non ho cattivi presentimenti, mi par impossibile di aver a restare sopra un campo di battaglia, ma impossibile non è. Prenderò parte ad una guerra che si annuncia tra le più grosse, tra le più lunghe e disperate, perché se l'Austria ha in giuoco le sue provincie italiane, noi, e forse anche l'imperatore Napoleone, abbiamo in giuoco tutto. Si dice che passeremo l'inverno venturo sotto Verona. Luisa, io non voglio correre il pericolo di morire senz'averti riveduta. Ho ventiquattr'ore sole, non posso venire al confine né a Lugano, né mi può bastare di star con te dieci minuti! Fatti portare a Lugano, in qualche modo, da Ismaele la mattina del 25 corr. Parti da Lugano in tempo di essere a Magadino per il tocco poiché da Luino non puoi passare. A Magadino piglierai il battello che parte di là circa al tocco e mezzo. Scenderai circa alle quattro a Isola Bella dove, presso a poco alla stess'ora, arriverò anch'io da Arona. L'Isola Bella, a questa stagione, è un deserto. Vi passeremo la sera insieme e ripartiremo la mattina, tu per Oria, io per Torino.

Scrivo allo zio Piero per chiedergli perdono se gli tolgo un giorno della tua compagnia. Maggior male non temo. Anche gli austriaci non pensano che alle armi, la loro Polizia si lascia sfuggire migliaia di giovani che vengono a prenderle qui. Sarebbero terribili all'indomani di una vittoria ma quel giorno, per essi, viva Dio! non verrà. Luisa, è possibile ch'io non ti trovi all'Isola Bella, che tu creda far piacere a Maria non venendo? Ma non sai, la mia Maria, la mia povera piccina, se le avessero detto corri a salutar il tuo papà che forse va a morire come...

La voce del lettore oscillò, si ruppe, mancò in un singhiozzo. Luisa si nascose il viso fra le mani. Egli le posò la lettera sulle ginocchia e disse a stento: «Donna Luisa, può avere un dubbio?» «Sono cattiva», rispose Luisa sottovoce, «sono matta.» «Ma non gli vuol bene?»

«Alle volte mi pare tanto e alle volte niente.» «Dio mio!», fece il professore. «Ma adesso? Non La commuove l'idea che potrebbe non vederlo mai più?» Luisa tacque; parve che piangesse. Balzò improvvisamente in piedi stringendosi le tempie fra le mani, piantò in viso al professore due occhi dove non erano lagrime ma invece una luce sinistra di corruccio. «Ella non sa», esclamò, «cosa c'è nella mia testa, che cumulo di contraddizioni, quante idee opposte che si combattono e prendono continuamente il luogo l'una dell'altra! Quando ho ricevuto la lettera ho pianto tanto, mi son detta: "sì, povero Franco, stavolta vado", e poi ecco una voce che mi dice qui nella fronte: "no, non devi andare perché... perché... perché...".» Luisa s'interruppe e il professore, spaventato da bagliori di pazzia negli occhi che lo fissavano, non osò chiedere spiegazioni. Gli occhi strani sempre fissi nè suoi vennero raddolcendosi, velandosi. Luisa gli prese le mani, gli disse piano, timidamente: «Domandiamo a Maria». Sedettero al tavolino, vi posarono le mani su. Il professore voltava le spalle al lume che batteva sul viso di Luisa. Il tavolino era nell'ombra. Dopo undici minuti di silenzio profondo il professore mormorò: «Si muove». Infatti il tavolino si andava lentamente inclinando da un lato. Ricadde e batté un piccolo colpo. Il viso di Luisa s'illuminò. «Chi sei?», disse il professore. «Rispondi col solito alfabeto.» Il tavolino batté diciassette colpi, poi quattordici, poi diciotto, poi uno. «Rosa», disse il professore, piano. Rosa era il nome di una sorellina di sua moglie, morta nell'infanzia, e il tavolino aveva battuto parecchie altre volte questo nome. «Va'», ripeté il Gilardoni, «mandaci Maria.» Il tavolino si rimise tosto in movimento e batté queste parole: «Son qui. Maria.» «Maria, Maria, Maria mia!», sussurrò Luisa con un'espressione, in viso, di beatitudine. «Conosci», disse il Gilardoni, «la lettera che tuo padre ha scritto a tua madre?» Il tavolino rispose: «Sì». «Cosa deve fare tua madre?» Luisa tremava da capo a piedi, aspettando. Il tavolino rimase immobile. «Rispondi», fece il professore. Il tavolino si mosse e batté un miscuglio incomprensibile di lettere. «Non abbiamo capito. Ripeti.» Il tavolino non si mosse più. «Ripeti dunque!», fece il professore quasi bruscamente. «No!», supplicò Luisa. «Non insista, non insista! Maria non vuol rispondere!» Ma il professore voleva insistere. «Non è possibile», diceva, «che lo spirito non risponda. Lei lo sa, ci è successo altre volte di non intendere quel che dice.» Luisa si alzò agitatissima, dicendo che piuttosto di costringere Maria era contenta d'interrompere la seduta. Il professore rimase meditabondo al proprio posto. «Zitto!», diss'egli. Il tavolino si moveva, ricominciò a batter colpi. «Sì», esclamò il Gilardoni, raggiante. «Ho domandato col pensiero s'Ella deve andare e il tavolino ha risposto "sì". Ridomandi lei ad alta voce.» Cinque o sei minuti passarono prima che il tavolino si rimettesse in moto. Alla domanda di Luisa «debbo andare?» batté prima tredici colpi poi quattordici. La risposta era «no». Il professore impallidì e Luisa lo interrogò con lo sguardo. Egli rimase lungamente muto, poi rispose sospirando: «Potrebbe non essere Maria. Potrebb'essere uno spirito di menzogna». «E come si può sapere?», fece Luisa ansiosamente. «Impossibile. Non si può sapere.» «Ma e le altre comunicazioni, dunque? Non vi è certezza mai?» «Mai.» Ella tacque, atterrita. Poi sussurrò: «Doveva essere così. Doveva mancarmi anche questo». E posò la fronte sul tavolino. Il lume della candela batteva sui capelli, sulle braccia, sulle mani di lei. Ella non si moveva, nulla si moveva nella camera, tranne la fiammella oscillante della candela. Un'altra fiammella, un ultimo lume di speranza e di conforto stava morendo nella povera testa caduta sotto il colpo d'un dubbio amaro e invincibile. Che poteva fare, che poteva dire il Gilardoni? Egli vedeva prossimo a compiersi, non per opera sua, il desiderio di Ester. Tre o quattro minuti dopo si udirono passi al piano inferiore e la voce di Ester. Luisa, lentamente, si alzò. «Andiamo», diss'ella. «Bisognerebbe forse pregare», osservò il Gilardoni, senza muoversi. «Bisognerebbe forse domandare agli spiriti se confessano Cristo.» «No no no no no», fece sottovoce Luisa, negando, anche con la mano, ostilmente. Il professore prese la candela in silenzio. Ritornando a Oria Luisa salì al cancello del Camposanto. Vi appoggiò la fronte, gittò verso la fossa di Maria un soffocato addio e ridiscese. Giunta sul sagrato andò ad affacciarsi al parapetto, guardò giù il lago addormentato nell'ombra. Stette lì alquanto lasciando andar il pensiero per la sua china. Posò i gomiti sul parapetto, si piegò, si appoggiò il viso alle mani sempre guardando l'acqua, l'acqua che aveva preso Maria. Il suo pensiero veniva pigliando una forma precisa non dentro a lei ma laggiù nell'acqua. Essa lo considerò. Morire, finire. Lo conosceva, lo aveva veduto ancora questo pensiero guardando nell'acqua così, molto tempo addietro, prima di cominciare le evocazioni col professore. Poi era scomparso. Adesso ritornava. Era un pensiero dolce e pietoso, pieno di riposo e di abbandono, pieno di pace. Faceva bene di starlo a guardare poiché anche la fede negli spiriti era perduta. Morire, finire. L'altra volta molto aveva potuto contro il fascino dell'acqua la immagine del vecchio zio. Ora poteva meno. Lo zio era caduto, dalla morte di Maria in poi, in un mutismo quasi completo che Luisa attribuiva a un principio di apatia senile. Ella non aveva capito come nell'anima del vecchio vi fossero insieme al dolore disapprovazioni profonde; quanto lo urtassero le quotidiane ripetute visite al cimitero e i fiori e le gite misteriose a Casarico e, sopra tutto, l'abbandono completo della chiesa. Se non fosse stata così presa dalla sua morta, avrebbe potuto intender meglio lo zio almeno in quest'ultimo punto della chiesa, perché adesso il vecchio silenzioso ci andava lui, in chiesa, più di prima, tornava col cuore alla religione di suo padre e di sua madre praticata sinora freddamente, per abitudine, per ossequio alle tradizioni di casa. Pareva a Luisa ch'egli fosse diventato alquanto ottuso e che se ai bisogni suoi fosse provveduto non gli occorrerebbe altro. Per le cure materiali v'era la Cia e le risorse che bastavano per tre meglio avrebbero bastato per due. Luisa credette veder l'acqua salire un palmo. E Franco? Franco si desolerebbe, piangerebbe per qualche anno e poi sarebbe più felice. Franco aveva il segreto di consolarsi presto. L'acqua parve salire un altro palmo. Nello stesso momento in cui ella s'era affacciata al parapetto, Franco, passando in via di Po davanti a San Francesco di Paola, aveva veduto lumi e udito l'organo. Era entrato. Appena detta una preghiera, il pensiero dominante lo aveva ripreso, il suono dell'organo gli si era trasformato in un fragore di trombe, di tamburi e d'armi e, mentre un canto di pace si levava sull'altare, a lui era parso caricar con furore il nemico. A un tratto si vide in mente l'immagine di Luisa vestita a lutto, pallida. Si mise a pensare a lei, a pregare per lei con fervore intenso.

Allora là sul sagrato di Oria ella sentì un freddo, un'uggia, un mancar della tentazione. Volle richiamarla e non poté. L'acqua ridiscendeva. Una voce intima le disse: e se il professore si è ingannato? Se non è vero che il tavolino abbia risposto prima di si e poi di no? Se non è vero di questi spiriti menzogneri? Si tolse dal parapetto e sali, a passi lenti, in casa.

Trovò lo zio in cucina, seduto sotto la cappa del camino, con le molle in mano e col bicchiere di latte accanto. La Cia e la Leu cucinavano. «Dunque», disse lo zio, «sono andato alla Ricevitoria. Il Ricevitore è a letto con l'itterizia, ma ho parlato col Sedentario.» «Di che cosa, zio?» «Di Lugano, della tua andata a Lugano il 25. Mi ha detto che chiuderà un occhio e che passerai.» Luisa tacque, stette a guardar il fuoco meditabonda. Poi diede certi ordini alla Leu per l'indomani e pregò lo zio di venire in salotto con lei. «Cosa serve?», diss'egli con la solita semplicità. «Non avrai gran segreti. Stiamo qui che c'è il fuoco.» La Cia accese il lume. «Usciremo noi», diss'ella. Lo zio fece la sua solita smorfia di compassione per le altrui sciocchezze ma tacque, bevve il suo bicchier di latte e lo porse silenziosamente a Luisa. Luisa prese il bicchiere e disse piano: «Non ho ancora deciso». «Cosa?», fece lo zio bruscamente. «Cosa non hai deciso?» «Se andrò all'Isola Bella.» «Euh! Che diavolo?» Lo zio Piero non la poteva neanche intendere una cosa simile. «E perché non andresti?» Ella rispose con tranquillità, come se dicesse una cosa ovvia: «Ho paura di non poter lasciare Maria». «Ah senti!», fece lo zio. «Siediti là.» Le additò il sedile in faccia, sotto la cappa del camino, lasciò le molle e disse con quella sua voce grave, onesta voce del cuore: «Cara Luisa, hai perso la bussola». E alzate le braccia con un «euh!» profondo, le lasciò ricadere sulle ginocchia. «Persa!», diss'egli. Stette un poco in silenzio, a capo chino, porgendo le labbra con un brontolio di parole in formazione, che poi uscirono.

«Cose che non avrei mai creduto! Cose che paiono impossibili. Ma quando» (così dicendo rialzò il capo e guardò Luisa in faccia) «si comincia a perderla, la bussola, l'è fatta. E tu, cara, hai cominciato a perderla da un pezzo.» Luisa trasalì.

«Eh sì!», esclamò lo zio a gola piena. «Hai cominciato a perderla da un pezzo. Ed è questo che volevo dirti. Senti: mia madre ha perso dei figli, tua madre ha perso dei figli, ho visto tante madri perdere dei figli e nessuna faceva come te. Ci vuol altro, siamo tutti mortali e dobbiamo accettare la nostra condizione. Si rassegnavano. Ma tu, no. E questo cimitero! E queste due, tre, quattro visite al giorno! E questi fiori, e cosa so io, oh povero me! E anche queste scempiaggini che fai a Casarico con quell'altro povero imbecille, che voi credete farle in segreto e tutti ne parlano, persino la Cia! Oh povero me!»

«No, zio», disse Luisa tristemente ma tranquillamente. «Non dir queste cose. Non puoi capire.» «Siamo intesi», rispose lo zio con tutta l'ironia di cui era capace. «Non posso capire. Ma poi ce n'è un'altra. Tu non vai più in chiesa. Io non ti ho mai detto niente perché in queste cose il mio principio è stato sempre di lasciar fare a ciascuno quel che crede; ma quando ti vedo perdere, dirò così, il buon senso e anche il senso comune, non posso a meno di farti riflettere che se si voltano le spalle a Domeneddio, si fanno di questi guadagni. Adesso poi questa idea di non voler andare a vedere tuo marito, in circostanze simili, passa tutti i limiti.» «Vuol dire», riprese dopo una breve pausa, «che ci andrò io.» «Tu?», esclamò Luisa. «Perché no? Io, sì. Contavo di accompagnarti ma, se non vieni, andrò solo. Andrò a dire a tuo marito che hai perduto la testa e che spero di andar presto anch'io a trovar la povera Maria.» Mai nessuno aveva udito dal labbro dello zio Piero una parola tanto amara. Fosse questo, fosse l'autorità dell'uomo, fosse il nome di Maria pronunciato così, Luisa fu vinta. «Andrò», diss'ella. «Ma tu devi restar qui.» «Niente affatto», rispose lo zio contento. «Sono quarant'anni che non vedo le Isole. Approfitto dell'occasione. E chi sa che non mi arruoli in cavalleria, io?» «E così», disse la Cia a Luisa dopo che lo zio era andato a letto. «Vuol proprio partire anche il mio padrone? Cara lei, per amor del Cielo, non glielo permetta!» E le raccontò che due ore prima egli aveva stralunato gli occhi e piegata la testa sul petto; che chiamato da lei non aveva risposto; che poi si era riavuto e che alle premurose domande di lei era andato in collera protestando di non aver avuto male, di aver sentito solo un po' di sonno. Luisa l'ascoltava in piedi, col lume in mano, con gli occhi vitrei, divisa fra l'attenzione alle parole che udiva e qualche altro pensiero assai diverso, assai lontano, dallo zio, dalla casa, dalla Valsolda.

PARTE TERZA - 1. Il savio parla PART THREE - 1. The wise man speaks

Non una ma tre primavere erano passate dopo quell'autunno del 1855 senza la fioritura d'armi e di stendardi che gl'italiani aspettavano sulle rive del Ticino. Nel febbraio del 1859 si era sicuri che non sarebbe passata così la quarta. Grandi avvenimenti, annunciati debitamente da una splendida cometa, erano in cammino. Correvano nelle viscere del mondo antico fremiti e scricchiolii sordi, come nelle viscere d'un fiume gelato alla vigilia dello sgelo. Il freddo mortale, il silenzio pauroso di dieci anni erano per passare portati via in un fragor d'urti e di rovine da correnti nuove, calde, brillanti. Il Carlascia faceva lo spaccone e parlava alle sue guardie, che tacevano, di una prossima passeggiata militare a Torino. Il signor Giacomo Puttini non s'era più riavuto bene dal colpo di quella mattina, dal tradimento dell'avvocato, dalla fine tragica del cappellone e dalla fine comica del «marsinon», aveva perduto ogni stima per i patrioti. Appunto nel febbraio del '59 il Paolin, tedescone, gli parlava alla farmacia di S. Mamette delle pazze speranze dei liberali. «No, signor Paolo riveritissimo», gli disse l'ometto. «Mi son nato soto San Marco, gran santo; go visto i franzesi, bona zente; adesso vedo i tedeschi, lassemo star, podaria vederghene anca dei altri ma i birbanti, La me creda, i birbanti no pol trionfar.» Il dottor Aliprandi era già in Piemonte. Un vecchio sott'ufficiale di Napoleone che abitava a Puria si rimetteva segretamente in ordine l'uniforme con l'idea di presentarsi all'imperatore dei francesi quando venisse in Italia. Il curato di Castello, Introini, quando incontrava don Giuseppe Costabarbieri, gli ricordava la canzone del 1796 che don Giuseppe aveva tirata fuori nel 1848 e poi nascosta da capo:

Stare nostre crante ulane Qua fenute d'Ungheria, Ma franzose crante...! Fato tuti scappar fia!

E don Giuseppe, tutto spaventato: «Citto, citto, citto!» Intanto sui pendii di Valsolda fiorivano pacificamente le viole come se nulla fosse. La sera del venti febbraio Luisa ne portò un mazzolino in Camposanto. Ella vestiva ancora a lutto, era terrea, macilenta, aveva gli occhi più grandi e molti fili d'argento in testa. Pareva che dal giorno della sua sventura fossero passati vent'anni. Uscita dal Camposanto si avviò verso Albogasio e si accompagnò ad alcune donne di Oria che andavano a dire il rosario alla parrocchia. Non pareva più lo spettro cupo che aveva posato le viole sopra la fossa di Maria. Parlò serena, ilare quasi, con l'una e con l'altra, domandò di una bestia malata, accarezzò e lodò una bambina che andava al rosario con la nonna, le raccomandò di stare tranquilla in chiesa come sempre vi stava la sua Maria. Disse questo e nominò Maria quietamente, mentre quelle donne rabbrividivano e anche stupivano perché adesso Luisa non andava in chiesa mai. Domandò a una ragazza se i giovanotti pensassero, come al solito, di recitare, se recitasse anche suo fratello; udito che sì, offerse aiuto per i costumi. Si accomiatò sul sagrato dell'Annunciata e nello scender soletta la Calcinera riprese il viso di spettro. Andava a Casarico, dai Gilardoni, sposi da tre anni. La felicità del professore, la sua adorazione per Ester vorrebbero un poema. Lo zio Piero diceva di lui ch'era diventato ebete. Ester temeva che diventasse ridicolo e non gli permetteva, quando c'era gente, di prender davanti a lei certe pose estatiche. La sola persona per la quale non valesse questa proibizione era Luisa. Ma di Luisa il Gilardoni aveva un certo riguardo; ella era sempre per lui un essere sovrumano; al rispetto per la persona s'era aggiunto il rispetto per il dolore e in presenza di lei egli teneva sempre un contegno riguardoso. Da due anni, circa, Luisa andava a casa Gilardoni quasi ogni sera e, se qualche cosa poteva turbare la pace degli sposi, erano queste visite. Esse avevano infatti un motivo strano e antipatico a Ester; ma Ester aveva un tale affetto per l'amica sua, una tale pietà della sua sventura e si sentiva fitto nel cuore un tal rammarico di non aver fatto più attenzione a Maria nel giorno terribile, che non osava opporsi risolutamente ai desideri di lei né distogliere suo marito dall'accondiscendervi. Espresse a Luisa la sua disapprovazione, la pregò di volere almeno tener segreto ciò che faceva di sera nello studio del professore; non andò più oltre. Il professore, invece, sarebbe stato felice di questi convegni ma soffriva del dispiacere di Ester. Era già notte quando Luisa suonò alla porticina di casa Gilardoni. Fu Ester che le aperse. Luisa non rispose al suo saluto che le parve imbarazzato, la guardò soltanto e quando fu nel salottino terreno dove Ester soleva passar le sue serate, l'abbracciò tanto appassionatamente che l'altra si mise a piangere. «Abbi pazienza», le disse Luisa. «Non mi resta che questo». Ester si provò a confortarla, a dirle che si avvicinava per lei un tempo migliore, la riunione con suo marito. Fra pochi mesi la Lombardia sarebbe libera, Franco ritornerebbe a casa. E allora... allora... Potrebbero succedere tante cose... Potrebbe ritornare anche Maria! Luisa diede un balzo, le afferrò le mani. «No!», diss'ella. «Non dire questa cosa! Mai! mai! Son tutta sua! Son tutta di Maria!» Ester non poté replicare perché, frettoloso e sorridente, entrò il professore. Egli vide che sua moglie aveva gli occhi bagnati di lagrime e che Luisa pareva sovreccitata. Salutò mogio mogio e sedette in silenzio accanto a Ester, immaginando che avessero parlato del solito argomento spiacevole a sua moglie. Questa avrebbe voluto mandarlo via, riprendere il discorso con Luisa, ma non osò farlo. Luisa fremeva contro quella immagine di futuro pericolo che di quando in quando le si era affacciata confusamente all'anima, che aveva sempre cacciata con orrore prima di considerarla, e che ora, per le parole dell'amica sua, le risorgeva davanti scoperta e netta. Dopo un lungo, penoso silenzio, Ester sospirò e le disse sottovoce: «Va' pure, sai. Andate pure». Luisa ebbe un impeto di gratitudine, s'inginocchiò davanti all'amica sua, le posò il capo in grembo. «Sai», diss'ella, «io non credo più in Dio. Prima credevo che ci fosse un Dio cattivo, adesso non credo più che esista; ma se vi fosse il Dio buono nel quale credi tu, non potrebbe condannare una madre che ha perduto la sua unica figliuola e cerca persuadersi che una parte di lei vive ancora!» Ester non rispose. Quasi ogni sera, da due anni, suo marito e Luisa evocavano la bambina morta. Il professore Gilardoni, strano miscuglio di libero pensatore e di mistico, aveva letto con moltissimo interesse le cose meravigliose che si raccontavano delle sorelle americane Fox, degli esperimenti di Eliphas Levi, aveva seguito il movimento spiritista propagatosi rapidamente in Europa come una mania che prendeva le teste e le tavole. Ne aveva parlato a Luisa, e Luisa, invasa, acciecata dall'idea di poter sapere se la sua bambina esistesse ancora e, posto che esistesse, di aver qualche comunicazione con lei, non vedendo altro in tutto il meraviglioso dei fatti e lo strano delle teorie che questo punto lucente, lo aveva supplicato di tentar qualche esperimento con Ester e con lei. Ester non credeva in fatto di soprannaturale che alla dottrina cristiana. Non pigliò quindi la cosa sul serio e acconsentì subito a posar le mani sopra un tavolino insieme all'amica e al marito, il quale, dal canto suo, mostrava un gran zelo, una gran fede di riuscire. I primi esperimenti non riuscirono. Ester, molto annoiata, avrebbe voluto che si rinunciasse a continuare; ma una sera il tavolino, dopo venti minuti di aspettazione, si chinò lentamente da un lato alzando un piede in aria, si riabbassò, tornò ad alzarsi, con grande sgomento di Ester, con grande gioia del professore e di Luisa. La sera dopo bastarono cinque minuti a farlo muovere. Il professore gl'insegnò l'alfabeto e tentò un'evocazione. Il tavolino rispose battendo il piede a terra secondo l'alfabeto suggeritogli. Lo spirito evocato diede il suo nome: Van Helmont. Ester tremava di paura come una foglia, il professore tremava di commozione, voleva far sapere a Van Helmont che aveva in biblioteca le sue opere, ma Luisa lo scongiurò di chiedergli dove fosse Maria. Van Helmont rispose: «Vicina». Allora Ester, pallida come un cadavere, si alzò protestando che non voleva continuare. Né le suppliche né le lagrime di Luisa valsero a persuaderla. Era peccato, era peccato! Ester non aveva un sentimento religioso profondo, ma paura del diavolo e dell'inferno sì, molto. Per parecchio tempo non fu possibile ricominciare le sedute. Ella ne aveva orrore e suo marito non osava contraddirla. Fu Luisa che a forza di scongiuri ottenne una transazione. Le sedute ricominciarono ma Ester non vi prese parte più.

Non volle neanche sapere cosa vi accadesse. Solamente, quando vedeva sua marito preoccupato, distratto, gli gittava un'allusione crucciosa alle pratiche segrete dello studio. Allora egli si affliggeva, offriva di desistere, ed era Ester che si sentiva debole di fronte a Luisa. Poiché, indirettamente, aveva capito che Luisa credeva di comunicare con lo spirito della bambina. Ella le aveva detto una volta: «Domani sera non vengo perché Maria non vuole». E un'altra volta: «Vado a Looch perché Maria vuole un fiore dalla Nonna». A Ester pareva incredibile che una testa lucida e forte come quella si smarrisse così. Comprendeva in pari tempo la difficoltà immensa di persuaderla con le buone e la crudeltà di opporsele con le cattive.

Il professore accese una candela e salì, seguito da Luisa, nello studio. Noi conosciamo lo studiolo simile a una cabina di bastimento, con gli scaffali pieni di libri, il caminetto, la finestra che guarda il lago, la poltrona dove Maria s'era addormentata la notte di Natale. Adesso v'era di più, fra il caminetto e la finestra, un piccolo tavolino rotondo con un sol piede tripartito a un palmo da terra. «Mi rincresce molto», disse il Gilardoni, entrando, «di far tanto dispiacere a Ester.» Posò il lume sulla scrivania e invece di disporre, secondo il solito, il tavolino e le sedie, andò a guardar dalla finestra il chiaror vago dell'acqua e dei cielo nelle ombre della notte. Luisa rimase immobile e subito egli si voltò bruscamente come avesse sentito per virtù magnetica l'angoscia di lei. Gliela vide spaventosa in faccia, intese ch'ella lo credeva risoluto di troncare mentre ne aveva solamente avuta la tentazione e le prese, commosso, le mani, le disse che Ester era tanto buona, che l'amava tanto, che né lui né lei avrebbero mai voluto recarle volontariamente un'afflizione. Luisa non rispose ma il professore durò fatica a impedire che gli baciasse la mano. Mentre egli collocava in mezzo alla stanza il tavolino e le due sedie, ella sedette sulla poltrona, come oppressa. «Ecco», fece il professore. Luisa si levò di tasca e gli tese una lettera.

«Ho tanto bisogno di Maria e di Lei, stasera!», diss'ella «Legga, è di Franco. Può cominciare dalla quarta pagina.» Il professore non intese queste ultime parole, si accostò al lume e lesse ad alta voce:

Torino, 18 febbraio 1859.

Luisa mia, Sai che non mi hai scritto da quindici giorni?

«Questo lo può saltare», interruppe Luisa, ma poi si corresse. «No, legga pure, è meglio.» Il professore continuò:

Ecco la terza lettera che io ti mando dopo ricevuta la tua del 6. Sono stato forse, nella prima, troppo vivace e ti ho ferita. Benedetto temperamento il mio, che non solo mi fa dire parole troppo vivaci quando il sangue mi si riscalda, ma me le fa anche scrivere! E benedetto sangue che a trentadue anni suonati si riscalda come a ventidue! Perdonami, Luisa, e permettimi di ritornare sull'argomento onde riprendermi quelle parole che hanno potuto offenderti. Adesso non si discorre più né di tavolini né di spiriti, non si discorre che di diplomazie e di guerra; ma gli anni scorsi se ne parlò moltissimo e parecchie persone che io stimo e onoro ci credevano. Di alcune so positivamente che erano illuse ma non ho mai dubitato, quando mi riferivano conversazioni avute con gli spiriti, della loro buona fede. Pare che l'immaginazione, eccitata, possa far udire e vedere come reale ciò che non è. Ma io voglio credere che nel tuo caso non v'inganni l'immaginazione, che il vostro tavolino si muova e si esprima davvero come dici. Ho avuto torto di metter questo in dubbio, lo confesso, poiché tu sei talmente sicura di non ingannarti e poiché conosco abbastanza l'onestà del professor Gilardoni. Ma vi è poi per me una questione di sentimento. Io so che la mia dolce Maria vive con Dio, io ho la speranza di andare un giorno, con altre anime a me care, dov'ella è. Se mi comparisse spontaneamente, se udissi, senz'averla chiamata, il suono della sua voce viva e vera, forse non potrei sopportare una gioia così grande; chiamarla, costringerla di venire non vorrei mai. Mi ripugna, è contrario a quel senso di venerazione che ho per un Essere tanto più vicino a Dio di me. Anch'io, Luisa, parlo al nostro tesoro ogni giorno, le parlo di me e anche di te, sapendo che ci vede, che ci ama, che potrà molto ancora, in questa vita stessa, sopra di noi. Tali vorrei pure i colloqui tuoi con essa; e se rispondendo alla lettera in cui alludevi a una comunicazione di lei mi sono espresso con acerbità, perdonami in grazia non solamente del mio cattivo carattere ma delle idee altresì e dei sentimenti che sono come parte della mia natura. Perdonami pure in grazia della sovreccitazione immensa in cui si vive qui. La mia gola sta bene; da quando si parla di guerra ho gittato canfora e acqua sedativa, ma i nervi sono tesi straordinariamente, mi par che a toccarli dieno scintille. Questo viene anche dall'intenso lavoro che abbiamo al Ministero, dove non c'è più orario e chi più gode fiducia, sia pure un segretariucolo, più deve sgobbare. Quando ebbi questo posto dalla bontà del conte di Cavour, mi pareva di mangiare il pane dello Stato a tradimento. Adesso non è così ma sto per togliermi a questo gran lavoro e ciò mi conduce a un altro discorso che ho nel cuore da un pezzo e che adesso ti faccio con una commozione indicibile.

Fra otto giorni i miei amici ed io ci arruoliamo nell'esercito come volontari per la durata della campagna. Si entra nel 9° fanteria che ha il deposito a Torino. Qui al Ministero si vorrebbe trattenermi ancora ma io intendo di trovarmi istruito al reggimento quando entrerà in campagna e ho solamente preso l'impegno di non lasciar l'ufficio che un giorno prima di arruolarmi. Luisa, sono tre anni e quasi cinque mesi che non ci vediamo. Vero che tu sei sorvegliata dalla Polizia e che ti è proibito di venire a Lugano; però io ti ho proposto più volte più modi di venirmi a incontrare segretamente almeno al confine, sulla montagna, e tu non mi hai risposto. Ho creduto indovinare che tu non ti sapessi allontanare neppure per poco tempo da un luogo sacro. Mi pareva troppo e ti confesso che ne provai un'amarezza molto profonda! Poi mi pentivo, mi pareva d'essere egoista, ti assolvevo. Adesso, Luisa, le circostanze sono mutate. Non ho cattivi presentimenti, mi par impossibile di aver a restare sopra un campo di battaglia, ma impossibile non è. Prenderò parte ad una guerra che si annuncia tra le più grosse, tra le più lunghe e disperate, perché se l'Austria ha in giuoco le sue provincie italiane, noi, e forse anche l'imperatore Napoleone, abbiamo in giuoco tutto. Si dice che passeremo l'inverno venturo sotto Verona. Luisa, io non voglio correre il pericolo di morire senz'averti riveduta. Ho ventiquattr'ore sole, non posso venire al confine né a Lugano, né mi può bastare di star con te dieci minuti! Fatti portare a Lugano, in qualche modo, da Ismaele la mattina del 25 corr. Parti da Lugano in tempo di essere a Magadino per il tocco poiché da Luino non puoi passare. A Magadino piglierai il battello che parte di là circa al tocco e mezzo. Scenderai circa alle quattro a Isola Bella dove, presso a poco alla stess'ora, arriverò anch'io da Arona. L'Isola Bella, a questa stagione, è un deserto. Vi passeremo la sera insieme e ripartiremo la mattina, tu per Oria, io per Torino.

Scrivo allo zio Piero per chiedergli perdono se gli tolgo un giorno della tua compagnia. Maggior male non temo. Anche gli austriaci non pensano che alle armi, la loro Polizia si lascia sfuggire migliaia di giovani che vengono a prenderle qui. Sarebbero terribili all'indomani di una vittoria ma quel giorno, per essi, viva Dio! non verrà. Luisa, è possibile ch'io non ti trovi all'Isola Bella, che tu creda far piacere a Maria non venendo? Ma non sai, la mia Maria, la mia povera piccina, se le avessero detto corri a salutar il tuo papà che forse va a morire come...

La voce del lettore oscillò, si ruppe, mancò in un singhiozzo. Luisa si nascose il viso fra le mani. Egli le posò la lettera sulle ginocchia e disse a stento: «Donna Luisa, può avere un dubbio?» «Sono cattiva», rispose Luisa sottovoce, «sono matta.» «Ma non gli vuol bene?»

«Alle volte mi pare tanto e alle volte niente.» «Dio mio!», fece il professore. «Ma adesso? Non La commuove l'idea che potrebbe non vederlo mai più?» Luisa tacque; parve che piangesse. Balzò improvvisamente in piedi stringendosi le tempie fra le mani, piantò in viso al professore due occhi dove non erano lagrime ma invece una luce sinistra di corruccio. «Ella non sa», esclamò, «cosa c'è nella mia testa, che cumulo di contraddizioni, quante idee opposte che si combattono e prendono continuamente il luogo l'una dell'altra! Quando ho ricevuto la lettera ho pianto tanto, mi son detta: "sì, povero Franco, stavolta vado", e poi ecco una voce che mi dice qui nella fronte: "no, non devi andare perché... perché... perché...".» Luisa s'interruppe e il professore, spaventato da bagliori di pazzia negli occhi che lo fissavano, non osò chiedere spiegazioni. Gli occhi strani sempre fissi nè suoi vennero raddolcendosi, velandosi. Luisa gli prese le mani, gli disse piano, timidamente: «Domandiamo a Maria». Sedettero al tavolino, vi posarono le mani su. Il professore voltava le spalle al lume che batteva sul viso di Luisa. Il tavolino era nell'ombra. Dopo undici minuti di silenzio profondo il professore mormorò: «Si muove». Infatti il tavolino si andava lentamente inclinando da un lato. Ricadde e batté un piccolo colpo. Il viso di Luisa s'illuminò. «Chi sei?», disse il professore. «Rispondi col solito alfabeto.» Il tavolino batté diciassette colpi, poi quattordici, poi diciotto, poi uno. «Rosa», disse il professore, piano. Rosa era il nome di una sorellina di sua moglie, morta nell'infanzia, e il tavolino aveva battuto parecchie altre volte questo nome. «Va'», ripeté il Gilardoni, «mandaci Maria.» Il tavolino si rimise tosto in movimento e batté queste parole: «Son qui. Maria.» «Maria, Maria, Maria mia!», sussurrò Luisa con un'espressione, in viso, di beatitudine. «Conosci», disse il Gilardoni, «la lettera che tuo padre ha scritto a tua madre?» Il tavolino rispose: «Sì». «Cosa deve fare tua madre?» Luisa tremava da capo a piedi, aspettando. Il tavolino rimase immobile. «Rispondi», fece il professore. Il tavolino si mosse e batté un miscuglio incomprensibile di lettere. «Non abbiamo capito. Ripeti.» Il tavolino non si mosse più. «Ripeti dunque!», fece il professore quasi bruscamente. «No!», supplicò Luisa. «Non insista, non insista! Maria non vuol rispondere!» Ma il professore voleva insistere. «Non è possibile», diceva, «che lo spirito non risponda. Lei lo sa, ci è successo altre volte di non intendere quel che dice.» Luisa si alzò agitatissima, dicendo che piuttosto di costringere Maria era contenta d'interrompere la seduta. Il professore rimase meditabondo al proprio posto. «Zitto!», diss'egli. Il tavolino si moveva, ricominciò a batter colpi. «Sì», esclamò il Gilardoni, raggiante. «Ho domandato col pensiero s'Ella deve andare e il tavolino ha risposto "sì". Ridomandi lei ad alta voce.» Cinque o sei minuti passarono prima che il tavolino si rimettesse in moto. Alla domanda di Luisa «debbo andare?» batté prima tredici colpi poi quattordici. La risposta era «no». Il professore impallidì e Luisa lo interrogò con lo sguardo. Egli rimase lungamente muto, poi rispose sospirando: «Potrebbe non essere Maria. Potrebb'essere uno spirito di menzogna». «E come si può sapere?», fece Luisa ansiosamente. «Impossibile. Non si può sapere.» «Ma e le altre comunicazioni, dunque? Non vi è certezza mai?» «Mai.» Ella tacque, atterrita. Poi sussurrò: «Doveva essere così. Doveva mancarmi anche questo». E posò la fronte sul tavolino. Il lume della candela batteva sui capelli, sulle braccia, sulle mani di lei. Ella non si moveva, nulla si moveva nella camera, tranne la fiammella oscillante della candela. Un'altra fiammella, un ultimo lume di speranza e di conforto stava morendo nella povera testa caduta sotto il colpo d'un dubbio amaro e invincibile. Che poteva fare, che poteva dire il Gilardoni? Egli vedeva prossimo a compiersi, non per opera sua, il desiderio di Ester. Tre o quattro minuti dopo si udirono passi al piano inferiore e la voce di Ester. Luisa, lentamente, si alzò. «Andiamo», diss'ella. «Bisognerebbe forse pregare», osservò il Gilardoni, senza muoversi. «Bisognerebbe forse domandare agli spiriti se confessano Cristo.» «No no no no no», fece sottovoce Luisa, negando, anche con la mano, ostilmente. Il professore prese la candela in silenzio. Ritornando a Oria Luisa salì al cancello del Camposanto. Vi appoggiò la fronte, gittò verso la fossa di Maria un soffocato addio e ridiscese. Giunta sul sagrato andò ad affacciarsi al parapetto, guardò giù il lago addormentato nell'ombra. Stette lì alquanto lasciando andar il pensiero per la sua china. Posò i gomiti sul parapetto, si piegò, si appoggiò il viso alle mani sempre guardando l'acqua, l'acqua che aveva preso Maria. Il suo pensiero veniva pigliando una forma precisa non dentro a lei ma laggiù nell'acqua. Essa lo considerò. Morire, finire. Lo conosceva, lo aveva veduto ancora questo pensiero guardando nell'acqua così, molto tempo addietro, prima di cominciare le evocazioni col professore. Poi era scomparso. Adesso ritornava. Era un pensiero dolce e pietoso, pieno di riposo e di abbandono, pieno di pace. Faceva bene di starlo a guardare poiché anche la fede negli spiriti era perduta. Morire, finire. L'altra volta molto aveva potuto contro il fascino dell'acqua la immagine del vecchio zio. Ora poteva meno. Lo zio era caduto, dalla morte di Maria in poi, in un mutismo quasi completo che Luisa attribuiva a un principio di apatia senile. Ella non aveva capito come nell'anima del vecchio vi fossero insieme al dolore disapprovazioni profonde; quanto lo urtassero le quotidiane ripetute visite al cimitero e i fiori e le gite misteriose a Casarico e, sopra tutto, l'abbandono completo della chiesa. Se non fosse stata così presa dalla sua morta, avrebbe potuto intender meglio lo zio almeno in quest'ultimo punto della chiesa, perché adesso il vecchio silenzioso ci andava lui, in chiesa, più di prima, tornava col cuore alla religione di suo padre e di sua madre praticata sinora freddamente, per abitudine, per ossequio alle tradizioni di casa. Pareva a Luisa ch'egli fosse diventato alquanto ottuso e che se ai bisogni suoi fosse provveduto non gli occorrerebbe altro. Per le cure materiali v'era la Cia e le risorse che bastavano per tre meglio avrebbero bastato per due. Luisa credette veder l'acqua salire un palmo. E Franco? Franco si desolerebbe, piangerebbe per qualche anno e poi sarebbe più felice. Franco aveva il segreto di consolarsi presto. L'acqua parve salire un altro palmo. Nello stesso momento in cui ella s'era affacciata al parapetto, Franco, passando in via di Po davanti a San Francesco di Paola, aveva veduto lumi e udito l'organo. Era entrato. Appena detta una preghiera, il pensiero dominante lo aveva ripreso, il suono dell'organo gli si era trasformato in un fragore di trombe, di tamburi e d'armi e, mentre un canto di pace si levava sull'altare, a lui era parso caricar con furore il nemico. A un tratto si vide in mente l'immagine di Luisa vestita a lutto, pallida. Si mise a pensare a lei, a pregare per lei con fervore intenso.

Allora là sul sagrato di Oria ella sentì un freddo, un'uggia, un mancar della tentazione. Volle richiamarla e non poté. L'acqua ridiscendeva. Una voce intima le disse: e se il professore si è ingannato? Se non è vero che il tavolino abbia risposto prima di si e poi di no? Se non è vero di questi spiriti menzogneri? Si tolse dal parapetto e sali, a passi lenti, in casa.

Trovò lo zio in cucina, seduto sotto la cappa del camino, con le molle in mano e col bicchiere di latte accanto. La Cia e la Leu cucinavano. «Dunque», disse lo zio, «sono andato alla Ricevitoria. Il Ricevitore è a letto con l'itterizia, ma ho parlato col Sedentario.» «Di che cosa, zio?» «Di Lugano, della tua andata a Lugano il 25. Mi ha detto che chiuderà un occhio e che passerai.» Luisa tacque, stette a guardar il fuoco meditabonda. Poi diede certi ordini alla Leu per l'indomani e pregò lo zio di venire in salotto con lei. «Cosa serve?», diss'egli con la solita semplicità. «Non avrai gran segreti. Stiamo qui che c'è il fuoco.» La Cia accese il lume. «Usciremo noi», diss'ella. Lo zio fece la sua solita smorfia di compassione per le altrui sciocchezze ma tacque, bevve il suo bicchier di latte e lo porse silenziosamente a Luisa. Luisa prese il bicchiere e disse piano: «Non ho ancora deciso». «Cosa?», fece lo zio bruscamente. «Cosa non hai deciso?» «Se andrò all'Isola Bella.» «Euh! Che diavolo?» Lo zio Piero non la poteva neanche intendere una cosa simile. «E perché non andresti?» Ella rispose con tranquillità, come se dicesse una cosa ovvia: «Ho paura di non poter lasciare Maria». «Ah senti!», fece lo zio. «Siediti là.» Le additò il sedile in faccia, sotto la cappa del camino, lasciò le molle e disse con quella sua voce grave, onesta voce del cuore: «Cara Luisa, hai perso la bussola». E alzate le braccia con un «euh!» profondo, le lasciò ricadere sulle ginocchia. «Persa!», diss'egli. Stette un poco in silenzio, a capo chino, porgendo le labbra con un brontolio di parole in formazione, che poi uscirono.

«Cose che non avrei mai creduto! Cose che paiono impossibili. Ma quando» (così dicendo rialzò il capo e guardò Luisa in faccia) «si comincia a perderla, la bussola, l'è fatta. E tu, cara, hai cominciato a perderla da un pezzo.» Luisa trasalì.

«Eh sì!», esclamò lo zio a gola piena. «Hai cominciato a perderla da un pezzo. Ed è questo che volevo dirti. Senti: mia madre ha perso dei figli, tua madre ha perso dei figli, ho visto tante madri perdere dei figli e nessuna faceva come te. Ci vuol altro, siamo tutti mortali e dobbiamo accettare la nostra condizione. Si rassegnavano. Ma tu, no. E questo cimitero! E queste due, tre, quattro visite al giorno! E questi fiori, e cosa so io, oh povero me! E anche queste scempiaggini che fai a Casarico con quell'altro povero imbecille, che voi credete farle in segreto e tutti ne parlano, persino la Cia! Oh povero me!»

«No, zio», disse Luisa tristemente ma tranquillamente. «Non dir queste cose. Non puoi capire.» «Siamo intesi», rispose lo zio con tutta l'ironia di cui era capace. «Non posso capire. Ma poi ce n'è un'altra. Tu non vai più in chiesa. Io non ti ho mai detto niente perché in queste cose il mio principio è stato sempre di lasciar fare a ciascuno quel che crede; ma quando ti vedo perdere, dirò così, il buon senso e anche il senso comune, non posso a meno di farti riflettere che se si voltano le spalle a Domeneddio, si fanno di questi guadagni. Adesso poi questa idea di non voler andare a vedere tuo marito, in circostanze simili, passa tutti i limiti.» «Vuol dire», riprese dopo una breve pausa, «che ci andrò io.» «Tu?», esclamò Luisa. «Perché no? Io, sì. Contavo di accompagnarti ma, se non vieni, andrò solo. Andrò a dire a tuo marito che hai perduto la testa e che spero di andar presto anch'io a trovar la povera Maria.» Mai nessuno aveva udito dal labbro dello zio Piero una parola tanto amara. Fosse questo, fosse l'autorità dell'uomo, fosse il nome di Maria pronunciato così, Luisa fu vinta. «Andrò», diss'ella. «Ma tu devi restar qui.» «Niente affatto», rispose lo zio contento. «Sono quarant'anni che non vedo le Isole. Approfitto dell'occasione. E chi sa che non mi arruoli in cavalleria, io?» «E così», disse la Cia a Luisa dopo che lo zio era andato a letto. «Vuol proprio partire anche il mio padrone? Cara lei, per amor del Cielo, non glielo permetta!» E le raccontò che due ore prima egli aveva stralunato gli occhi e piegata la testa sul petto; che chiamato da lei non aveva risposto; che poi si era riavuto e che alle premurose domande di lei era andato in collera protestando di non aver avuto male, di aver sentito solo un po' di sonno. Luisa l'ascoltava in piedi, col lume in mano, con gli occhi vitrei, divisa fra l'attenzione alle parole che udiva e qualche altro pensiero assai diverso, assai lontano, dallo zio, dalla casa, dalla Valsolda.