VI. IL BAGNO SULL'ANIENE (3) (NO AUDIO)
Alcuni se ne andarono diretti a casa per via Boccaleone, altri invece stettero ancora in giro: si fecero piano piano il pezzo dal fiume ai primi lotti di Tiburtino, e si fermarono per una mezzoretta davanti al Silver Cine a guardarsi i cartelloni e a farsi dispetti. Poi andarono giù, ancora, tra i cespugliacci d'oleandri della Tiburtina, fino a che arrivarono alla fermata dell'autobus, ch'era il centro delle pipinare dei ragazzini e delle cricche dei giovincelli, nel piazzale davanti al Monte del Pecoraro.
Lì sotto c'erano delle bambine, in mezzo alla spianata gialla che s'appiattiva tra le quattro o cinque dentellature del monte e la Tiburtina, piena di operai che rincasavano in bicicletta, qualcuno proseguendo verso Ponte Mammolo o Settecamini, qualcuno svoltando proprio davanti a quella spianata, verso i lotti di Tiburtino III e la Madonna del Soccorso. C'era già anche qualcuno che rincasato, e poi riuscito, se ne andava a fare coi compagni una passeggiata, verso Pietralata, o uno dei due cinema lì vicino, con la canottiera o la camicia fuori dai calzoni.
I ragazzini, venendo dall'Aniene ancora mezzo ignudi, andavano su per il sentiero marrone scuro che fendeva a metà la china della gobba dentellata, in principio sull'orlo d'una cava di tufo, e poi penetrando tra i rovi, dentro il Monte del Pecoraro.
Le bambine gli andarono dietro, e giunsero insieme nel mezzo del monte, da dove non si vedeva più la strada, su uno spiazzo pieno di cave abbandonate, che si sprofondavano in mezzo come dei piccoli burroni. Siccome dalla parte di San Pietro veniva su un temporale, pareva che fosse già quasi sera; il sole, tramontando, era stato coperto dalle nuvole, che già qua e là lampeggiavano anche se il cielo, sopra, era lucido, quasi rosso per il riverbero e il calore. E al posto del sole, ora le superfici del Monte del Pecoraro erano sfregate da una specie di vento affricano, pieno dei rumori di tutta la periferia. Il Piattoletta andava dietro anche lui alla banda dei maschi, ridendo sotto il berrettone, tenendosi bene in disparte, in modo da poterci stare insieme senza che se n'accorgessero. Gli altri però s'erano un po' calmati, perché c'erano le ragazzine. Andarono a mettersi sotto il pilone della luce, e lo Sgarone e il Tirillo cominciarono a giocare alla morra; per scherzo, dapprincipio, poi s'erano riscaldati e s'erano messi a strillare, uno in ginocchio, l'altro accucciato su quel po' d'erba ch'era rimasta sotto il pilone.
Armandino invece era andato a sbragarsi sul filo d'ombra che appena si distingueva perchè il sole era scomparso dietro i lampi, ma ne restava il chiarore, mentre gli altri, tignosi come un branco di bertucce, s'erano messi a prendere di petto le bambine. Standosene alla lontana, però, perchè con tutto che facevano i malandri, erano un poco timidi, e si tenevano raggruppati e abbraccicati fra loro, alzando moina tutti ironici e dislombiti. Ma quelle avevano sempre una risposta pronta per chiudergli la bocca.
- Quelle, - disse Armandino con voce grassa, - ve fanno annà parlanno da soli -, e si mise a cantare. Ma gli altri fecero l'indiani, e continuarono a star lì a scherzare con le femmine Il Roscetto, visto che non aveva altri argomenti, prese e diede una botta sulla testa a una, che quasi la piegò. Allora le bambine, tutte offese e ammusolite, se ne andarono dall'altra parte del pilone, da dove si vedeva Pietralata, e i maschi dietro, sciammannati quanto quelle erano contegnose. Sotto, dall'altro versante del Monte del Pecoraro, sempre tra le vecchie cave di tufo, era incastrato lo stabilimento Fiorentini, che faceva vibrare l'aria coi suoi motori. E di tanto in tanto scoccavano dalle vetrate, dai finestroni rabberciati, i lampi bianchi delle saldature autogene; Pietralata era più lontana, con le file delle casette rosa degli sfrattati, sotto la crosta indurita e infetta della polvere, e più in là i grossi casamenti gialli, alti e stretti in fila, nella campagna nuda come in inverno, tanto il sole l'aveva bruciata.
Ma le bambine si ritirarono per loro conto in fondo a una piccola radura tra le labbra di due grosse buche, e non risposero più niente ai ragazzi, scambiando appena qualche parola fra loro in attesa che quelli se ne andassero. Essi si erano raccolti a fare i malandrini un poco più su, nel costone; ma il contegno delle bambine però gli faceva rabbia, anche se non lo volevano dimostrare: per questo cominciarono a essere ancora più dispettosi e materiali: siccome a parole non ce la facevano a mostrarsi più dritti delle femmine, cominciarono a tirare zeppi e serci sui loro golfetti stracciati, sui capelli polverosi ma già pettinati come quelli delle signorine.
Le ragazzette non fecero altro che spostarsi un'altra volta, più giù, dopo però aver gridato in faccia ai maschi quello che si meritavano. -Mannaggia, - fecero, - perchè nun je andate a rompe li cojoni a vostra sorella, a stupidi! - Le loro voci vibravano tutte per la collera, e s'erano fatte più stridenti e al tempo stesso più strascicate. I ragazzi sentendole si misero a ghignare e a fargli il verso, nel modo che sentivano fare dai fratelli maggiori a proposito di certi tipi di via Veneto: e il più pivello gridò: - A frosce! - E, andandosene su per la china, si misero a camminare con la sinistra sul fianco e la destra ora protendendola in avanti ora accarezzandosi i capelli sulla nuca, a passi lunghi e lenti.
Armandino sotto il pilone continuava a cantare a più non posso, appassionato, e gli altri due a giocare alla morra, all'impiedi, con le dita della mancina dritte a contare i punti. - Ma li mortacci vostra! - gridarono quelli che venivano su, - e che stamo a ffà? - Si gettarono sui tre sotto al pilone, tutti eccitati, e si rotolarono lottando, alcuni, altri s'accesero un mozzicone, e il fiammifero, gettato a terra, bruciò un po' d'erba che s'accartocciò nera e rabbiosa secondo il capriccio dei fili di vento che scorrevano per le gobbe dell'altura.
Le nuvole s'erano andate infittendo e i loro lampi, a intervalli, le macchiavano di rosso, e più rapide e frequenti, anche perché nell'aria già scura si vedevano meglio, erano le lampate delle saldature, sotto, dallo stabilimento, che copriva col ronzio dei suoi motori le voci della povera vita di Pietralata e di Tiburtino.
Il Piattoletta se ne stava seduto sulla terra, con le gambe incrociate, e il berretto tirato più giù che poteva sulle orecchie, ridendo con le sue labbra lunghe e pendenti.
- A Piattolè, - gridavano gli altri rotolandosi sul fango screpolato, -acchiappa questo, - ma continuavano a lottare fra di loro senza badargli. Lo Sgarone stava disteso a terra a pancia in alto, e sopra di lui il Roscetto, pancia contro pancia, per tenerlo fermo, e con le mani gli stringeva i polsi tenendoli incarcati per terra.
Lo Sgarone cercava di liberarsi. - Nun te move! - gridava il Roscetto arrossito per lo sforzo. Ma lo Sgarone che cominciava a scocciarsi si agitava come una ciriola. - Ma li mortacci tua, - gridava. - Stacce, a Sgarò, - diceva il Roscetto. - E levate dar c... - rispondeva l'altro cominciando a arrabbiarsi davvero, con voce già un po' rotta. Il Roscetto si mise a balzare su di lui, come se c'avesse il ballo di San Giusto. - Bada che qua ce sta bastiano che fa 'a guardia, a Roscè! - fece lo Sgarone ridendo. Il Roscetto lasciandolo tutto eccitato fece uno zompo all'indietro. - Giocamo a l'indiani! - gridò. - E vattene, - fecero gli altri sprezzanti. - Daje, che se divertimo, - insistette il Roscetto. - Uh, è na robba, - disse ghignando Armandino. - Ihi, iuhuuu, ihu, - gridò saltando il Roscetto. - Daje, a Piattolè!
Il Piattoletta s'alzò in piedi e cominciò a gridare pure lui, saltando ora su un piede ora sull'altro: - Ihu, ihihu -. Il Roscetto gli si mise al fianco, per saltare insieme: - Ihu, ihiuuu, ihu, - gridavano ridendo.
Pure gli altri si misero a saltellare, piegandosi sui corpi avanti e indietro, e gridando: - Ihu, ihu -. Le bambine vennero su a vedere che succedeva e trovando tutta quella caciara, si fermarono in cerchio intorno e dissero: -Quanto so' fanatichi! - Ma i ragazzini, davanti a loro, si misero a saltare e a gridare ancor di più per fargli rabbia.
- Famo 'a ddanza de 'a morte, 'a ddanza de 'a morte! - gridò il Roscetto: gli altri si misero a strillare ancora più alto: - Ihu, ihihu, - e appena che saltando passavano vicino alle bambine gli ammollavano un calcio o una scopola sulla testa. Ma esse che se l'aspettavano, erano svelte a scansarsi -Ih, che lagna che siete, - dicevano. - La volete piantà, a ignoranti, - ma non se ne tornavano via e stavano a guardare le loro danze; e i ragazzini, benché non ce la facessero più a saltare e urlare, continuavano sempre più forte per farsi vedere.
- Er palo de la tortura, - gridò il Roscetto.
- Sì, mo puro er palo de 'a tortura, - dissero smorfiose le ragazzine, - ce fade ride, ce fade, - e guardavano con aria di compassione, annoiate.
Il Roscetto si gettò sul Piattoletta, che ci dava sotto in mezzo agli altri, muovendo appena i piedi, perché era stanco morto, a gridare «ihu, ihu». -Ar palo de 'a morte, gridò il Roscetto, appena l'ebbe acchiappato.
Gli altri gridando l'aiutarono, e trascinarono il Piattoletta vicino al pilone della luce.
- Legamolo, - gridò lo Sgarone. Il Piattoletta si dibatteva, lasciandosi andare a terra a corpo morto. - Ma li mortacci tua, - gridò il Roscetto che lo reggeva sotto le braccia, - e sta all'impiedi, a zelloso.
Ma il Piattoletta non voleva saperne, e si gettava in terra calciando: gli altri intorno continuavano a strillare. - Già me so' stufato, - disse il Roscetta allungandogli un calcio nella pancia.
Il Piattoletta cominciò a piangere così forte che superava gli urli dei ragazzini. - Mo piagne, sto stronzo, - disse Armandino. - Mo si nun t'arzi... - gridò il Roscetto. Ma il Piattoletta non voleva proprio saperne e continuava a svincolarsi sulla polvere, piangendo a tutta forza.
- In dieci nun ce la fanno con quer storcinato, llì, - dissero le bambine. Ma il Roscetto l'aveva alzato tirandolo su per il bavero, e siccome il Piattoletta gridava: - Lasseme, a fijo de na mignotta, - Tiè, - gli disse e gli sputò dentro un occhio; poi lo strinse di brutto, e aiutato dallo Sgarone e dal Tirillo, lo spinse contro il pilone, e gli legarono con uno spago i polsi a un uncino di ferro che sporgeva dal cemento.
Ma benché così appeso il Piattoletta continuava a dar calci e a agitarsi, gridando. Gli altri ripresero le danze intorno a lui e strillarono più forte: -Ihu, ihu, ihiuuuu, - stando però a una certa distanza per non essere colpiti dai calci che il Piattoletta allentava all'aria. - Auffa, - gridò il Roscetto, -che, nissuno tiè n'antro pezzo de spago?
- E chi ce n'ha, - disse il Tirillo.
- Er Piattoletta, er Piattoletta, - gridò lo Sgarone. - Ce se tiè su li carzoni!
Si gettarono sul Piattoletta, che gemeva e si raccomandava, e mentre le bambine ridevano gridando: - An vedi quelli!, - gli tolsero lo spago che gli reggeva i calzoni e gli legarono le caviglie.
- Mo je damo foco ar palo de la morte, - gridò Armandino, accendendo un fiammifero.
Ma il vento glielo spense. - Ihu, ihu, ihu, - gridavano intorno tutti gli altri a squarciagola.
- 'A macchinetta tua! - gridò lo Sgarone al Tirillo.
- Ecchela, - disse il Tirillo cacciandola dal fondo della saccoccia; l'accendette, e mentre che gli altri, a calci, ammucchiavano sotto il pilone degli sterpi, sempre gridando e ballando, accendette qua e là intorno l'erba secca.
Il vento soffiava forte, da tutte le parti, sul Monte del Pecoraro ormai quasi buio, mentre tra i guizzi di luce dello stabilimento, e i lampi del temporale, si sentiva già qualche tuono, e odore di bagnato.
L'erba secca s'accese subito, passò le fiammelle color sangue agli sterpi, e intorno al Piattoletta che gridava s'alzò un po' di fumo.
I calzoni, intanto, non tenuti più su dalla cordicella, gli erano scivolati, lasciandogli scoperta la pancia e ammucchiandosi ai piedi legati. Così il fuoco, dai fili d'erba e dagli sterpi che i ragazzini continuavano a calciare gridando, s'attaccò alla tela secca, crepitando allegramente.