7. TACCUINI DI APPUNTI (2) (NO AUDIO)
Chi è Ecuba per lui? si chiede Amleto davanti al guitto che piange su Ecuba. Ed ecco, Amleto costretto a riconoscere che quel commediante che versa lacrime vere è riuscito a stabilire con quella donna morta da tre millenni un contatto più profondo del suo con il padre, sepolto il giorno avanti; egli non soffre abbastanza della sua morte da esser capace di vendicarlo senza indugio.
La sostanza, la struttura dell'essere umano non muta: non c'è cosa più stabile che la curva di una caviglia, il posto d'un tendine, la forma di un alluce. Ma ci sono epoche in cui la calzatura deforma meno: nel secolo di cui parlo siamo ancora molto vicini alla libera verità del piede nudo.
Quando ho fatto formulare da Adriano le sue previsioni sul futuro, mi sono tenuta nel campo del plausibile; a patto, tuttavia, che quei pronostici restassero vaghi. Chi analizza le cose umane senza parzialità in genere non si sbaglia di molto sull'andamento futuro degli avvenimenti; ma commette errori su errori se si tratta di prevedere il modo come si svolgeranno i particolari, le deviazioni: Napoleone a Sant'Elena annunciava che un secolo dopo la sua morte l'Europa sarebbe stata o rivoluzionaria o cosacca; poneva con molta esattezza i due termini del problema, ma non poteva immaginare che si sarebbero sovrapposti uno all'altro.
In genere, ci si rifiuta di scorgere sotto il presente i lineamenti delle epoche future, per orgoglio, per ignoranza volgare, per viltà. Gli spiriti liberi - i saggi del mondo antico - pensavano in termini di fisica o di fisiologia, come facciamo noi; prendevano in considerazione la possibilità della scomparsa dell'uomo, la morte della terra. Plutarco, Marco Aurelio non ignoravano affatto che gli dèi e le civiltà passano, muoiono; non siamo soli a guardare in faccia un avvenire inesorabile.
La chiaroveggenza che ho attribuito ad Adriano non era d'altra parte che una maniera di mettere in risalto l'elemento quasi faustiano del personaggio, quale trapela, ad esempio, nei Canti Sibillini, negli scritti di Elio Aristide e nel ritratto di Adriano vecchio tracciato da Frontone. A torto o a ragione, quando era vicino a morire gli furono attribuite doti più che umane.
Se quest'uomo non avesse conservato la pace nel mondo e rinnovato l'economia dell'impero, le sue gioie, le sue sventure mi interesserebbero meno.
Non ci si dedica mai abbastanza a quel gioco appassionante che consiste nell'accostare i testi: il poema del Trofeo di Caccia di Tespie, che Adriano consacrò all'Amore e alla Venere Urania «sulle colline dell'Elicona, in riva alla sorgente di Narciso» è dell'autunno 124; nella stessa epoca, l'imperatore passò da Mantinea e Pausania ci informa che fece restaurare il sepolcro di Epaminonda e vi fece incidere un suo poema.
L'iscrizione di Mantinea è perduta; ma il gesto di Adriano forse non acquista tutto il suo valore se non lo mettiamo a confronto con un passo dei "Moralia" di Plutarco, il quale ci dice che Epaminonda fu sepolto in quel luogo tra due giovinetti, uccisi al
suo fianco. Se si accetta la data (123-24) del soggiorno in Asia perché è sotto ogni punto di vista la più plausibile, e confermata dai reperti iconografici, per l'incontro dell'imperatore con Antinoo, quei due poemi farebbero parte di quello che si potrebbe chiamare «il ciclo di Antinoo», ispirati l'uno e l'altro da quella stessa Grecia amorosa ed eroica che Arriano evocò più tardi, dopo la morte del favorito, quando paragonò il giovinetto a Patroclo.
Di alcune figure, si vorrebbe sviluppare il ritratto: Plotina, Sabina, Arriano, Svetonio. Ma Adriano non poteva vederli che di scorcio; lo stesso Antinoo si può vederlo solo per rifrazione, attraverso i ricordi dell'Imperatore, vale a dire con una minuzia appassionata; e qualche errore.
Del temperamento di Antinoo, tutto ciò che si può dire è iscritto nella più piccola delle sue immagini. "Eager and impassionated tenderness, sullen effeminacy": con il mirabile candore dei poeti, Shelley dice l'essenziale in sei parole, là dove critici d'arte e storici del Diciannovesimo secolo, per la maggior parte, non hanno saputo far altro che effondersi in declamazioni virtuose o idealizzare, perdendosi nel falso e nel vago.
I ritratti di Antinoo: ce n'è molti. Vanno dall'incomparabile al mediocre. Ad onta delle variazioni dovute all'arte dello scultore o all'età del modello, alla differenza tra i ritratti presi dal vero e quelli eseguiti in onore del defunto, sono tutti sconvolgenti per il realismo incredibile della figura, sempre riconoscibile al primo sguardo e tuttavia interpretata in tanti modi, per questo esempio unico nell'antichità, di sopravvivenza, di moltiplicazione nella pietra d'un volto che non era quello d'un uomo di stato o d'un filosofo, ma che fu, semplicemente, amato.
Tra tutte queste immagini, le più belle sono due, le meno conosciute e le sole che rivelano il nome di uno scultore: una è il bassorilievo firmato da Antoniano di Afrodisia, che fu trovato una cinquantina di anni fa in un terreno appartenente a un istituto agronomico, «I Fondi Rustici», e attualmente si trova nella sala del consiglio d'amministrazione. Dato che nessuna guida di Roma ne segnala l'esistenza e la città è stracolma di statue, i turisti la ignorano. L'opera di Antoniano è stata intagliata in un marmo italiano e dunque fu certamente eseguita in Italia, senza alcun dubbio a Roma da questo artista. Forse, si era stabilito nell'Urbe o Adriano l'aveva portato con sé da uno dei suoi viaggi.
La scultura è d'una finezza estrema: i pampini di una vite incorniciano di teneri arabeschi quel viso giovane, malinconicamente chino; non si può fare a meno di pensare alle vendemmie d'una breve esistenza, all'atmosfera opulenta d'una sera d'autunno.
L'opera reca le tracce degli anni trascorsi in una cantina durante l'ultima guerra: il candore del marmo è momentaneamente scomparso sotto le macchie di terra; tre dita della mano sinistra sono state spezzate. Così soffrono gli dèi per la follia degli uomini.
[Le righe qui sopra sono state pubblicate la prima volta sei anni fa; nel frattempo, il bassorilievo di Antoniano è stato acquistato da un banchiere romano, Arturo Osio, un personaggio singolare che avrebbe interessato Stendhal o Balzac. Osio riversa su questo bell'oggetto la stessa sollecitudine che ha per gli animali che tiene liberi in una proprietà a due passi da Roma, e per gli alberi che ha piantati a migliaia nella tenuta di Orbetello. Una virtù rara: «Gli Italiani detestano gli alberi»; lo diceva già Stendhal nel 1828: che cosa direbbe oggi, quando gli speculatori uccidono a furia di iniezioni d'acqua calda i pini a ombrello troppo belli, troppo protetti dalle norme urbanistiche, che li disturbano per edificare i loro formicai? E anche un lusso raro: quanti pochi ricchi animano i loro boschi, le loro praterie di animali in libertà, non per il piacere della caccia, ma per quello di ricostituire una specie di mirabile Eden? l'amore delle statue antiche, questi grandi oggetti pacati, durevoli e, al tempo stesso, fragili, è anch'esso ben raro presso i collezionisti, in questa epoca agitata e senza futuro. Dietro il consiglio di esperti, il nuovo possessore del bassorilievo di Antoniano l'ha sottoposto a una pulitura delicata da parte d'una mano abile. Una frizione lenta e leggera fatta con la punta delle dita ha liberato il marmo dalla ruggine, dalle macchie di muffa ed ha reso alla pietra la sua tenue lucentezza di alabastro e d'avorio].
Il secondo di questi capolavori è l'illustre sardonica che porta il nome di Gemma Marlborough, perché appartenne a quella collezione oggi dispersa. Questa splendida pietra incisa sembrava perduta o ritornata alla terra da più di trent'anni; una vendita pubblica a Londra l'ha riportata alla luce nel 1952; il gusto illuminato d'un grande collezionista, Giorgio Sangiorgi, l'ha riportata a Roma: devo alla sua benevolenza d'aver visto e toccato questo pezzo unico; sull'orlo si legge una firma incompleta; si ritiene, indubbiamente con ragione, che sia quella di Antoniano di Afrodisia. L'artista ha racchiuso quel profilo perfetto nello spazio limitato della sardonica con tale maestria che questo frammento di pietra resta la testimonianza di una grande arte perduta alla stessa stregua d'una statua o d'un bassorilievo. Le proporzioni dell'opera fanno dimenticare le dimensioni dell'oggetto; all'epoca bizantina, il rovescio di questo capolavoro fu immerso in una fusione d'oro purissimo. E' passato così da un collezionista ignoto a un altro fino a che è segnalata la sua presenza a Venezia, in una importante collezione del Diciassettesimo secolo; il celebre antiquario Gavin Hamilton la acquistò e la portò in Inghilterra, di dove oggi è tornata nel suo punto di partenza, che fu Roma. Di tutti gli oggetti ancora esistenti su la faccia della terra, questo è il solo di cui si possa presumere con qualche fondamento che Adriano l'abbia tenuta nelle sue mani.
Bisogna immergersi nei meandri d'un soggetto per scoprire le cose più semplici e l'interesse letterario più generale. Studiando il personaggio di Flegone, il segretario di Adriano, scoprii che a questa figura dimenticata si deve la prima - e una delle più belle - storie di fantasmi, quella tenebrosa, voluttuosa "Fidanzata di Corinto" che ispirò Goethe e Anatole France in "Noces Corinthiennes". Con lo stesso impegno e con la stessa curiosità disordinata per tutto ciò che eccede i limiti dell'umano, Flegone scriveva assurde favole di mostri a due teste e di ermafroditi che partoriscono. La conversazione alla mensa imperiale, almeno in certi giorni, si aggirava su questi argomenti.
Coloro che avrebbero preferito un "Diario di Adriano" alle "Memorie di Adriano" dimenticano che un uomo d'azione raramente tiene un diario; più tardi, al fondo d'un periodo di inattività, egli si ricorda, prende nota e, il più delle volte, stupisce.
Se mancasse qualsiasi altro documento, basterebbe la lettera di Arriano all'imperatore Adriano sul periplo del Mar Nero a ricreare nelle sue grandi linee questa figura imperiale: esattezza minuziosa del capo che vuol sapere tutto, interesse per i lavori della pace e della guerra, gusto per le statue somiglianti e ben fatte, passione per i poemi e le leggende d'altri tempi. E poi quel mondo, raro in tutti i tempi e che sparirà completamente dopo Marco Aurelio, in cui, ad onta delle più sottili sfumature di deferenza e di rispetto, il letterato e l'amministratore si rivolgono ancora al principe come a un amico.
C'è tutto: il ritorno malinconico all'ideale della Grecia Antica; allusione discreta agli amori perduti e alle consolazioni mistiche cercate dal superstite; attrattiva dei paesi sconosciuti, dei climi barbari. L'evocazione, così profondamente pre-romantica, delle regioni deserte abitate da uccelli marini fa pensare al mirabile vaso trovato a Villa Adriana nel quale, nel candore di neve del marmo, si dispiega in volo nella più completa solitudine uno stormo di aironi selvatici.