5. DISCIPLINA AUGUSTA (3)
Gli affari ebraici andavano di male in peggio. A Gerusalemme, giungevano a compimento i lavori, malgrado violente opposizioni dei gruppi zeloti. Furono commessi alcuni errori, rimediabili in se stessi, ma di cui ben presto seppero profittare i mestatori. La Decima Legione di Spedizione ha per emblema un cinghiale; l'insegna fu affissa alle porte della città, com'è d'uso, e la plebaglia, poco avvezza ai simulacri dipinti o scolpiti di cui, da secoli, la tien priva una superstizione poco propizia ai progressi delle arti, prese quell'immagine per quella d'un porco e ravvisò in questo fatto insignificante un insulto ai costumi d'Israele. Le feste del Nuovo Anno ebraico, celebrate con grande frastuono di trombe e di corna di montone, davano luogo ogni anno a risse sanguinose; le nostre autorità vietarono la lettura pubblica d'un racconto leggendario, consacrato alle gesta d'una eroina ebrea, la quale, sotto falso nome, sarebbe divenuta la concubina d'un re di Persia, e avrebbe fatto massacrare ferocemente i nemici del popolo disprezzato e perseguitato donde proveniva. I rabbini riuscirono a leggere di notte quello che il governatore Tineo Rufo proibiva loro di leggere di giorno: quella storia feroce, nella quale Persiani ed Ebrei rivaleggiavano in atrocità, eccitava sino alla follia il furore nazionale degli Zeloti. Infine, sempre Tineo Rufo, uomo di grande prudenza, del resto, e non alieno da interesse per le favole e le tradizioni di Israele, decise di comminare anche per la circoncisione (pratica ebraica) le severe penalità della legge che di recente avevo promulgato contro l'evirazione; penalità volte soprattutto a reprimere le sevizie perpetrate contro giovani schiavi, per lucro o corruzione. Sperava di obliterare così uno di quei segni con i quali Israele pretende distinguersi dal resto del genere umano. Quando fui avvertito di tale misura, non mi resi conto del pericolo che essa comportava, dato che molti, tra gli Ebrei ricchi e illuminati che si incontrano ad Alessandria o a Roma, hanno cessato di sottomettere i figli a una pratica che li rende ridicoli nei bagni pubblici o nei ginnasi, e fanno del loro meglio per dissimularne le tracce su se stessi. Ignoravo sino a qual punto quei banchieri collezionisti di vasi mirrini differiscano dall'autentica Israele. L'ho detto: non c'era nulla di irreparabile; ma l'odio, il disprezzo, il rancore reciproco lo erano. In teoria, quella giudaica ha un posto tra le altre religioni dell'impero; ma, in realtà, da secoli Israele si rifiuta di essere un popolo tra gli altri, d'avere un dio tra gli déi. I Daci più selvaggi non ignorano che il loro Zalmosis si chiama Iuppiter a Roma; il Baal punico del monte Cassio s'è identificato facilmente col Padre che tiene la Vittoria in mano e da cui è nata la Saggezza; gli Egizi, pur tanto vani dei loro déi dieci volte secolari, consentono d'identificare in Osiris un Bacco dotato di attributi funerei; l'aspro Mitra sa di essere fratello di Apollo. Non v'è un altro popolo, all'infuori di Israele, così arrogante da pretendere di contenere la verità intera nei limiti angusti d'una sola concezione divina, insultando così la molteplicità del dio che tutto contiene; non v'è altro dio che abbia ispirato ai suoi fedeli disprezzo e odio per coloro che pregano ad are diverse. Tanto più tenevo a far di Gerusalemme una città come le altre, dove potessero coesistere in pace più culti e più razze; dimenticavo che, in ogni conflitto tra il fanatismo e il buon senso, è raro che quest'ultimo prevalga. L'apertura di scuole dove s'insegnava il greco scandalizzò il clero della vecchia città; il rabbino Giosuè, un uomo colto e simpatico, con il quale ad Atene avevo avuto parecchie conversazioni, ma che faceva di tutto per farsi perdonare dai concittadini la sua cultura straniera e i rapporti con noi, ordinò ai discepoli d'astenersi da quegli studi profani, salvo a trovare, per dedicarvela, un'ora che non appartenesse né al giorno né alla notte, dato che la Legge ebraica deve essere studiata giorno e notte. Ismaele, un membro importante del Sinedrio, che si riteneva un convertito alla causa di Roma, lasciò morire il nipote Ben Dama piuttosto che accettare i servigi del chirurgo greco che Tineo Rufo gli aveva inviato. Mentre a Tivoli si cercavano ancora i mezzi per conciliare gli animi senza aver l'aria di cedere alle pretese dei fanatici, in Oriente gli eventi precipitarono: a Gerusalemme riuscì un colpo di mano degli Zeloti. Un avventuriero uscito dalla feccia della plebe, chiamato Simone, che si faceva chiamare anche Bar-Kochba, o Figlio della Stella, in quella rivolta ebbe la funzione della fiaccola ricoperta di bitume, dello specchio ustorio. Non posso giudicare quel Simone se non per sentito dire; la sua faccia, l'ho vista una volta sola, il giorno in cui un centurione mi portò la sua testa mozza. Ma son disposto a riconoscergli quella parte di genio che ci vuol sempre per salire tanto presto in alto nelle cose umane; non ci s'impone così se non si possiede almeno qualche abilità, anche rozza. I Giudei moderati sono stati i primi ad accusare quel preteso Figlio della Stella di simonia o d'impostura: credo piuttosto che quello spirito incolto fosse di quelli che credono alle proprie menzogne, e che in lui il fanatismo andasse di pari passo con l'astuzia. Simone si fece passare per l'eroe sul quale il popolo ebreo conta da secoli per le sue ambizioni e i suoi odi; quel demagogo si proclamò Messia e re d'Israele. L'antico Akiba, al quale girava un po' la testa, tenne la briglia al cavallo di quell'avventuriero per le strade di Gerusalemme; il gran sacerdote Eleazar riconsacrò il tempio che dicevano contaminato da quando visitatori non circoncisi ne avevano varcato la soglia; depositi d'armi sotterrati da una ventina d'anni furono distribuiti ai ribelli dagli agenti del Figlio della Stella; lo stesso avvenne dei pezzi difettosi intenzionalmente fabbricati, da anni, nei nostri arsenali, da operai ebrei, e che la nostra intendenza respingeva. Gruppi di Zeloti attaccarono le guarnigioni romane isolate e massacrarono i nostri soldati con raffinatezze crudeli che richiamavano alla memoria gli episodi peggiori della rivolta ebraica sotto Traiano; infine, Gerusalemme cadde interamente nelle mani degli insorti e i quartieri nuovi di Aelia Capitolina presero fuoco come una torcia. I primi distaccamenti della Ventiduesima Legione Deiotariana, inviata d'urgenza dall'Egitto agli ordini del legato di Siria Publio Marcello, furono messi in rotta da bande dieci volte superiori per numero. La rivolta era ormai guerra, e guerra implacabile.
Due legioni, la Dodicesima Fulminatrice e la Sesta, la Legione di Ferro, immediatamente accorsero di rincalzo agli effettivi di stanza in Giudea; pochi mesi dopo, Giulio Severo, che un tempo aveva pacificato le regioni montuose della Britannia del Nord, assunse il comando delle operazioni militari; conduceva con sé alcuni esigui contingenti di ausiliari britannici avvezzi a combattere su terreni difficili. Le nostre truppe dall'equipaggiamento pesante, i nostri ufficiali, avvezzi alla formazione quadrata o alla falange delle battaglie predisposte, stentarono parecchio ad adattarsi a quella guerriglia fatta di scaramucce e di sorprese, e che, in aperta campagna, serbava una tecnica da sommossa. Simone, uomo notevole, a modo suo, aveva suddiviso i suoi partigiani in centinaia di squadre, in osservazione sulle creste dei monti, o imboscate al fondo delle caverne e delle cave abbandonate, o anche nascoste presso gli abitanti dei sobborghi formicolanti delle città. Severo non tardò a comprendere che questo nemico inafferrabile si poteva sterminare, ma non vincere; si rassegnò a una guerra d'usura. I contadini, resi fanatici o terrorizzati da Simone, sin dagli inizi fecero causa comune con gli Zeloti: ogni roccia divenne un bastione, ogni vigneto una trincea, ogni fattoria si dové prendere con la fame o conquistare d'assalto. Gerusalemme non fu ripresa che al principio del terzo anno, quando si constatò l'inutilità delle estreme negoziazioni; quelle zone della città giudaica che l'incendio di Tito aveva risparmiato furono ridotte in cenere. Severo s'era imposto di chiudere un occhio, per lungo tempo, sulla complicità flagrante delle altre grandi città; ma, divenute le fortezze estreme del nemico, esse furono attaccate più tardi e riconquistate a loro volta, strada per strada, rovina per rovina. In quei tempi di prove, il mio posto era al campo, in Giudea. Accordavo la fiducia più completa ai miei due luogotenenti, e appunto perciò era opportuno che mi trovassi sul posto anch'io per condividere la responsabilità delle decisioni da prendere: checché si facesse, si annunciavano atroci. Allo scadere della seconda estate di guerra, feci amaramente i miei preparativi; Euforione imballò ancora una volta gli oggetti necessari, un po' logorati dall'uso, che m'aveva fatto una volta un artigiano di Smirne, la cassa di libri e di carte, la statuetta d'avorio del Genio imperiale, la sua lampada d'argento; si era ai primi giorni dell'autunno, quando sbarcai a Sidone. La vita militare è la mia vocazione: non vi ho mai fatto ritorno senza essere ripagato dei sacrifici da certi compensi interiori; non rimpiango d'aver passato i due ultimi anni attivi della mia esistenza a dividere con le legioni l'asprezza, la desolazione della campagna di Palestina. Ero ridiventato l'uomo vestito di cuoio e di ferro, che trascura tutto ciò che non è l'immediato, sorretto dalle consuetudini semplici d'una vita dura; un po' più lento di prima a montare a cavallo o a scenderne, un po' più taciturno, forse più cupo, circondato come sempre (gli déi soli ne sanno il perchè) dalla devozione idolatra e fraterna al tempo stesso delle truppe. Durante quell'ultimo soggiorno alle armi, feci un incontro inestimabile: assunsi come aiutante di campo un giovane tribuno chiamato Celere, al quale mi affezionai molto. Tu lo conosci: non mi ha mai abbandonato. Ammiravo quel bel volto da Minerva con l'elmo in testa, ma per la verità, i sensi ebbero poca parte in questo affetto, quanta possono averne finché si è vivi. Ti raccomando Celere: ha tutte le qualità che si desiderano in un ufficiale subalterno; anzi, saranno proprio le sue virtù a impedirgli, finché vivrà, di passare in prima fila. Avevo trovato ancora una volta, in circostanze lievemente diverse dalle precedenti, uno di quegli esseri il cui destino è la dedizione: amare, servire. Da quando lo conosco, Celere non ha avuto un solo pensiero che non sia stato per il mio benessere o la mia sicurezza; mi appoggio ancora a questa solida spalla.
Al terzo anno di guerra, in primavera, l'esercito strinse d'assedio la cittadella di Betar, nido d'aquile dove Simone e i suoi seguaci resistettero per circa un anno alle lente torture della fame, della sete e dello sconforto e dove il Figlio della Stella vide perire i suoi fedeli, uno a uno, senza arrendersi. Il nostro esercito soffriva quasi quanto i ribelli: ritirandosi, questi avevano bruciato i frutteti, devastato i campi, sgozzato il bestiame, inquinato i pozzi gettandovi i nostri morti; quei metodi feroci erano orrendi, più ancora perché applicati a una terra naturalmente povera e già logorata sino all'osso da lunghi secoli di follie e di furori. L'estate fu calda e malsana: la febbre e la dissenteria decimarono le nostre truppe; continuava a regnare una disciplina mirabile tra quelle legioni costrette all'inazione e alla vigilanza nello stesso tempo; l'esercito, sottoposto a molestie e a malattie, era sostenuto da una specie di furore silenzioso che mi si comunicava. Il mio corpo non sopportava più come prima le fatiche d'una campagna, i giorni torridi, le notti gelide o soffocanti, il vento aspro, la polvere che stride tra i denti; mi accadeva di lasciare nella gamella il lardo e le lenticchie bollite del rancio, e restare digiuno. A estate inoltrata, fui tormentato da una tosse maligna; e non ero il solo. Nella mia corrispondenza col Senato, abolii la formula d'obbligo che figura in cima ai comunicati ufficiali: «L'imperatore e l'esercito stanno bene». Al contrario, l'imperatore e l'esercito erano pericolosamente stremati. Alla sera, dopo l'ultima conversazione con Severo, l'ultima udienza ai disertori, l'ultimo corriere da Roma, l'ultimo messaggio di Publio Marcello ch'era incaricato di rastrellare i dintorni di Gerusalemme, o di Rufo intento a riorganizzare Gaza, Euforione misurava con parsimonia l'acqua del mio bagno in una vasca di tela incatramata; mi stendevo sul letto; cercavo di pensare. Non lo nego: quella guerra di Giudea era uno dei miei insuccessi. I delitti di Simone, la follia di Akiba non erano opera mia, ma mi rimproveravo d'esser stato cieco a Gerusalemme, distratto ad Alessandria, impaziente a Roma. Non avevo saputo trovare le parole che avrebbero prevenuto, o almeno procrastinato quella crisi di furore d'un popolo: non avevo saputo essere al momento giusto abbastanza duttile o abbastanza rigoroso. D'altro canto, non v'era di che preoccuparsi, e ancor meno disperarsi, per noi: gli errori, le incomprensioni, erano solo nei nostri rapporti con Israele; altrove, raccoglievamo ovunque il frutto di sedici anni di generosità in Oriente. Simone aveva creduto di poter puntare su di una rivolta del mondo arabo simile a quella che aveva contrassegnato gli ultimi, foschi anni del regno di Traiano; più ancora, aveva osato far assegnamento sull'aiuto dei Parti. S'era ingannato, e questo errore di calcolo era la causa della sua lenta fine nella cittadella accerchiata di Betar; le tribù arabe si distaccavano dalla solidarietà con le comunità ebraiche, i Parti restavano fedeli ai trattati. Le sinagoghe delle grandi città siriache si mostravano esse pure indecise o tiepide; le più ardenti si contentavano d'inviare segretamente danaro agli Zeloti; la popolazione ebraica di Alessandria, pur così turbolenta, restava calma; l'ascesso giudaico rimaneva localizzato in quella regione arida che si estende tra il Giordano e il mare; quel dito ammalato si poteva cauterizzare o amputare senza pericolo. E tuttavia, in un certo senso, pareva che ricominciassero i cattivi giorni che avevano immediatamente preceduto il mio regno. Un giorno, Quieto aveva incendiato Cirene, giustiziato i notabili di Laodicea, s'era impossessato di Edessa in rovina... Il corriere serale m'informava che eravamo appena tornati a occupare quel cumulo di pietre dirute che io chiamavo Aelia Capitolina e che gli Ebrei chiamavano ancora Gerusalemme; avevamo incendiato Ascalon; s'era dovuto procedere a esecuzioni in massa dei ribelli di Gaza... Se sedici anni del regno d'un principe pacifista fervente davano come risultato la campagna di Palestina, erano ben poche le probabilità di pace del mondo per il futuro. Mi sollevavo sul gomito, mi sentivo a disagio nel mio lettuccio da campo. Certo, v'era qualche ebreo esente dal contagio zelota: persino a Gerusalemme, v'erano Farisei che sputavano al passaggio di Akiba, e trattavano da vecchio pazzo quel fanatico che gettava al vento i vantaggi concreti della pace romana, e gli gridavano che gli sarebbe cresciuta l'erba nella bocca prima che si potesse vedere sulla terra la vittoria d'Israele. Ma preferivo ancora i falsi profeti a quegli uomini d'ordine, che ci disprezzavano pur contando su di noi per proteggere dalle esazioni di Simone l'oro che avevano investito presso banchieri siriaci, o le loro tenute in Galilea. Pensavo ai disertori che, poche ore prima, s'erano seduti sotto la mia tenda, umili, dimessi, servili, ma sempre disposti in modo da voltar la schiena alla immagine del mio Genio. Il nostro miglior agente, Elia Ben-Abayad, il quale faceva l'informatore e la spia a favore di Roma, era giustamente disprezzato da entrambi i contendenti; era tuttavia l'uomo più intelligente del gruppo, uno spirito liberale, un cuore offeso, dilaniato tra l'amore per il suo popolo e la passione per la nostra letteratura e per noi; lui pure, in fondo, non pensava che a Israele. Giosuè Ben Kisma, che predicava la pacificazione, non era che un Akiba più pavido o più ipocrita; persino presso il rabbino Giosuè, che per tanto tempo era stato mio consigliere nelle faccende ebraiche, avevo sentito, sotto la versatilità e il desiderio di piacere, le differenze insormontabili, il punto ove due pensieri di specie diversa non s'incontrano se non per combattersi. I nostri territori si estendevano su centinaia di leghe, migliaia di stadi, al di là di quell'orizzonte arido di colline, ma la roccia di Betar costituiva la nostra frontiera; potevamo ben radere al suolo le mura massicce di quella cittadella dove Simone commetteva con frenesia il suicidio, ma non potevamo impedire a quella razza di dirci di no.
Una zanzara ronzava: Euforione, che si faceva vecchio, aveva trascurato di chiudere con attenzione le sottili tende di velo; libri, fogli gettati a terra frusciavano al vento basso che s'insinuava sotto la parete di tela. Mi sedevo sul letto, infilavo i calzari, cercavo a tastoni la tunica, il cinturone, la daga; uscivo per respirare l'aria della notte. Percorrevo le grandi strade regolari del campo, deserte nell'ora tarda, rischiarate come quelle delle città; alcune scolte mi salutavano solennemente al passaggio; costeggiando la baracca che serviva da ospedale, respiravo il lezzo dolciastro dei malati di dissenteria. Mi dirigevo verso la scarpata di terra che ci separava dal precipizio e dal nemico. Una sentinella marciava a lunghi passi regolari su quel sentiero di ronda, pericolosamente stagliata al lume di luna; in quell'andare su e giù, ravvisavo il moto d'un ingranaggio della macchina immensa di cui ero io il perno; mi commoveva un istante lo spettacolo di quella forma solitaria, di quella fiamma breve che ardeva nel petto d'un uomo, in mezzo a un mondo di pericoli. Una freccia sibilava, appena più importuna della zanzara che m'aveva disturbato sotto la tenda; appoggiavo i gomiti ai sacchi di sabbia del muro di cinta. Da qualche anno, mi si suppone in possesso di singolare chiaroveggenza, di sublimi segreti. E' tutto falso, non so nulla. Ma è pur vero che durante le notti di Betar ho visto sfilare sotto i miei occhi fantasmi inquietanti: le prospettive che si affacciavano allo spirito dall'alto di quelle colline spoglie erano meno maestose di quella del Gianicolo, meno dorate di quelle del Sunio; ne costituivano il rovescio, il nadir. Mi dicevo che è vano sperare, per Atene e per Roma, quell'eternità che non è accordata né agli uomini né alle cose, e che i più saggi tra noi negano persino agli déi. Quelle forme di vita complicate e sapienti, quelle civiltà adagiate nelle loro raffinatezze d'arte e di piacere, quella libertà dello spirito che s'informa e che giudica, dipendevano da circostanze innumerevoli e rare, da condizioni che era quasi impossibile provocare tutte simultaneamente e che non bisognava aspettarsi di vedere durare. Simone, lo avremmo annientato, Arriano avrebbe saputo proteggere la Siria dalle invasioni degli Alani. Ma altre orde sarebbero venute, altri falsi profeti, i nostri deboli sforzi per migliorare la condizione umana saranno continuati con scarso impegno dai nostri successori; il seme di errore e di morte che anche il bene contiene in sé crescerà mostruosamente nel corso dei secoli. Il mondo, stanco di noi, si cercherà nuovi padroni; quel che ci era parso saggio apparirà vano, quel che ci era parso bello apparirà orribile. Come l'iniziato mitriaco, forse anche l'umanità ha bisogno del bagno di sangue e di passare periodicamente nella fossa funebre. Vedevo tornare i codici feroci, gli déi implacabili, il dispotismo incontestato dei principi barbari, il mondo frantumato in Stati nemici, eternamente in preda al terrore. Altre sentinelle, minacciate da altri dardi, andranno su e giù di ronda nelle città future; il gioco stupido, osceno e crudele continuerà, e la specie umana invecchiando vi aggiungerà senza dubbio nuove raffinatezze d'orrore. La nostra epoca, di cui conoscevo meglio di chiunque altro le insufficienze e le tare, forse un giorno sarà considerata, per contrasto, come una delle età dell'oro dell'umanità.
«Natura deficit, fortuna mutatur, deus omnia cernit». La natura ci tradisce, la fortuna muta, un dio dall'alto guarda ogni cosa. Giocherellavo con un anello che avevo al dito, sul castone del quale, un giorno di sconforto, avevo fatto incidere queste poche, tristi parole; mi spingevo più oltre nella delusione, forse nella bestemmia: finivo per trovar naturale, se non giusto, dover perire. Le nostre lettere si esauriscono, le nostre arti cadono in letargo, Pancrate non è Omero, Arriano non è Senofonte; quando ho cercato d'immortalare nella pietra la forma di Antinoo, non ho trovato Prassitele. Dopo Aristotele e Archimede, le scienze segnano il passo; i nostri progressi tecnici non resisterebbero all'usura d'una lunga guerra; persino i gaudenti, da noi, si tediano della felicità. L'incivilimento dei costumi, il progresso delle idee durante l'ultimo secolo è opera d'una minoranza esigua di spiriti illuminati; la massa resta ignara, feroce quando può, sempre egoista e gretta, e si può scommettere fondatamente che tale resterà sempre. Troppi procuratori o pubblicani avidi, troppi senatori diffidenti, troppi centurioni brutali hanno compromesso in anticipo l'opera nostra; e agli imperi non è concesso più tempo che agli uomini per imparare, a spese dei propri errori. Là dove un tessitore rattopperebbe la sua tela, dove un calcolatore abile correggerebbe i suoi errori, dove l'artista ritoccherebbe il suo capolavoro ancora imperfetto o appena danneggiato, la natura preferisce ricominciare dall'argilla, dal caos; e questo sperpero è ciò che si chiama l'«ordine delle cose». Sollevai il capo; mi mossi per togliermi di dosso il torpore. Bagliori indefiniti arrossavano il cielo sopra la cittadella di Simone, manifestazioni inesplicate della vita notturna del nemico. Soffiava il vento dall'Egitto; una tromba di polvere passava, simile a uno spettro; i profili piatti delle colline mi ricordavano la catena arabica sotto la luna. Rientrai lentamente, coprendomi la bocca con un lembo del mantello, irritato contro me stesso per aver dedicato a sterili meditazioni sull'avvenire una notte che avrei potuto impiegare a predisporre i piani per l'indomani, o a dormire. Il crollo di Roma, se doveva avvenire, avrebbe interessato i miei successori; in quell'anno ottocentottantasette dell'era romana, il mio compito consisteva nel reprimere la rivolta in Giudea, nel far tornare dall'Oriente, senza troppe perdite, un esercito deluso. Nel traversare lo spiazzo, sdrucciolavo, a volte, nel sangue d'un ribelle giustiziato la sera innanzi. Mi coricai tutto vestito sul mio letto; due ore dopo, le trombe dell'alba mi destarono. Tutta la vita, ero vissuto d'amore e d'accordo col mio corpo; avevo implicitamente contato sulla sua docilità, sulla sua forza. Quest'intima alleanza cominciava ad allentarsi; il mio corpo cessava d'operare d'accordo con la mia volontà, col mio spirito, con quella che bisogna pure ch'io chiami, goffamente, la mia anima; il compagno intelligente d'un tempo, ormai non era più che uno schiavo riluttante alla fatica. Il mio corpo aveva paura di me: sentivo continuamente nel petto la presenza oscura della paura, una morsa che non era ancora dolore, ma il primo passo in quel senso.