PARTE TERZA - 2. Solenne rullo (parte 1)
Il venticinque febbraio, giorno della partenza, lo zio Piero si alzò alle sette e mezzo e andò alla finestra. Un denso nebbione pendeva sul lago biancastro e nascondeva le montagne per modo che se ne vedevano solamente due brevi liste nere, una a destra e l'altra a sinistra, fra il lago e la nebbia. «Ahimè!», sospirò lo zio. Non s'era ancora finito di vestire che Luisa entrò e lo pregò, col pretesto del cattivo tempo, di restare, di lasciarla partir sola. La Cia era in grande angoscia, e avea pregato Luisa di insistere sapendo ch'egli era stato côlto, il giorno venti, da forti vertigini e che il ventidue, senza dir niente a nessuno, era andato a confessarsi. Egli s'irritò, convenne tacere, lasciargli fare la sua volontà. Povero zio, aveva goduto sempre una salute di ferro ed era molto apprensivo, il menomo disturbo lo allarmava; ma ora non gli pareva bene che Luisa partisse sola in quelle condizioni di spirito, e si sacrificava per lei. Si vestì, ritornò alla finestra e chiamò trionfalmente Luisa che stava nel giardinetto.
«Alza la testa!», diss'egli. «Guarda su in Boglia!» In alto, sopra Oria, attraverso la nebbia fumante, si vedeva l'oro pallido del sole sulla montagna e più in alto ancora una trasparenza serena. «Bella giornata!» Luisa non rispose e il vecchio discese allegro in loggia, uscì sulla terrazza a goder la battaglia magnifica della nebbia e del sole. Tutto il lago d'oriente fra la Ca Rotta, l'ultima casa di S. Mamette, a sinistra, e il golfo del Dòi a destra, pareva un mare immenso, bianco. La Ca Rotta traspariva appena, come un fantasma. Al golfo del Dòi cominciava la sottile lista nera scoperta fra il piombo del lago e il nebbione. A poco a poco quel nebbione si faceva turchiniccio, vaghi chiarori rompevano in cielo verso Osteno, in fondo al mare d'oriente tremavano luccicori nuovi, venivan liste, chiazze brune di brezza; un occhio di sole appariva e scompariva sopra Osteno nei vapori turbinanti, ingrandiva rapidamente, splendé vincitore. La nebbia fuggì da ogni parte, a brani e fiocchi. Molti ne passarono davanti a Oria, grandi e veloci, altri si buttarono alla costa, il grosso ripiegò verso l'ultimo levante; colà, dietro e sopra un pesante sipario bianco, le montagne del lago di Como sorsero gloriose nel sereno. Lo zio Piero chiamò Luisa perché vedesse lo spettacolo, l'ultima scena splendida del dramma; il trionfo del sole, la fuga delle nebbie, la gloria delle montagne. Egli ammirava patriarcalmente, senza finezze di senso artistico ma con calor giovanile, con sincera enfasi di voce, da vecchio che ha vissuto castamente, che non ha sciupata la freschezza del cuore, che conserva una certa innocenza d'immaginazione. «Guarda, Luisa», esclamò, «se non bisogna dire: Gloria al Padre, al Figliuolo, allo Spirito Santo!» Luisa non rispose, si allontanò subito per non veder quel recinto bianco, di là dall'orto, che l'attirava con violenza, con una tacita voce di rimprovero e di dolore. Vi era andata alle sei, vi aveva passata un'ora nella nebbia, seduta sull'erba fradicia. Lo zio rimase in contemplazione sulla terrazza fino al momento di partire. S'egli fosse stato un poeta presuntuoso avrebbe supposto che la Valsolda gli desse il buon viaggio con uno spettacolo d'addio, volesse mostrarglisi bella come forse non l'aveva veduta mai; ma queste fantasie poetiche a lui non venivano e poi si trattava di un viaggio così breve! No, gli passò invece nella mente l'immagine di Maria, l'idea di vedersela capitar correndo fra le gambe, di prenderla sulle ginocchia, di recitarle la canzonetta antica: Ombretta sdegnosa Del Missipipì.
«Basta!», sospirò. «È stata una gran cosa!», e, chiamato dalla Cia, si avviò lentamente verso il giardinetto dove l'attendeva Luisa, pronta a scendere in barca. «Oh, son qui», diss'egli, «e voi guardate bene, mentre staremo via, di non lasciar cadere la casa nel lago.» Durante il tragitto sul Lago Maggiore, a bordo del San Bernardino , Luisa stette quasi sempre nella sala di seconda classe. Ne salì una volta onde persuadere lo zio Piero a discendere anche lui; ma lo zio Piero, chiuso nel suo zimarrone grigio, non volle muoversi, malgrado l'aria fredda, dal ponte dove stava pacificamente a guardar montagne e paesi, e far un po' di conversazione con un prete di Locarno, con una vecchierella di Belgirate e con altri viaggiatori di seconda classe. Luisa dovette lasciarvelo e ridiscese, preferendo star sola con i propri pensieri. Più si avvicinava all'Isola Bella più le cresceva dentro un'agitazione sorda, una incerta attesa di tante cose. Come avverrebbe l'incontro con Franco? Quale contegno terrebb'egli con lei? Le farebbe i discorsi che le aveva fatto lo zio? Le lettere erano molto pietose e tenere, ma chi non sa che si scrive in un modo e si parla in un altro? Come, dove, passerebbero la sera? E poi l'altra cosa, la cosa terribile a pensare...? Tutte queste preoccupazioni salivano, salivano, tendevano a diventar dominanti, a porsi in antagonismo con l'immagine del Cimitero di Oria che ogni tratto ritornava impetuosa, come a riprendere il suo. Alla stazione di Cannero, Luisa si udì sul capo un grande strepito di passi, un grande chiasso di voci e di grida, salì a vedere dello zio. Erano militari richiamati alle bandiere, venuti al battello con due grandi barche. Altre barchette portavano donne, bambini, vecchi, che salutavano e piangevano. I soldati, la maggior parte bersaglieri, bei giovinotti allegri, rispondevano ai saluti, gridando: «Viva l'Italia!» promettevano regali da Milano. Una vecchia, che aveva tre figli fra quei soldati, gridava loro, tutta scarmigliata ma non piangente, che si ricordassero del Signore e della Madonna. «Sì», brontolo un vecchio sergente che li accompagnava, «ca s'ricordo del Sgnour, d'la Madonna, del Vescov e del prevost!» I soldati molto pratici del «prevost», la prigione militare, risero della barzelletta e il battello partì. Grida, sventolar di fazzoletti e poi un canto, un canto potente di cinquanta voci gagliarde:
Addio, mia bella, addio, L'armata se ne va. I soldati si erano tutti ammucchiati a prora su cataste di sacchi e barili, quale seduto, quale sdraiato, quale in piedi, e cantavano a squarciagola, con l'accompagnamento cupo delle ruote del vapore che filava diritto giù verso lo sfondo di cielo cui le sottili colline d'Ispra dividono dall'immenso specchio dell'acque, verso il Ticino. Quei giovinotti avevano a passarlo presto, il Ticino, probabilmente al grido di Savoia, fra una furia di cannonate. Molti di loro erano attesi laggiù, sotto quel cielo sereno, dalla morte; ma tutti cantavano allegri e solo il rumor cupo delle ruote del vapore pareva saperne qualche cosa. Le libere montagne piemontesi lungo le quali filava il battello parevano fiere e paghe, benché nell'ombra, di aver dato i propri figli alle schiave montagne lombarde, tragiche nell'aspetto benché illuminate dal sole. Luisa si sentì un lieve formicolio nel sangue, un palpito del suo patriottismo ardente d'una volta. E quelle madri che avevan visto partire i loro figli così? Prevenne il proprio pensiero, si disse subito che anche lei avrebbe donato volentieri un figlio all'Italia, che quelle madri non potrebbero in nessun caso paragonarsi a lei. Ma com'era diverso di leggere in Valsolda una lettera che parlava di guerra e di sentir veramente il soffio e il rumor della guerra intorno a sé, di respirarla nell'aria! Nella quieta della Valsolda era un'ombra senza realtà: qui l'ombra pigliava corpo. Qui il dolore privato di Luisa, il dolore immenso che le riempiva intorno l'aria morta di Oria, s'impiccioliva a fronte della emozione pubblica, ed ella lo sentiva e ciò le recava una molestia, un malessere indefinibile. Era paura di perdere parte del dolore proprio, come dire parte di se stessa? Era desiderio di sottrarsi ad un paragone che le ripugnava di fare? In pari tempo l'idea che Franco andrebbe a questa guerra, l'idea onde poco ella si era commossa in Valsolda, prendeva pure una realtà nuova nella sua mente, le dava delle scosse al cuore, lottava essa pure con l'immagine del Camposanto di Oria. Per la prima volta l'immagine del passato non era più sola, assoluta, onnipotente signora dell'anima sua; ne avesse pure sdegno quest'anima e rincrescimento, nuove immagini, immagini del presente e del futuro, le facevano assalto. Lo zio cominciò ad aver freddo e discese sotto coperta. «Fra poco più d'un'ora», diss'egli, «saremo a Isola Bella.» «Sei stanco?» «Niente affatto. Sto benone.»
«Però andrai a letto presto questa sera?» Lo zio, distratto, non rispose. Invece dopo un poco escì a dire: «Sai cosa pensavo? Pensavo che dovrebbe capitare un'altra Maria». Luisa, che gli era seduta accanto, si alzò di botto, fremente, e andò a guardar fuori dal finestrino in faccia, voltando le spalle allo zio. Questi non capi affatto, credette a un senso d'imbarazzo e si addormentò nel suo angolo. Il battello tocca Intra. Adesso prima dell'Isola non c'è che Pallanza. Il battello rade la costa; Luisa guarda dal finestrino ovale passar le rive, le case, gli alberi. Come si corre, come si corre! Pallanza. Il battello resta fermo cinque minuti. Luisa sale sul ponte, domanda quando si arriverà all'Isola Bella. Il battello non toccherà Suna né Baveno. Sarà un viaggio di pochi minuti. E il battello di Arona, quando arriva? Pare che sia in ritardo. Ella scende e sveglia lo zio che sale sul ponte con lei. L'ultimo tratto del viaggio è fatto in silenzio: lo zio sta a guardar Pallanza che si allontana e Luisa ha fissi gli occhi sull'Isola che s'avanza, non vede altro. Il battello giunse all'approdo dell'Isola Bella alle tre e quaranta minuti. Nessun indizio del battello di Arona. Un inserviente disse a Luisa che quel battello era sempre in ritardo per colpa del treno di Novara che non aveva quasi più regola, causa i movimenti militari. Nessuno discese all'Isola, nessuno era sulla riva tranne l'uomo addetto allo sbarco. Partito il battello, accompagnò egli stesso i due viaggiatori all'albergo del Delfino . Era un caso, diss'egli, che trovassero il Delfino aperto a quella stagione. Ci svernava una grossa famiglia inglese. Pareva l'isola del Silenzio, del resto. Il lago le taceva intorno immobile, la spiaggia era deserta, sui ballatoi delle povere vecchie casucce ammonticchiate sul porto, fra un bastione rotondo del giardino e l'albergo, non si vedeva persona viva. Gl'inglesi erano fuori, in barca; l'albergo taceva come la riva e l'acqua. I nuovi venuti ebbero due camere grandi del secondo piano, a mezzogiorno, di fronte al malinconico stretto fra l'isola e la costa boscosa che va da Stresa a Baveno. La prima camera, sull'angolo di ponente, aveva una finestra verso la chiesetta di S. Vittore, che sorge a fianco dell'albergo, e l'isolotto lontano dei Pescatori. Lo zio Piero si piantò a quella finestra contemplando l'isolotto, il mucchietto di case sporgente dallo specchio del lago e appuntato in un campanile, le grandi montagne di Val di Toce e di Val di Gravellone, mezzo nascoste da una nebbiolina penetrata di sole. Luisa, visto che lì v'eran due letti, passò rapidamente nell'altra camera dov'era un'alcova con due letti pure. «Ecco», disse lo zio Piero entrandovi un momento dopo, «questa va bene per voialtri.» Luisa domandò sottovoce all'albergatore se non si potessero avere tre camere invece di due. No, non si potevano avere. «Ma se così va bene! Ma se così va benone!», ripeteva lo zio. «Voi qui e io là.» Luisa tacque e l'albergatore se n'andò. «Non vedi che hai l'alcova come a casa?» Non gli veniva in mente, all'uomo patriarcale, che per Luisa la sola vista di quell'alcova fosse un tormento. Ella gli rispose che preferiva l'altra camera, più chiara, più allegra. «Amen», disse lo zio, « fate vobis . M'inalcoverò io.» Anche quell'angolo dell'albergo ritornò nel silenzio. Luisa si pose alla finestra. Il battello di Arona doveva esser vicino, l'uomo di prima s'incamminava lentamente verso lo sbarco e poco dopo si udì un rumor lontano di ruote. Lo zio disse a Luisa che si sentiva stanco e rimaneva in camera.
Ella discese verso il ponte dello sbarco e si fermò presso una casupola che toglieva di vedere il battello di cui udiva il fragore. A un tratto la prora del San Gottardo le uscì davanti lentamente e si fermò. Luisa riconobbe suo marito fra un gruppo di persone che gli facevano un grande chiasso intorno. Franco la vide, saltò sul ponte, corse a lei che fece due passi avanti. Si abbracciarono, egli muto, cieco d'emozione, ridente e lagrimoso, pieno di gratitudine e anche trepido, incerto circa l'animo di lei, circa il modo di regolarsi; ella più composta, pallidissima e seria. «Addio», ripeteva, «addio», e s'incamminò verso l'albergo. Venne allora da Franco una furia di domande sul suo viaggio, sul passaggio del confine, prima; poi sullo zio. Quando nominò lo zio, Luisa alzò il viso e disse: «Guarda!». Lo zio era lassù alla finestra e gittò abbasso un addio sonoro agitando il fazzoletto. «Oh!», fece Franco, stupefatto; e prese la corsa.
Lo zio aspettò sul pianerottolo della scala con una espressione di contentezza persino sul ventre pacifico. «Ciao, neh», diss'egli e gli prese le mani, gliele scosse tenendolo a distanza. Non avrebbe voluto baci, come se in quel momento significassero ringraziamenti, ma non poté difendersi dall'impeto di Franco. «Figurati», diss'egli appena svincolatosi dalle braccia del giovane, «se una Maironi può viaggiare senza maggiordomo! Son poi anche venuto ad arruolarmi nei bersaglieri!» E l'uomo stanco discese le scale dicendo che andava a ordinare il pranzo. Non v'era canapè nella stanza degli sposi. Franco trasse Luisa a sedere sul letto, le sedette accanto, le cinse con un braccio le spalle, incapace di un discorso qualsiasi, non sapendo dire che «ti ringrazio, ti ringrazio», non trovando che impetuose carezze, impetuosi baci, nomi di tenerezza. Luisa tremava a capo chino, non gli rispondeva in alcun modo ed egli si frenò, le prese il capo come una cosa santa, le andò sfiorando con le labbra, qua, là, i capelli bianchi che vedeva. Ella capì che cercava i capelli bianchi, intese quei timidi baci, si commosse, le parve sentirsi sgelare il cuore, fu presa da sgomento, volle difendersi più contro se stessa che contro Franco. «Sai», disse, «ho il cuore tanto freddo, non volevo neanche venire, non volevo lasciar Maria né che tu avessi l'amarezza di trovarmi così. È stato causa lo zio che venissi. Voleva venir solo e allora mi sono decisa.» Dette le parole crudeli, sentì levarsi dai suoi capelli le labbra di Franco, levarsi il braccio dalle sue spalle. Tacquero ambedue; poi Franco mormorò con dolcezza:
«Sono tredici ore. Forse dopo non ti darò noia mai più». In quel punto entrò lo zio Piero e annunciò che il pranzo era pronto. Luisa prese la mano di suo marito, gliela strinse in silenzio, non con la stretta d'un'amante, ma pure abbastanza forte per significargli ch'era una commossa risposta. A pranzo né Luisa né Franco mangiarono. Invece lo zio mangiò con appetito e parlò molto. Egli non approvava che Franco prendesse le armi. «Che soldato vuoi riuscire tu?», gli diceva. «Cosa farai senza la canfora, l'acqua sedativa e il cossa soja mi?» Franco dichiarò che aveva buttato via tutti i rimedi, che si sentiva di ferro, che sarebbe stato il più robusto soldato del 9°. «Sarà!», brontolò lo zio. «Sarà! E tu, Luisa, non dici niente?» Luisa rispose ch'era persuasa di quanto aveva detto suo marito. «N'occor alter!», fece lo zio. «Evviva!» Egli aveva poi anche un gran concetto della potenza austriaca e non vedeva roseo come Franco. Secondo Franco, non c'era da dubitare della vittoria. Egli aveva veduto un aiutante di Niel venuto segretamente a Torino, gli aveva udito dire ad alcuni ufficiale piemontesi di Stato Maggiore: « Nous allons supprimer l'Autriche ». Certo, bisognava lasciare almeno cinquantamila cadaveri italiani e francesi tra il Ticino e l'Isonzo.