'Il buon tedesco', con Carlo Greppi e Francesco Filippi
Buonasera, buonasera a tutti e a tutti. Ciao Casa da Terza, ciao ospiti di Casa da Terza.
È un piacere ritrovarmi qui stasera per parlare di un bel libro, soprattutto con l'autore
che l'ha costruito. Sono qui per parlare di Il Buon Tedesco, la terza 2021, con Carlo
Screppi che è alla mia destra in questo momento, destra per chi guarda. Sono molto
felice di poter presentare un libro di cui ho sentito parlare molto ancora prima che uscisse.
Ammetto di essere uno dei fortunati che ha visto costruire, nascere e crescere un'operazione
che stasera cercheremo di vederlo insieme. Ha a che fare molto con il nostro passato,
ma ha a che fare anche molto con il nostro presente e soprattutto con il modo che il
presente ha di leggere il nostro passato. Saluto quindi Carlo Screppi che spero mi senta,
faccio anche il collegamento. Ciao Francesco, grazie mille,
grazie a Casa da Terza, una chiacchierata che mi fa un sacco piacere fare.
Perfetto, allora io direi, visto che conoscendo sia l'intervistatore che l'intervistato,
potremo stare qua un paio di giorni a parlare di tutti i temi che potrebbero uscire da queste
pagine. Abbiamo pochissimo tempo, mi dicono 40 minuti a cui poi ruberemo ovviamente,
non ce ne voglia la regia ancora qualcosa. Io partirei subito di brutto facendoti una
domanda diretta. Il Buon Tedesco ha vari protagonisti, ma uno superiore soprattutto
agli altri, Rudolf Jakobs, un personaggio un po' particolare. Carlo, dove e come hai conosciuto
Rudolf? Ce lo racconti. Allora, Rudolf Jakobs è un personaggio, diciamo, noto agli storici da almeno
50 anni. È molto noto nella zona in cui è arrivato come occupante, poi ha esitato, alla fine ha
disertato e si è unito ai partigiani locali, intendo dire la zona fondamentalmente tra Spezia,
Sarzana e Lerici. Lui stava in questa meravigliosa villa a Pugliola, una frazione di Lerici,
una villa che dà sul golfo dei poeti. Si distinse subito per avere un atteggiamento molto benevolo
nei confronti della popolazione e molto duro nei confronti dei fascisti locali. Questo,
come dire, avviò una serie di contatti con il partigianato locale e in particolare con
la brigata Ugo Muccini, che arrivò poi a sfiorare i mille effettivi. Dopo aver attentamente
vagliato le sue intenzioni, le sue motivazioni e cosa lo spingeva verso questa scelta, è stato
accettato e per cui si è unito ai partigiani e poi è morto eroicamente. È una figura nota agli
storici perché già ne schisse Roberto Battaglia, nella riedizione della prima e più importante per
tanti anni, Storia della resistenza italiana, in cui aggiunge appunto queste pagine sui disertori
tedeschi. Purtroppo Battaglia non l'ha mai conosciuto, nonostante combattessero a pochi
chilometri l'uno dall'altro. Poi appunto la sua memoria, il suo corpo è ancora lì. C'è una lapide
che lo ricorda in una delle piazze principali di Sarzana. Sono state scritte tante cose negli
anni, è stato girato anche una bellissima docu-fiction che si intitola Tradimento,
nell'85. Per cui la sua memoria è stata, soprattutto a livello locale, ma non solo,
è stata proprio un po' manutenuta negli anni. Perché io credo che sia una memoria fortunata
rispetto alle tante altre di cui magari andiamo a parlare, perché lui era veramente una figura
che aveva solo da perderci, a fare questo passaggio. Si era già distinto appunto per la
sua umanità in un contesto di terrore, di violenza estrema e non aveva bisogno, come dire, di pulirsi
la fedina penale, come si dice adesso. Uso questa espressione ovviamente impropriamente. Per cui il
suo gesto colpisce perché, come tanti altri, non come tutti ovviamente, è evidentemente motivato
da una spinta ideale. Per cui mi è stato chiaro fin da subito, fino a quando abbiamo immaginato il
progetto editoriale, come si dice in gergo, con la Terza, con Giovanni Carletti in particolare,
l'editor di La Terza che ha seguito questo libro, che ha seguito i miei libri, che lui sarebbe stato
per così dire il protagonista. Forse è inconsueto che ci sia un protagonista in un saggio storico,
però è in qualche modo una figura archetipica che è la guida, la cui vita proprio, i suoi 30 anni di
vita sono la guida del libro. Il libro poi in realtà racconta decine di altre storie di cui si
sa poco, quasi niente o anche molto, di disertori tedeschi e austriaci, insomma, della grande
Germania che non solo disertano, ma appunto fanno il passaggio quello irreversibile, cioè di unirsi
al partigianato italiano. Dici bene, Rudolf Jacobs è in qualche modo un disertore, ma un soldato,
una figura che sceglie, che è stata in qualche modo manutenuta e se vogliamo anche adottata
dalla terra che lo ha visto combattere, che lo ha visto scegliere e che lo ha visto essere
dalla parte di chi poi durante la democrazia si è ricordato di lui. È anche un faro, diciamo,
un punto di luce in un luogo assai oscuro che è quello dei disertori della Wehrmacht, chiamiamoli
così, cioè tutti coloro i quali dicevi giustamente tedeschi, austriaci, volksdeutsche, persone che
facevano parte della macchina da guerra del Terzo Reich che un po' dappertutto, noi ovviamente ci
occuperemo stasera del coso italiano, ma in tutta Europa pochi, ma ci furono scelsi di saltare
dall'altra parte. Nel libro parli di altri ovviamente personaggi che fecero questa scelta,
secondo te in generale, senza andare a svelare troppo quelli che sono i contenuti del libro,
quali sono le caratteristiche fondamentali, se ce ne sono, di chi sceglie di fare un salto così
complicato da una parte o dall'altra di una storia così complessa e sanguinosa?
Sicuramente come la storia della resistenza italiana e europea ci ha insegnato, questa scelta
ovviamente in proporzioni diverse, in misure diverse è assolutamente trasversale, cioè la
scelta della resistenza armata va dal nobile al contadino, dal credente all'ateo, dal comunista
al monarchico, ovviamente poi bisogna valutare come sono messe in proporzione questi gruppi
umani, politici, ideologici, sociali. Questo vale anche assolutamente per chi diserta dalle forze
armate tedesche, io ho scelto di confrontarmi con quelli che provenivano, il cui senso di
appartenenza era legato appunto all'idea di grande Germania, quella che si concretizza con l'Achlus,
fondamentalmente, cioè tedeschi e austrici e di escludere, accenno solo a quest'altro fenomeno,
che oppure è altrettanto importante, quantitativamente ancora più importante,
di tutte le nazionalità arruolate più o meno a forza nella costruzione della fortezza Europa,
dell'Europa nera, che fanno spesso appunto la medesima scelta. Chiaramente c'è un dibattito
sulle motivazioni aperto, assolutamente, ma come lo è per qualunque partigiano,
nel senso che noi sappiamo che per il caso della resistenza italiana la stragrande maggior parte
dei combattenti sono resistenti perché remitenti alla leva di Salò e dunque sono dei ragazzi che,
come dire, fanno delle scelte quasi sempre pre-politiche, mossi da una voglia di libertà,
come ci ha insegnato Pavone, dall'istinto dell'imparare a disobbedire a regime, appunto,
a vent'anni di educazione alla violenza e di menzogne. La stessa cosa si può sicuramente
dire per molti disertori che si trovano sballottati a migliaia di chilometri dai loro luoghi natali,
magari intuiscono che quella guerra è profondamente sbagliata. Molti altri,
come lo stesso Jacobs, ci mettono anni a maturare quella scelta e come peraltro tanti dei partigiani
un po' più anziani, dei quadri, insomma, la generazione dei ventenni e qualcosa, penso
ovviamente a Nuto Revelli, che è una delle altre guide del libro, che dopo aver fatto la guerra
fascista, appunto, fanno il passo decisivo e entrano nella nascente resistenza, nella resistenza
che nel frattempo si è strutturata. Per cui, secondo me, è importante dibattere sulle motivazioni e
sulle tracce che ci permettono di studiarle, sapendo che in molti casi noi non abbiamo
accesso ai pensieri di chi disertava. Nel caso dei sopravvissuti possiamo avere accesso,
tramite le fonti, a un loro racconto ex post, che può essere una testimonianza orale, scritta,
rilasciata in altre occasioni. Nel caso delle persone che, appunto, sono morte combattendo,
se ci va bene, possiamo avere, come dire, delle fonti di seconda mano, cioè i racconti dei loro
compagni di lotta, oppunto, o viceversa le fonti nazifasciste, che in qualche modo ci aiutano a
decodificare un po' le strade che portano a quella scelta. Certo è, e ti rido la parola,
che, vista, come dire, da studioso, colpisce moltissimo il fatto che tutti costoro che si
trovarono a fare questa scelta, a combattere una guerra civile tra tedeschi sui vari fronti
dell'Europa, dovettero unirsi alle bande locali e spesso banalmente andare a cercarle. In alcuni
casi, come in quella di Jacobs, c'erano stati dei contatti, insomma è stato un processo di
avvicinamento, anche perché lui era una figura di spicco tra le forze d'occupazione, però in
molti altri casi racconta un paio di episodi in cui uno zanna in spalla, fucile a tracolla,
va a cercare i partigiani per unirsi, rischiando peraltro tantissimo. Mentre noi sappiamo che le
formazioni avevano, anche lì dipende da caso per caso, però avevano una fortissima componente
locale, perché uno andava a combattere, soprattutto i più giovani, dove viveva, dove si
trovava e chiaramente poi ci sono i soldati sbandati, ci sono gli alleati, ci sono tante
altre componenti. Però, come dire, ripeto, colpisce il fatto che questa motivazione,
anche solo embrionale, in alcuni casi anche magari per scelta di comodo, comporta il dovere
andare a cercare dei partigiani allofoni, che parlano un'altra lingua, e a chiedere se posso
unirmi a voi. Tu hai parlato giustamente, hai citato giustamente Claudio Pavone, una delle
letture più lucide del suo Una guerra civile, di quello che furono i mesi 43-45. Pavone,
giustamente al mio modo di vedere, divide questa serie di scontri in tre grandi, dopo i tre grandi
luoghi di narrazione e di analisi, la guerra civile, la guerra patriottica e poi la guerra
di classe. Nel caso della guerra patriottica abbiamo appunto anche lo scontro, per quanto
riguarda la resistenza italiana, tra due letture diverse dell'italianità e di accuse di
antitalianità. Approfittando di questo ti chiederei, saltando il fosso e appunto andando a scoprire
e a vedere queste bande partigiane che a un certo punto vengono trovate, scovate, da gente come
Rudolf, qual è l'impatto di immagine e anche di costruzione dell'immaginario del nemico,
se lo hai potuto ricavare nei tuoi studi, che hanno questi tedeschi, raffigurati ovviamente
a livello propagandistico come dei duri e puri nella cattiveria, e questo sarà anche molto
molto spesso dopo la fine della guerra, anche a livello veramente cinematografico, come è l'impatto
di scoprire che anche i rappresentanti dei cattivi, ad un certo punto alcuni quantomeno,
arrivano e cercano di combattere la tua stessa battaglia, cioè quella per la libertà, che impatto
hanno questi disertori della Wehrmacht nelle file della resistenza, come vengono accolti,
se vengono accolti e che ruolo poi riescono a ritagliarsi. Ma sollevi il problema delle etichette
per usare appunto un'espressione meravigliosa che si incontra in educazione europea di Romain
Gris, che io cito, lui racconta questo episodio, il suo romanzo però ambientato nelle foreste
dell'Europa orientale occupata, e a un certo punto questo giovane studente partigiano racconta di
questo tedesco che si presenta in banda e dice vorrei unirmi a voi, e loro lo fucilano, perché
non si fidano, e questo studente dice lo sapevamo tutti che era un puro, ma aveva l'etichetta,
era un tedesco. Chiaramente, insomma, questo è un esempio finzionale, ma che ne rappresenta molti
di reali, chiaramente nell'epoca delle etichette, nell'epoca in cui trasborda il senso di nazionalità,
appunto il senso di appartenenza legato ai confini nazionali, alcune etichette, quelle in particolare,
dal punto di vista della resistenza, sono molto pregnanti e peraltro corrispondono anche in gran
parte al vero, nel senso che il nazismo ha goduto di ampio consenso, mettendo tra regolette il consenso,
per cui ci sono dei legittimi sospetti, poi io racconto anche dei dolorosissimi casi, perché
dal punto di vista loro e mio, che io insomma, in qualche modo ammiro tantissimo, sono particolarmente
dolorosi, di tradimenti, infiltrazioni, questi esistono, tutte le parti in campo mettono
sul piatto il doppio gioco, per cui in alcuni casi ci si fida e si viene traditi, in molti altri
casi no, anzi, tanti, insomma, tra i pochi che fanno questo gesto, si contraddistingono
poi per delle scelte particolarmente eroiche, lo stesso Jacobs guida una missione particolarmente
ardita, quella nella quale perde poi la vita, e per cui il fatto di avere tra le proprie fila
è veramente, questo c'è in tutte le regioni, in moltissime formazioni dei tedeschi o degli
austriaci, è un motivo di vanto, è un motivo di vanto tant'è che, perché poi ci sono arrivati
anche gli storici, battaglia in primis, ma ci sono anche delle fonti coeve che dicono
ogni uno dei combattenti strappati al nemico vale due, perché uno in più per noi e uno in meno per
loro, in più c'è anche la dimensione diciamo propagandistica, come si diceva all'epoca,
nel senso che comunque, la fase alterne, ma le resistenze chiamano i tedeschi a disertare,
li chiedono di disertare e di unirsi a loro, e i più lucidi, soprattutto ovviamente tra i quadri
della resistenza, sono ben consapevoli di essere fratelli del tedesco anti-hitleriano e nemici
irriducibili dell'italiano fascista, a proposito della guerra civile dei Pavone. Io anche per
questo, insomma, prudentemente, sommessamente, ipotizzo che forse sarebbe il caso di aggiungere
le famose tre guerre di Pavone, che hanno cambiato la storia sulla resistenza, appunto una quarta
guerra, con una guerra ideologica internazionale che su tutti i fronti va in scena. Appunto,
lo schivo anche, come dire, do anche quest'immagine che ho accennato prima, che è venuta fuori
nitidamente parlando con Giovanni Carletti, e cioè che noi abbiamo sempre pensato a Wiest
anti-tedesco, cioè alla galassia delle resistenze tedesche, come qualcosa fondamentalmente di
mai armato, fatti salvo i vari tentati tirannicidi, che sono tanti, quando in realtà, se poi
allarghi lo sguardo sull'Europa, perché di fatto l'Europa è diventata un'immensa Germania,
su tutti i fronti ci sono migliaia di tedeschi austriaci che imbracciano le armi e combattono
contro altri tedeschi austriaci. Per cui esiste la resistenza armata in maniera non
così dissimile dalle resistenze armate italiana, francese, polacca, jugoslava, ovviamente facendo
sempre le debite e proporzioni, e forse sarebbe il caso di iniziare a riconoscerlo. Oltre
al fatto che, e ti rido la parola, il senso comune raramente percepisce questo dato, e
cioè che sulla nostra penisola, limitandoci appunto alla storia della resistenza in Italia,
si combattono parecchie decine di nazionalità, quelle inquadrate dai tedeschi, quelle nelle
forze alleate e le almeno 50 nazionalità che compongono la resistenza italiana. Per
cui senza, a quale vada, non fatico a immaginare che ci siano almeno 100 nazionalità diverse
che si combattono sul territorio italiano. Non le ho censite una per una, però mi ripropongo
di farlo.
Sì, una guerra internazionale, esatto, una guerra ideologica internazionale che, se vogliamo,
non ci sta nei confini della Seconda Guerra Mondiale, straborda soprattutto nel prima,
possiamo pensare che la guerra civile spagnola in qualche modo sia, da un certo punto di
vista, un prodromo dello scontro internazionale ideologico, soprattutto tra i due grandi sistemi
totalitari tedesco-italiano, quindi nazi-fascista e quello poi staliniano da una parte, ma dobbiamo
dire che questa guerra internazionale, un po' anche come la guerra civile degli italiani,
non finisce il 25 aprile 1945, non finisce neanche il 9 maggio 1945, ma ha degli strascichi,
quantomeno ha degli strascichi non sulla storia, ma sulla memoria dei paesi. Per quanto riguarda,
se ne hai contezza e se sei riuscito a inquadrare il tema, immagino che il tuo libro, so anzi,
che il tuo libro sta facendo rumore non solo in Italia, ma anche in Germania e sono molto
felice di ciò. Dita incrociate. Per quanto riguarda la memoria di ciò che sono stati
i disertori della Wehrmacht, quelli che sopravvivono, come vengono accolti e che vita fanno in una
Germania occidentale, soprattutto perché per la Germania orientale le cose sono, come sappiamo,
molto più complicate. Com'è la vita dei partigiani che se ne tornano a casa dopo la fine del Terzo
Reich? Vengono accolti male e fanno una vita non facile, peraltro se rimangono a vivere lì,
perché poi sono vari casi, ovviamente non ho una dimensione quantitativa esatta né per
quanto riguarda l'Italia né tanto meno per quanto riguarda le resistenze europee, però insomma a
campione ti posso dire con certezza che un numero rilevante di loro poi o emigra o torna addirittura
a vivere nei luoghi in cui ha combattuto, dove viene da vivo in questo caso adottato, appunto,
nei luoghi in cui ha scelto di combattere per un'idea di umanità inclusiva e non appunto legata
a principi di razionalità. Guarda, io ne approfitto qua per ringraziare, ho otto
pagine di ringraziamenti nel libro, so che è un'anomalia, ma veramente avevo un immenso
bagaglio di gratitudine e in particolare appunto i colleghi amici, Tommaso Speck e Gianluca Falanga,
che sono italiani di nascita ma berlinesi da decenni, mi hanno aiutato a capire,
vivendo anche loro lì, quanto questo del passaggio nemico sia tuttora fondamentalmente
un tabù. C'è stato un percorso di riabilitazione culminato nel 2009 in Italia, in Germania e in
Austria, dei disettori ma in quanto vittime della giustizia nazionale socialista,
poi nell'ultima fase sommariamente assassinati dove capitava, e per cui loro in effetti sono
stati riabilitati, ma appunto nel senso comune, noi che ci occupiamo tanto di storia pubblica,
di memoria pubblica, nel senso comune fondamentalmente è un tema che rimane
molto scottante. A me colpisce, forse abbiamo una prospettiva anche diversa,
però colpisce perché fondamentalmente se ci pensi, e sono cose che condividiamo,
il pantheon dell'Europa Unita e di un mondo più aperto possibile dovrebbe essere,
in gran parte è, appunto nella resistenza ai fascismi. Il fatto che all'interno della
resistenza ci fossero persone che hanno scelto questa strada, che era quella più insalita di
tutte, dovrebbe renderli proprio degli eroi europei. Cioè noi dovremmo avere, non so,
i palazzi delle istituzioni europee a loro intitolati. Non solo in Europa, anche in Germania.
Qualcosa c'è in Germania, c'è da decenni, però rimane una memoria, per così dire,
molto marginalizzata. Spero che nei prossimi anni ci sia una svolta anche in questo senso,
anche in Germania. Sì, assolutamente. Sono d'accordo sull'idea anche un po' balzana che
questa Europa che loro hanno contribuito a costruire, senza retorica con il proprio sangue,
parlo dei partigiani di tutta Europa, ovunque si trovassero, qualsiasi giacchetta avessero
smesso e avessero rimesso, non siano parte integrante di un racconto pubblico dell'Europa
di oggi, evidentemente. Anzi, al contrario, l'Europa post-bellica è stata in gran parte
ricostruita da quelli che riuscirono a togliersi velocemente la giacchetta prima che il mondo
crollasse e a riciclarsi in vari modi. Questo ovviamente nel caso italiano è abbastanza noto
a tutti, ma in generale in Europa diciamo che il post-occupazione nazista ha avuto un enorme
scaricabarile sui fuggitivi che se ne stavano ritornando al proprio paese e un'enorme rilavatura
della propria coscienza pubblica e privata e ricostruzione di paesi interi che hanno
dimenticato quel momento. A proposito di dimenticare e a proposito di memoria,
noi prima abbiamo parlato, io prima avevo accennato al fatto che il tuo libro meritoriamente è un cono
di luce, un faro, un occhio di bue puntato sul luogo della storia di questo paese e della storia
della resistenza di questo paese per molto tempo lasciato in ombra. Domanda non da storico,
ma da appassionato di evoluzione memoriale. Secondo te quanto ha pesato in Italia in questo
caso la condanna e il dimenticatoio di queste figure in un'ottica di, e ritorniamo a uno dei
temi che ci è cari a entrambi, diciamo, e cari a molti degli studiosi che si occupano della storia
italiana dell'ultimo secolo, quanto c'è di tentativo di proteggere l'immagine dura e pura
dell'italiano brava gente, quindi volendo escludere anche dal movimento resistenziale
tutto quello che non poteva essere ridotto in purezza ad un ideale italico, diciamo, di passione.
Questi disertori tedeschi della Wehrmacht hanno patito forse nella vulgata e nel racconto e anche
nella vulgata post resistenziale un'ad amnazio memoriae dovuta al fatto che dovevano essere
gli italiani a rappresentare se stessi come liberatori di se stessi, solo gli italiani?
Assolutamente, ovviamente bisogna bilanciare molto l'intenzionalità e gli effetti in qualche modo
del pilota automotico, scusa l'immagine molto nazional-popolare, nel senso che è evidente che
si tratti di... Sì, sì, infatti, scusa perché in realtà dovresti usarle tu, ti ho un po' rubato il
mestiere. No, sono evidentemente due stereotipi che vivono l'uno dell'altro, considerando che
l'Italia fascista e la Germania nazista erano fedelissimi alleati l'uno dell'altra, che dopo
varie campagne militari, penso soprattutto ovviamente alla Spagna, sostenute o addirittura
fatte insieme, hanno scatenato la guerra sul continente, per tre anni l'hanno combattuta
insieme, non solo sul continente ovviamente. A quel punto è chiaro che con tutto quello che
accade nei 45 giorni, nei 43, cioè dalla caduta del fascismo all'occupazione e all'inizio della
resistenza, è evidente che in Italia c'è un movimento, una cospicua minoranza che prende
le armi e si vuole liberare del fascismo e dell'occupazione e che per cui è anche nei
suoi interessi come dire spingere sul tasto di quell'impegno che c'è in effetti stato. Poi i quadri
della resistenza in molti casi venivano da anni e anni e anni di clandestinità, di esilio, di galera,
di confino, di Spagna, per cui insomma l'idea che ci fosse un'altra Italia era reale ed era giusto
insistere su questo, ma sicuramente ha messo un po' in ombra appunto la nutritissima partecipazione
internazionale alla resistenza italiana. C'è ovviamente anche la mala fede, nel senso che è
chiaro che se tu ragioni, come dire, attribuisci caratteri eterni e immutabili ai popoli, per cui
i tedeschi sono quelli che hanno generato il nazismo e hanno scatenato la seconda guerra
mondiale e dunque gli italiani loro malgrado, ovviamente sto virgolettando un ipotetico
giustificazionista, loro malgrado si sono trovati a combattere quella guerra che nessuno di loro
voleva fare e poi infatti non appena hanno avuto l'occasione hanno cambiato strada. Ti faccio un
esempio sicuramente un po' scomodo, non è facile neanche da dire, però basti pensare alla campagna
di Russia, alla mitologia che si è fatta sulla campagna di Russia, ricordiamo che l'Italia
affianca la Germania Nazista in un'operazione barbarossa, uno degli attacchi militari più
devastanti della contemporaneità e poi un numero sicuramente importante di quei combattenti italiani
mutorevelli su tutti ovviamente, lo ricito, una volta tornato, maturo una scelta probabilmente
già lì, una volta tornato insomma, ma rispetto a come dire a centinaia di migliaia di italiani
che in quegli anni e in generale hanno fatto le guerre fasciste è una piccola minoranza,
gli altri le hanno fatte, alcune con convinzione, altre perché hanno obbedito agli ordini, insomma
ovviamente non sta mai a giudicare, però la mitologia dell'italiano buono trascinato in una
guerra che non voleva e che fondamentalmente è sempre stata una forza d'occupazione molto umana
è totalmente falsa, lo sappiamo dalla Libia, lo sappiamo dall'Etiopia, lo sappiamo anche grazie
al tuo libro appena uscito per Bollati, che ovviamente si appogge su decenni di ricerca
del Bocca, di la Banca e di tanti altri che ne hanno scritto in questi decenni, lo sappiamo
per la Grecia, per la Jugoslavia, per l'Unione Sovietica, gli italiani hanno partecipato a una
guerra d'aggressione cercando di crearsi il loro impero mediterraneo e non solo,
sono stati feroci e spietati e non staremmo certo qua a fare come dire la gradazione della ferocia,
una parte di loro, esattamente come una parte dei tedeschi, poi ha cambiato idea, non è mai
stato di quell'idea, ricordiamo che i tedeschi internati nei lagri mezzi si stima fossero circa
un milione, per cui di nuovo stiamo parlando di grosse minoranze, minoranze evidentemente,
ma grosse minoranze, allora forse dando una spallata a uno stereotipo, pur mettendolo sempre
in proporzione, la darebbe all'alto, credo insomma almeno, questo non è un obiettivo dichiarato,
ma credo che emerga come effetto collaterale del mio lavoro. Sì, sono perfettamente d'accordo,
a proposito del tuo lavoro e stacchiamoci un attimo dagli argomenti di questo libro e veniamo
a una domanda che mi premeva farti. Io ti seguo da un po', diciamo, e ti ho visto spaziare a livello
di elaborazione scritta su molti piani, dalla letteratura per ragazzi, all'assaggio critico,
all'assaggio di sintesi, e ho trovato il Buon Tedesco ad un punto di maturità molto particolare,
correggimi se sbaglio. Il Buon Tedesco racconta una storia, una serie di storie, ma è anche in
qualche modo, almeno io l'ho letto così, una pietra inserita all'interno di un percorso,
una pietra migliore inserita all'interno di un percorso, che vuole in qualche modo costruire
una metodologia di ricerca barra divulgazione storica, specifico meglio. In Italia, nel nostro
Paese, il termine divulgazione ha un'accezione negativa, cosa praticamente unica nella storiografia
internazionale, penso alle grandi storiografie come quell'anglosassone che fanno della capacità
di estendere i temi della conoscenza e della storiografia ad ampi strati della società,
come di un punto d'onore e di qualità. Oggi, diciamo che i libri come il tuo possono insegnare
una cosa molto interessante, cioè che si può scrivere bene di storia scrivendo una
bella storia. Carlo Greppi, il Buon Tedesco è anche un manuale travestito di metodologia
della ricerca storica ad uso della comunicazione per il nuovo millennio? Domanda.
Una risposta da dare è un po' ambiziosa. Facciamo uno svelamento per chi non lo sapesse,
insomma non è assolutamente un segreto. Francesco e io siamo amici, innanzitutto ci vogliamo bene
e condividiamo, come tutte le sfumature, che per fortuna siamo due individui a loro stanti,
condividiamo anche un'idea di fondo della storia e della storiografia, che da un lato prevede un
impegno molto sentito, molto vivo nel dibattito pubblico, e entrambi lo facciamo tanto, comprese
le scuole, qualunque luogo in cui si possa discutere di storia non addette ai lavori,
ovviamente discutiamo anche con addetti ai lavori, e dall'altro chiaramente condividiamo
appunto questa grande passione, se ti metto in bocca a parole o non tu, fermami, per un nuovo
modo possibile di raccontare la storia. Io credo, se no non lo farei, poi nei miei libri ho
sperimentato tanto, però forse sono arrivato a un punto, che non è ovviamente un punto finale,
però è un punto in cui mi sento molto solido nelle mie convinzioni, credo che ci sia da recuperare
un rapporto da un lato più narratologico, fammi dire, e dall'altro più schietto con la documentazione
su cui lavoriamo. Io quello che cerco di fare in un libro, che comunque c'è a fondo testo,
però non disturba un lettore non specialista, però credo ha oltre 700 note, molte sono fonti
primarie, ci sono documenti, sono anche fonti d'archivio, ho cercato di accompagnare il lettore
sia nella storia e sia nella mia ricerca, mettendo proprio in scena i miei dubbi, le mie domande,
gli inciampi, gli errori, i vicoli ciechi, senza spero esagerare, però mostrando come ogni ricerca
in qualche modo arrivi a dei punti fermi, ma ti porti anche da parti che non immaginavi di
dover percorrere e non sempre ci sono delle risposte. Le fonti ci dicono di loro quello
che vogliono dirci, di molte scene, personaggi, episodi o processi rimangono poche fonti,
noi non siamo abbastanza bravi a trovarne abbastanza, perché poi può anche esserci
quello. Spesso ci sono dei colpi di scena, spesso delle fonti ovviamente si contraddicono. Credo
che questo sia tutto materiale narrativo, che credo sempre anche molto in una visione pedagogica
della storia, la storia che insegna a noi, non è che necessariamente noi dobbiamo usare la storia
per insegnare. La storia ci insegna che la conoscenza è una materia complessa, per cui non
si può mai arrivare a una verità, ci si può approssimare, non siamo dotati della capacità di
viaggiare nel tempo, di poter osservare in prima persona quello di cui scriviamo, di cui parliamo,
per cui la nostra conoscenza è molto mediata. Faccio un esempio su tutti per tornare sul libro,
un esempio facile, su Jacobs abbiamo tante fonti rispetto a molte altre vite dello stesso periodo,
non abbiamo accesso ai suoi pensieri perché che mi risulti, potrei sbagliarmi, almeno al momento,
allo stato dell'arte, di lui abbiamo solo una cartolina scritta di suo pugno. Tutto il resto,
io credo che a leggere il mio libro si abbia poi un po' la sensazione di conoscerlo Jacobs. Rimane
un dato che non abbiamo un suo diario, non abbiamo una sua intervista, non abbiamo accesso al suo
punto di vista personale su questi eventi. Questa io la chiamo sempre la nostra meravigliosa forma
di costrizione, cioè noi siamo incardinati, a doppia mandata, alla materia che utilizziamo.
Io credo che uno storico o una storica debba in qualche modo dialogare col proprio lettore,
mostrandogli anche come lavora e su cosa. Una sorta di operazione a cuore aperta,
ecco questo ci credo fortemente. Poi ci sono tantissimi modi per farlo, non penso che il mio
sia quello giusto assolutamente, dalle note agli apparati al dichiararlo nel testo, a scelte
espositive che neanche riesco a immaginare, però penso che sarebbe un passo avanti per
la storiafia se passasse questa questione, farmi usare la parola difficile, epistemologica.
Sarebbe importante, penso. Siamo stati fin troppo polite,
dottor Greppi, questa sera. Probabilmente qualcuno all'ascolto si aspettava più pop
corn e invece siamo stati molto tranquilli. È per questo che ti faccio quella che potrebbe
essere l'ultima domanda, cioè quella che ci riporta alla realtà dell'oggi. La domanda di
solito da cui poi fioccano querele. Benedetto Croce diceva che tutta la storia è storia
contemporanea. Carlo Ginzburg, commentando Croce, dice, dal mio punto di vista giustamente,
che tutta la storia è storia comparata, cioè in un rapporto dialettico evidentemente tra chi
guarda il fatto storico e quello che il fatto storico racconta di generazione in generazione,
con un cambio evidente di prospettiva, alla società che si rivolge alla storia per avere
delle risposte o per avere una memoria. Oggi evidentemente con operazioni interessanti,
varie e fortunate, cito su tutte visto che sei qui e ne sei curatore della collana di la terza
fact-checking, oggi in molti casi, in molti momenti c'è una tentativa, una volontà di
rileggere i fatti storici che ricordiamocilo, stante la capacità di trovare nuove fonti
d'archivio sono per lo più scritte ed immutabili, cioè che la seconda guerra mondiale qualcuno
l'abbia vinta e qualcuno l'abbia persa è inamovibile al momento, però il rapporto che
si ha con determinati fatti storici, quindi la costruzione di una memoria che chiamerei pubblica,
io vorrei capire se anche grazie a prodotti come quelli che l'editoria italiana e in generale
continentale sta producendo, si possa in qualche modo analizzare un cambiamento nel rapporto delle
nostre società con la propria memoria e quindi in seconda ordine con la propria storia, ovvero
siamo ad un punto di svolta nella relazione con il nostro passato dopo qualche decennio di
complessità nel rapporto dialettico che molte società, penso a quella italiana, ma so per
certo che è una cosa che accade praticamente in tutto il continente, pensiamo all'impropriamente
definito movimento della cancer culture, pensi che ci sia un punto di svolta nel modo in cui
gli esseri umani di oggi si stanno ponendo nei confronti di un passato che come sappiamo non
è mai definitivamente scritto, accertato e definito verità? Penso di sì, penso che sia
una grande opportunità, come dire eviterei appunto coloro che usano argomenti tipo e questi votano
per capirci, anche qua scusa se vado un po' sul tuo campo, no a parte gli scherzi penso che sia
una grande opportunità perché dall'avvento dell'internet in effetti c'è una democratizzazione
del senso comune ma proprio come qualità di emittenti tutti possono, come dire, immetterne
il dibattito pubblico la loro visione della storia locale, nazionale, continentale o globale e questo
pone secondo me due ordini di problemi che ovviamente si parlano moltissimo. Il primo è
quello legato appunto alla dimensione fattuale della storia e l'operazione fact-checking ma anche
i tuoi libri credo che siano, come dire, di cui uno è parato per dentro fact-checking, credo che
siano un ottimo esempio di come si può provare a stare sulla dimensione fattuale e cioè a fare
dei libri in questo caso che, come dire, segnando, sottolineando qual è lo stato dell'arte, lo stato
delle conoscenze su un determinato argomento, non lo danno come dire per acquisito per sempre,
però esiste una stato delle conoscenze di un determinato argomento dunque esiste un nucleo
fattuale che gli storici hanno imparato a conoscere e intorno a quello si può si può dibattere, non è
che valgono tutte le posizioni, appunto non si può prescindere da quello che sappiamo essere
accaduto. Dall'altro c'è una richiesta, so che dobbiamo andare a chiudere per cui lo dico in due
frasi, una richiesta di diritto di cittadinanza nella storia locale, nazionale, continentale e
globale da parte di chi è tradizionalmente stato escluso dalla scrittura della storia ed è più che
legittimo, anche se questo dovesse significare arrivare a tirar giù una statua per essere molto
diretti e non si può buttare sempre in vacca questo tipo di pretesa. È evidente che la storia
è sempre stata scritta da maschi bianchi potenti, è evidente, questo ci riguarda anche in quanto
maschi bianchi ed europei, come dire ci dovremmo mettere anche noi in discussione sotto questo
aspetto ed è altrettanto evidente che c'è un problema, ma basta prendere in mano un manuale
rispetto a tutti coloro che sono state tradizionalmente escuse dalla scrittura
della storia. Per cui sono due istanze, quella di poter intervenire nel debatte pubblico e
quella di poter essere nei libri di storia, entrambe più che legittime, poi di volta in
volta bisogna valutare insomma come vengono portate avanti, che tipo di reazioni suscitano,
però appunto credo che abbiano ampiamente diritto di cittadinanza in entrambi gli aspetti.
Grazie mille, ti rubo gli ultimi 30 secondi telegrafici perché so che fermo non sai stare,
quindi se si può dire cosa bolle in pentola per il prossimo futuro Carlo Greppi, progetti per il
2022? Allora i miei progetti personali ancora non si possono dire diciamo a livello di saggistica,
ma sono in uscita con la terza con un manuale che esce all'inizio del 22, firmato da me,
Caterina Ciccopiedi, Valentina Colombi e Marco Meotto, che è un manuale che tenta di segnare
una svolta anche nella manualistica rispetto a come raccontiamo la storia, di cosa parliamo,
di cosa non parliamo, come trattiamo le fonti, insomma molte delle discorse che abbiamo fatto
centrano. È una cosa, insomma, forse un po' un azzardo, però ci crediamo moltissimo e speriamo
che funzioni. E poi a proposito di fact checking, posso annunciare, l'ho già fatto in una diretta,
sempre la terza, lo rifaccio volentieri con te, che a inizio marzo uscirà di Gianluca Falanga,
lo citavo prima, Nessuno parla mai del crimine comunismo, che è un libro meraviglioso,
che forse nessuno si aspetta in fact checking, considerato banalmente i titoli che abbiamo
fatto finora, ma invece è fondamentale fare questo libro ed è meraviglioso, secondo me,
anche per la serietà con cui affronta questo problema. Per cui ne approfitto per fare l'in
bocca al lupo a Gianluca, che ha fatto veramente una gran cosa. Cose belle, cose belle, e a proposito
di cose belle, Carlo Greppi, buon tedesco, la terza 2021, sì, è una cosa bella di quest'anno.
Grazie Carlo, grazie a tutti e a tutte per essere con noi. Grazie a Casa La Terza per l'accoglienza,
un saluto a tutti a tutti voi e buono sveglio. Grazie a Dario per la regia. Grazie Dario.