'La relazione terapeutica' di Antonio Semerari
Dunque, innanzitutto vorrei dire che mi ha fatto molto piacere questo invito a discutere
con Antonio Semerari riguardo al suo ultimo libro, che è La relazione terapeutica, storia,
teoria e problemi, che è questo che ho qua di fronte, pubblicato dalla Terza, perché
considero Antonio Semerari veramente un autore, un terapeuta, non so come chiamarlo, poi dirò
una definizione di Antonio, veramente rara e importante nel panorama della psicoterapia
italiana. Il libro, innanzitutto, potrei dire molto semplicemente qualcosa sul libro, parlando
anche dell'indice, è una storia del concetto di relazione terapeutica analizzato da tanti
punti di vista, poi vedremo meglio quali, magari anche Antonio potrà aggiungere e spiegare meglio,
in diverse tradizioni psicoterapeutiche e anche dal punto di vista storico, per esempio inizia
del magnetismo, della suggestione, di Jeannet, di Freud, parla del transfert, parla della
psicoanalisi, parla della psicoanalisi relazionale, cioè la svolta relazionale,
parla anche di Sullivan, della scuola Sullivaniana interpersonalista americana,
di Hatchen e Rogers e queste sono le prime due parti. La terza parte, che ho proprio appena
letto oggi pomeriggio perché mi interessava molto, non l'ho finita ma quasi, ha due capitoli e parla
della psicoterapia come scienza, cioè di tutti i complessi problemi riguardo alla questione della
scienza, della ricerca empirica, della validazione, delle varie teorie, delle varie correnti che ci
sono di pensiero in questo campo. Poi c'è la quarta parte che è incredibile perché prende in
assegna diverse teorie e autori che sono il rilenco Beck, quindi la terapia cognitiva
classica, Safran e Muran, le terapie cognitive, Kohut e Kernberg, quindi due autori psicoanalitici
importanti, poi Beethoven e Vonneghi, altri psicoanalisti che parlano della questione
della mentalizzazione. Poi l'approccio del terzo centro dove Antonio Semerari lavora ed è impegnato
da tanti anni in varie ricerche, poi parla della Linehan che è una collega cognitivo
comportamentale che ha sviluppato un approccio chiamato DBT per il Broderline, poi infine il
capitolo sugli otti che era nostro comune amico e che per me è interessantissimo quest'ultimo
capitolo. Poi ci sono le conclusioni che Antonio suggerisce di leggere all'inizio del libro,
anche io l'ho letto all'inizio, dove parla della struttura del suo pensiero, di come affronta i temi
che sono precisamente la teoria dei fatti, la teoria della cura e la teoria della tecnica.
Questi tre, poi c'è la teoria del soggetto, questo è un tipo di modo di classificare le cose che
descrive. Mi ero proposto anche di accennare, prima di entrare nel merito del libro e di dire
alcune cose. È il libro precedente che ha scritto Antonio, che risalgono già dagli anni 80, alcuni
dei quali avevo letto, mi ricordo, e le avevo anche segnalati, recensiti sulla rivista che adesso
dirigo che è Psicoterapia e Scienze Umane. Un libro scritto con Francesco Mancini, nell'85,
La Psicologia dei Costrutti Personali, scritto di Kelly, poi un altro sempre con Mancini,
Le teorie cognitive dei disturbi emotivi, del 90, della NIS. Poi il libro che io lessi e recensì,
mi ricordo, che sono i processi cognitivi della relazione terapeutica, del 91. Poi un libro curato
da lui sulla psicoterapia cognitiva del paziente grave, quindi sulla metacognizione e relazione
terapeutica del 99. Poi un altro libro di la terza, Storia, teoria e tecnica della psicoterapia
cognitiva, che io mi ricordo lessi e recensì allora, libro del 2000, di vent'anni fa. Poi c'è
un libro curato insieme a Di Maggio, I disumini di personalità, modelli e trattamento, tradotto
anche in spagnolo. Poi c'è il libro molto noto, molto bello, su Dostoievski, Delirio di Ivan,
Psicopatologia del caramazzo, sempre pubblicato dalla terza del 2014. Poi un altro libro scritto
con Carcione e Nicolò, Cuorà dei casi complessi. Poi un libro pubblicato da Erickson sul narcisismo
del 2018, un libro del 2019 sul ritiro sociale con Procacci. E questo qua, ultimo, chiamato
La relazione terapeutica, storia, teoria e problemi. Questo per dare un'idea delle tante
cose che ha fatto e tanti libri che ci ustono e invidiano. Infatti, come dicevo poco fa ad Antonio,
l'ho incolpo di avermi provocato sentimenti di grande invidia leggendo questo libro, perché non
è comune vedere un autore che spazia così tanto tra tanti approcci diversi, non solo quelli
cognitivisti che sarebbe il suo campo, ma anche psicoanalitici, e conosce abbastanza bene tanti
aspetti della psicoanalisi al punto che io quando leggevo queste parti imparavo delle cose anche su
argomenti di cui mi ero interessato approfonditamente io stesso. Infatti, non verrebbe da dire che
Antonio Semerari non è un cognitivista, lo definirei soprattutto uno studioso. Sarebbe
riduttivo dire che è un cognitivista, se lui si occupa del cognitivismo o della metacognizione,
del tipo di ricerca che ha fatto. Proprio uno studioso della psicoterapia in generale. Gli
interessa molto gli aspetti teorici, storici, gli interessa guardare e paragonare approcci
diversi, capire cosa c'è dietro ai problemi. Leggendo questo libro, io ho provato un affetto
di disorientamento, in questo senso che faceva capire la complessità dei problemi che ci sono
nel nostro campo. Spesso ho questa impressione, quando sento parlare dei colleghi o delle
affermazioni sulla psicoterapia, anche su un caso clinico, non sono mai soddisfatto. Mi
sembra che certe affermazioni non hanno senso, devono essere spacchettate in tante altre
affermazioni, in tanti altri problemi che a loro volta ne aprono altri. Per cui è estremamente
complesso riuscire a capire, ad afferrare, a capire come vedere un problema, o diciamo così,
parlando di un paziente, come vedere un dato clinico. Ogni situazione clinica la possiamo
vedere da tanti punti di vista, secondo delle teorie che conosciamo, tra l'altro, che conosciamo
noi, perché se uno ne conosce una o due, vede solo quello che vuole vedere lui. Le più cose
conosciamo, vediamo la complessità che c'è dietro a ogni affermazione che possiamo fare nel nostro
campo. E questo è l'aspetto che a me affascina, perlomeno, che questo libro mi ha molto rievocato,
rende bene l'idea della difficoltà a concettualizzare in modo semplice qualcosa.
Perché, per esempio, c'è il vecchio problema in psicoterapia secondo il quale abbiamo parole
diverse per descrivere gli stessi fenomeni, gli stessi fatti, direbbe Semerari, e quindi queste
parole diverse sono uguali o sono un po' anche diverse come concetti, illuminano qualcosa di un
po' diverso, perché di fatto usiamo parole diverse. Uno stesso paziente, il miglioramento di un
paziente, per esempio, si può spiegare in modi talmente diversi tra di loro, da tanti punti di
vista. Nel libro viene detto bene, per esempio, quando parla di Rogers, come lui spiega perché
un paziente cambia, quando parla della psicoanalisi, le cose che... ogni teoria vede le sue cose,
vede solo quelle volte, quindi restringe il campo, fa una produzione di riduttivismo che è dannoso
di fatto. Questo è un discorso filosofico, tra l'altro è una delle tante domande che vorrei
fare a Antonio, cioè come facciamo a vedere un dato, la realtà, perché a seconda della lente,
degli occhiali che usiamo, vediamo solo una cosa e non vediamo un altro. Questa è una cosa che mi
ha sempre affascinato. A parte questo, vorrei dibuttire alcune cose sul libro, prima di tutto
che vorrevo dire. Innanzitutto è un pregio del libro che è comune a tutti gli altri libri di
Antonio che ha scritto molto bene, cioè è scorrevole e si capisce quello che lui dice sempre.
Questa è una cosa che ho sempre apprezzato. Mi ricordo che quando lessi l'ultimo libro che
recensi, quello sulle teorie, forse l'avevo anche scritto nel riciclo, non mi ricordo,
l'ho detto a qualcuno. È quel tipo di libri che quando li inizio devo finirli,
cioè vado avanti, non li smetto. Invece quando leggo un libro quasi sempre lo smetto dopo un
po'. Non perché sia brutto, ma perché è così. Mi piace leggere alcune cose, passare ad altre,
invece di quello che mi cattura devo andare avanti. Questa è una cosa molto bella.
Il fatto che lui, non è affatto comune nel mondo cognitivista, secondo me, ma neanche ancora meno
in quello psicoanalitico, si interessa non di un filone, ma di tanti filoni della psicoterapia.
Questo è una delle cose principali. Questo libro qua, poi ho un'altra soluzione che volevo fare,
sembra un trattato sulla relazione terapeutica. In effetti parla della relazione, però in realtà
potrebbe essere anche un trattato di psicoterapia, non è solo sulla relazione,
perché dietro alla relazione c'è tutto. Cioè, la relazione che cos'è nella psicoterapia? Funziona
in che modo? Come la si concettualizza? Funziona perché serve, questo lo dice moltissimo nel
libro, serve la relazione a permettere degli interventi specifici, cioè a permettere la
psicoterapia? Oppure la relazione è essa stessa la psicoterapia in quanto funziona,
in quanto relazione, in quanto esperienza umana? Quindi paradossalmente da fattore,
a specifico diventa specifico. La relazione è un fattore specifico, secondo certe scuole,
perché è essa stessa la terapia. Permettere un'esperienza con lo terapeuta fa fare dei passi
avanti al paziente. C'è tutto l'approccio umanistico che sostiene questo, penso però anche
tutti, anche la psicoanalisi e anche altri approcci sono arrivati a sostenere questo. Questo non è
una dicotomia, è così o è cos'è? E' sempre così, la relazione è sempre mutativa,
sempre terapeutica, c'è sempre un aspetto anche suggestivo, cioè il placebo, questa è una cosa
che piace molto a me a dire, che la psicoterapia è placebo, nel senso che è la scomposizione
scientifica dell'effetto placebo per massimizzarne l'effetto. Il placebo c'è sempre nella
psicoterapia, è inevitabile come c'è nei farmaci, è parte della psicoterapia, solo che noi lo
sappiamo, cioè avvengono altre cose oltre a quelle che noi facciamo, che noi non conosciamo,
incomprensibili del tutto, però ci sono nella relazione che migliorano l'efficacia della
terapia. Quindi c'è sempre la terapia più il placebo, detto così genericamente. Per esempio
Freud diceva che il suo grande obiettivo era quello di eliminare l'aspetto placebo, l'aspetto
suggestivo, ma rendere tutto comprensibile all'interno della psicoanalisi e quello di
analizzare la suggestione. Lui era nemico della suggestione, voleva proprio afferrarla fino in
fondo. Secondo me non è possibile del tutto. Non vorrei parlare troppo, ma mi piacerebbe che
parlasse Antonio e che anche per l'utilità di che ci ascolta. Vorrei fare una domanda,
non so, puoi dire anche le tue riflessioni su quello che ho detto, ma aggiungo una domanda
che è molto provocatoria o ingenua, ma forse una domanda nella quale molti ascoltatori si
identificheranno, che è questa. Dopo tutte queste tue riflessioni molto interessanti,
su tutte queste tecniche, sulla terapeutica, sulla storica, secondo te, secondo la tua
esperienza, quali sono gli ingredienti che nella tua esperienza sono risultati più utili
della relazione nella psicoterapia? Quali sono le cose più importanti, le variabili più importanti
che servono di più in una psicoterapia, che fanno parte della relazione terapeutica?
Inoltre molti giovani vorrebbero saperla, anche se è una domanda indecente, non mi rendo conto.
Anzitutto lascia che ti ringrazio per questa presentazione, fammi dire due cose sulle cose
che hai detto, poi non mi dimentico la domanda indecente che hai fatto. Ti ringrazio per la
definizione di studioso, anche se io mi sono sempre considerato un clinico, che da clinico
ritiene che sia necessario per fare clinica avere una cultura clinica. Quindi io penso che chi fa il
nostro mestiere non debba conoscere, sarebbe come appunto chi fa il cardiologo e non conosca la
medicina, non debba conoscere il suo settore, la psicoterapia cognitiva, quella è la scuola a cui
aderito, ma debba avere una cultura psicoterapeutica. Questa è la cosa a cui credo il più e credo sia
un messaggio da trasmettere anche ai giovani rispetto a un periodo in cui c'è molto la moda
di tecniche molto specifiche e così via. Secondo me la psicoterapia si fa pensando e avendo una
generale cultura psicoterapeutica con cui uno cerca di orientarsi nel suo lavoro e così via. Di
questa cultura psicoterapeutica è chiaro che vi è un fattore comune in tutti che è il fatto che
tutto quanto si svolge in una psicoterapia avviena all'interno della relazione tra terapeuta e
paziente. Questa relazione, Paolo diceva, possiamo descriverla in tanti modi, possiamo spiegarci in
tanti modi i suoi effetti terapeutici, anche i suoi effetti atrogeni, perché non sempre è una
relazione terapeutica. Risulta terapeutica ma deve essere possibile comprendere i diversi
linguaggi. Non è necessario che siamo d'accordo, non è necessario che usiamo la stessa terminologia,
ma dobbiamo comprendere i diversi linguaggi. Comprendere i diversi linguaggi significa
fondamentalmente due cose, comprendere i fenomeni a cui si riferiscono, che ha visto quel collega,
qual è il fenomeno che il collega ha percepito che mi descrive con questo linguaggio, e comprendere
il contesto semantico in cui una certa definizione si colloca. Per esempio, il termine integrazione,
o lo stesso termine transfert. Comprendere lo significa muoversi tra questi due opposti,
il fenomeno empirico che è accaduto e che ritiene di aver percepito e che il collega
mi trasmette con un certo linguaggio, e che quel linguaggio poi si colloca entro una problematica,
entro alcune priorità scientifiche che il collega o lo studioso aveva in mente, entro alcune coordinate
concettuali che guidavano il suo lavoro, eccetera. Devo capire entrambe queste cose per poter
intendere di che cosa si sta parlando. E' quello che mi sono sforzato di fare,
ho cercato di capire quando ho studiato gli psicanalisti, qui devo contraccambiare il
ringraziamento invece perché molti dei psicanalisti io credo di averli capiti grazie alle spiegazioni
chiarissime che ne dà Paolo Migone, un autore che veramente scrive chiaro e rende chiari anche
testi molto complessi. Penso per esempio al concetto di identificazione proiettiva,
dove cito ampiamente Paolo nel libro che altrimenti non credo avrei capito.
Ecco, uno si deve porre il problema, qual è l'esempio che stavo dicendo? Per esempio prendiamo
il concetto di integrazione che troviamo in Kerberg e troviamo in quelli del terzo centro.
Per capirlo in Kerberg devo capire cosa ha visto Kerberg. Per esempio ha visto un paziente che in
certi momenti lo attaccava ferocemente, in altri momenti si scusava, dichiarava un grande
attaccamento a lui e sembrava dimentico o indifferente all'altro momento. Questo è il
fenomeno clinico. E poi devo capire perché dà tanta importanza a quel fenomeno, qual è il
sistema concettuale dove quel concetto clinico così importante si inserisce. E allora devo
cercare di capire il fatto che per Kerberg la prima organizzazione della psiche è scissa,
nel senso che si organizzano tutte le memorie di segno positivo e tutte le memorie di segno
negativo delle relazioni che poi si fondano, si integrano vicendevolmente e poi ci sono
situazioni avverse in cui questo processo non si compie. Devo fare questo lavoro,
questo è quello che ho cercato di fare. Ho cercato di capire in questo senso come si spiegano,
nelle diverse teorie, gli effetti terapeutici della cura. Per venire alla domanda di Paolo,
cioè perché la relazione terapeutica fa bene, in che senso è terapeutica, cosa aiuta. Le
spiegazioni sono diverse ma non sono mutualmente esclusive, questo mi sembra il punto. Quindi
sostanzialmente la mia risposta è un po' mente ecumenica. Questi fattori contribuiscono tutti
all'effetto terapeutico. La prima spiegazione è semplicemente che la relazione terapeutica è
quel tipo di influenza sociale per cui si riesce a collaborare insieme. La condizione vale per la
psicoterapia, per la medicina, per uno studio legale, per un'impresa ingegneristica. Se un
professionista e un cliente devono ottenere un risultato, ci deve essere un clima di fiducia,
di collaborazione reciproca e così via. Questo permette di dare il meglio di sé nel lavoro
comune. È chiaro che in questa spiegazione non è la relazione in sé che cura, ma è ciò che viene
fatto, il lavoro che viene fatto, l'uso delle eventuali tecniche e così via. Un'altra spiegazione
è anche questa, molto tradizionale, sostanzialmente quella di Floyd, che dice che la relazione
terapeutica è una cosa particolare e che la rende un laboratorio privilegiato per la presa di
coscienza. Se accadono certe dinamiche relazionali nella vita di tutti i giorni,
tra me e Paolo, magari io e Paolo litighiamo, non ci sbocciamo più una parola e la cosa finisce lì.
La relazione terapeutica ha delle regole per cui, proprio per regola, per principio, io e Paolo ci
siamo impegnati a riflettere su quello che accade nella nostra relazione e quindi questo crea un
contesto privilegiato, unico, che non avviene nella vita di tutti i giorni, che permette di
far esprimere alcune dinamiche relazionali che tutti noi abbiamo e ce ne rende coscienti.
La terza è quella che è un'esperienza diversa dalle altre e quindi c'è un'esperienza correttiva
che è un valore terapeutico in sé. Ci sono poi delle altre spiegazioni, fondamentalmente altre due,
che hanno varie espressioni, anche molto distanti tra di loro, ma che sono riconducibili a un'idea
fondamentale e cioè nella relazione terapeutica il paziente che non riesce a svolgere alcune
funzioni mentali importanti, per esempio non riesce a essere autoriflessivo, non riesce a
coordinare l'azione, utilizza la mente del terapeuta, utilizza la relazione proprio per
compensare, vicariare alcune funzioni deficitari. Questo per esempio è lo schema che aveva in mente
Coutt, a cui accenna Jeannet, il primo a formulare una teoria del genere. E poi c'è un altro modello
tipicamente di derivazione comportamentista dal social learning che è l'idea che nella relazione
terapeutica il paziente apprende socialmente dei modi di ragionare, per esempio un atteggiamento
riflessivo e accettante verso le emozioni che sono più sane. Queste sono le cinque
grandi spiegazioni, cosa che penso io che funzionino più o meno tutte e cinque in misura
diversa. Quello che poi c'è la suggezione, che è un fattore di cui poi ci siamo dimenticati,
abbiamo fatto finta che non c'è, che è un elemento sicuramente ineliminabile di ogni cura,
è presente in medicina e sicuramente è presente anche nella relazione terapeutica.
Non so se ti ho risposto Paolo.
Sì, ma mentre parlavi avevo mille domande, mille pensieri. Un era questo, un altro te lo faccio
dopo. Hai detto tutte funzionano. Ma è giusto dire così? Cioè tutte funzionano o tutte sono
la stessa cosa, ci sono aspetti dello stesso fenomeno che funzionano simultaneamente?
Sembra che tu le separi le teorie, no? A me sembra invece che quelle cose che accadono
in una teoria accadono anche nell'altra, solo che l'altra non le sottolinea.
Indubbiamente, queste accadono in tutte le relazioni terapeutiche. Non parlo delle teorie,
però hanno un peso diverso in contesti clinici diversi. Funzionano contemporaneamente,
immagino, però la distribuzione dell'importanza è diversa in contesti clinici diversi.
Prendiamo un esempio, un paziente non mentalizzante, un paziente che ha una
difficoltà metacognitiva, non riesce a mentalizzare, non riesce a pensare il pensiero
e così via. È chiaro che la relazione terapeutica svolge un ruolo vicariante molto importante,
che ha proprio bisogno di una stampella per appoggiarsi alla mente del terapeuta e pensare
alla sua mente. Un paziente con un alto livello di funzionamento, questo è meno importante,
sarà più importante l'alleanza terapeutica che si crei un contesto di collaborazione.
Da questo punto di vista, credo che il peso dell'importanza dei vari fattori cambia a
seconda della tipologia del paziente e della sua psicomatologia.
Infatti, era questa l'altra domanda che volevo farti, che tu l'hai già detto comunque. Io trovo
certi discorsi sulla psicoterapia in generale frustranti perché non si possono risolvere i
problemi, non c'è una risposta chiara. L'unico modo di imporre il problema mi sembra sia questo,
che è il paziente, a seconda dei problemi che ha, che decide quale teoria noi possiamo usare.
Per esempio, con molti pazienti, secondo me la maggioranza oggi, non so ai tempi di Freud,
quando invece lui la pensava molto diversamente, o si sbagliava o i pazienti erano diversi.
Secondo me si sbagliava. La maggior parte dei pazienti hanno bisogno soprattutto di un rapporto
di un certo tipo, cioè di una relazione terapeutica alla Rogers, o alla Fonagy,
o alla Cout, per fare grandi passi avanti. Basta quello. Quindi non ha senso parlare di
psicoterapia o della teoria della psicoterapia, quanto di mille tecniche che tu utilizzi alla
luce di una teoria generale a seconda dei bisogni del singolo paziente. Con certi pazienti, per
esempio, che non hanno affatto bisogno di tutti questi discorsi sulla relazione terapeutica. Non
gliene frega niente. Loro vogliono, tra virgolette, le tecniche, cioè vogliono che tu gli parli di
una certa cosa e loro migliorano moltissimo se toccano certi argomenti e si risolvono dei
problemi a livello proprio di dialogo, o cognitivo o cognitivista o psicanalista,
ma di lavoro proprio introspettivo. Per esempio, uno dice di un ordinemento psicoanalitico e dice
che con questo paziente sto facendo la psicanalisi, perché vedo che lavoro su delle narrative,
su dei contenuti e il paziente migliora moltissimo grazie a questo. La relazione
terapeutica è totalmente scontata. Non so se sei d'accordo su questo.
Sono d'accordo, è un po' come la salute, affinché va bene non te ne accorgi quasi,
sta sullo sfondo. Il problema è che ci sono una serie di pazienti,
che sono pazienti fondamentalmente con disturbi di personalità, semplificando,
dove proprio la psicopatologia si manifesta nella relazione. E' chiaro che la relazione
viene in primo piano. Tant'è, prendiamo un esempio proprio per venire incontro a quello che dici tu,
la tecnica del contratto terapeutico iniziale, tecnica condivisa da approcci sia di matrice
psicodinamica che di matrice cognitivista. Chi la fa? Chi cura i pazienti gravi? La tecnica viene
applicata, cioè la tecnica consiste semplicemente poi nell'establire all'inizio, chiarire quali sono
i compiti del terapeuta, del paziente, le cose che vanno fatte e così via. Chi la fa? I terapeuti
che curano quei pazienti che non rispettano il contratto, che si sa che non rispettano il
contratto. Un paziente che mantiene i limiti spontaneamente, che lo comprende spontaneamente,
non c'è alcun bisogno di farlo. E' la tipologia del paziente che determina, direi, la psicopatologia
del paziente. A questo proposito vorrei fare una riflessione che forse c'entra con la questione
della relazione terapeutica. Tu dici che la tecnica della Linan sottolinea il contratto,
la tecnica di Kerman sottolinea il contratto. Con i pazienti gravi siamo costretti a fare certe
cose e col paziente nevrotico, sano, ad alto funzionamento non parliamo mai del contratto,
diciamo solo le cose minimali, tipo l'orario, il pagamento, perché lui lo sa rispettare. Però,
e l'altro non lo sa rispettare, quindi non può fare la terapia se non ha un contratto che lo
costringe, cioè che lo fa venire in terapia e rispetta le regole basilari per cui può fare un
certo lavoro. Però qua io ho sempre trovato una sorta di contraddizione. Per esempio,
prendiamo Kerberg o gli psicoanalisti, loro dicono che il contratto iniziale lo devi stabilire anche
con varie sedute, il paziente a volte si arrabbia perché non ci vuole stare, bla bla, quando l'hai
instaurato inizia la terapia. Io non lo penso così. L'instaurazione del contratto che dura alcune
sedute è una terapia, è un trucco di Kerberg, è un intervento strategico nel senso proprio della
scuola strategica tradizionale dei vecchi tempi, cioè una specie di manipolazione, un inganno per
cui tu incastri una persona in un contratto per cui lui se rispetta il contratto è già guarito.
In questo senso, siccome il borderline non è capace di relazione oggettuale, non sta al
contratto, non ci sta alla regola. Se lui rispetta il contratto vuol dire che è già capace di
relazione oggettuale, cioè ti rispetta, ti vede, rispetta delle regole eccetera. Quindi ha già
fatto un passo avanti enorme. Il punto è che Kerberg questo non lo teorizza, lui dice che il
contratto ci vuole per fare la terapia dopo che lavora sulle relazioni oggettuali. Invece secondo
me altri approcci, quelli per esempio strategici, l'hanno capito molto bene, cioè che facendo il
contratto tu hai già fatto una terapia. Il punto è come fai a instaurarlo in un paziente che si
ribelle e non vuole accettarlo. È questo che va teorizzato.
Sono d'accordo per metà. Sono d'accordo che chiaramente tutta la fase di costruzione del
contratto, che in alcune è molto strutturata come in Kerberg, è già un processo terapeutico. Sono
meno severo sull'interpretazione di Kerberg perché il contratto non serve in realtà per
determinare che poi il paziente lo rispetti, altrimenti non c'è bisogno del contratto. Il
contratto serve per permettere che in caso il paziente metta in atto qualcosa che minaccia
l'efficacia della terapia, di tenere questo come focus principale dell'intervento. Ti serve
perché avendolo definito prima hai lo spazio per dire ok, questo adesso è il problema,
questo rende la sua terapia inefficace. Come fai a far accettare a un paziente il fatto di
rispettarlo? Per esempio la tecnica di Gerber standard, che se il paziente ha l'impulso di
tentare il suicidio di tagliarsi, non può farlo ma deve prima telefonare a una tale persona,
pronto soccorso eccetera. Che è indispensabile far così per iniziare una terapia. Come fai
a ottenerlo? Non lo ottieni, semplicemente quando il paziente lo viola, questo comportamento
minaccia la terapia perché la trasforma in qualcosa che non può essere, cioè un pronto
soccorso. Quindi dobbiamo fare ogni sforzo per contenerlo. Il paziente viene invitato a accettare
le misure aggiuntive di protezione che permettano che la terapia continui ad essere efficace,
questa è la struttura del ragionamento. Quindi tu dici banalmente che se il paziente non ce la
fa Gerber non lo prende in terapia? No, guarda, noi usiamo il contratto,
è molto semplice, io non mi aspetto che non venga violato, semplicemente l'averlo fatto,
quando viene violato mi permette di dire ok, allora dobbiamo prendere delle misure
aggiuntive mica per nulla perché se no la sua terapia non funziona. Allora inizia una
discussione su quali possono essere, può essere da un ricovero temporaneo a misure di protezione
del contesto sociale, all'introduzione di una terapia farmacologica, cioè si apre una discussione
con il paziente sulla base della violazione del contratto, ma se non l'hai avvisato prima
che quel comportamento necessario ti trovi disarmato. Tra l'altro è molto educativo,
è terapeutico ed educativo perché è basato sulla coerenza, sul fatto che tu prometti una cosa e la
mantieni. Infatti questo lo sottolineava spesso Clarkin, diceva che questo aspetto è educativo,
che il paziente impara, forse per la prima volta in vita sua, che ha un rapporto con una persona
che rispetta le promesse fatte, che dice se fare così mi comporterò in questo modo. Il
terapeuta infatti non deve mai sbagliarsi, non rispettare le cose che ha detto, altrimenti va
tutto a rotoli. Un aspetto educativo è il suo stesso secondo me.
Certo, questo è un aspetto senza dubbio presente. Una componente tra l'altro presente in tutte le
psicoterapie di questo tipo di paziente è un elemento educativo, informativo.
Infatti chi è che lo diceva in modo provocatorio, che l'analisi funziona anche perché con la
stabilità degli orari educhiamo il paziente a rispettare delle regole. Lo diceva un collega
molto provocatorio, come tu forse lo conoscevi. Tutto lì è segreto. Se poi soprattutto è alta
frequenza settimanale, il paziente impara a comportarsi bene, impara l'educazione,
impara a seguire le regole. C'è questo aspetto qua. Infatti è molto complessa la cosa perché è
una relazione umana che si instaura con una persona e quindi dentro alla relazione fai un
sacco di cose. Insegni a comportarti, rifletti su quello che succede, le fornisci un'esperienza
correttiva e fai anche delle cose che sono anche le tecniche specifiche.
Sì, credo che possiamo considerare oggi tutto questo in parte anche controllabile
empiricamente. Se esiste un passaggio che la psicoterapia è riuscita a fare da momento
speculativo di alto livello all'analisi empirica. Te la faccio io una domanda,
visto che dici che sei apprezzato con quella parte più epistemologica a proposito del tema
psicoterapia e scienza. Io ho letto proprio oggi pomeriggio i due capitoli. Ho letto tutto il
primo e non ho finito il secondo e mancano alcune pagine per il secondo. Il secondo capitolo è molto
colpito perché contiene un sacco di informazioni sul modello contestuale,
se è un discorso di Wancold eccetera. Volevo anche farti delle domande su questo,
quando all'inizio del primo capitolo della parte terza fai il discorso che tu hai fatto,
anche mi sembra che in un altro libro, quando una volta dicevi che la terapia cognitiva era
nata anche come risposta alla crisi della metapsicologia in America, ti ricordi? C'era
la teoria generale della metapsicologia, crollata negli anni 60-70, una prima dei primi che la
criticò, anzi forse il primo, no non il primo, comunque fin dagli anni 60,
schiessi articoli duri contro il crollo della metapsicologia. Poi fai un discorso al punto
due e dici che non ho capito bene per la verità, devo dirti, volevo rifletterci meglio sul fatto
che mi sembra che tu dica che c'è una teoria generale, ok dovremmo averla, poi c'è la teoria
clinica che è comunque molto lontana e non è possibile, mi sembra che tu dica a un certo punto,
fino in fondo in modo tra virgolette scientifico un aggancio, una correlazione chiara.
Esattamente, è possibile solo in scienze formalizzate, logico-matematiche,
cioè che dato un assunto di teoria generale tu derivi un particolare, supponiamo un assunto di
teoria generale che è condiviso oggi da tutte le psicoterapie, l'importanza delle prime relazioni
di attaccamento. Siamo tutti d'accordo che le prime relazioni di attaccamento, tra le altre cose,
offrono i primi schemi fondamentali di sé e dell'altro. Questo è compatibile con un numero
largissimo di teorie diverse, per esempio su come è fatto il dissolvo a bordo o su come debba essere
l'azione terapeutica. Non derivi nessuna teoria specifica, influenza le teorie specifiche.
Il discorso è complicato, rischiamo di dire delle cose un po' generiche, approssimative,
ti dico solo una mia sensazione. Mi piace pensare che non è così, cioè che c'è la possibilità di
collegare a una teoria generale una teoria clinica specifica. Il discorso non è uno stacco,
una cosa qualitativa, ma quantitativa. Cioè che tu puoi fare interventi specifici che sono comunque
collegati a principi generali. Sono coerenti con il principio generale, ma tu puoi avere
teorie diverse, non è detto che ne derivi una sola. Tu puoi fare una serie di interventi che
sono coerenti con questo principio generale. Un amico mio ti diceva che con i pazienti
dissociati è pericolosissimo attivare l'attaccamento di cure protettive perché dissociano.
Molti che sono convinti, come lo erano gli otti, della teoria di Bowlby, come lo sono anche io
peraltro, sostengono esattamente il contrario, che è assolutamente importante che si attivi
l'attaccamento. Sono tutte e due coerenti con la teoria generale. Devi avere una coerenza,
ma non una specifica teoria, perché una parte deriva dal dato clinico. Questa è la ragione per
cui per esempio la teoria del transfert si è salvata dalla crisi della psicopatologia,
malgrado che è una teoria clinica, che aveva il versante clinico.
Non so se capite bene, secondo me sono entrambe le cose vere. Cioè su un paziente attivo e
la sistema dell'attaccamento a un certo tipo di paziente, ha ragione Gianni Liotti,
aveva ragione nel dire che il paziente prima scappa dalla terapia, lo perdi. Mi è successo
in vari casi, pazienti che dopo un po' quando incominciano a star bene devono dire che interrompono
la terapia e non riesce a convincerli. E' chiarissimo, però è anche vero che è importante
attivarlo, solo cosa fai. Quindi c'è coerenza, lo devi attivare chiaramente in un certo modo,
per aiutarli a restare in terapia. Non c'è una contraddizione, secondo me.
No, non c'è. Sto dicendo che tra un assunto di teoria generale e un assunto di teoria clinica
ci devono essere rapporti di coerenza, questo è chiaro. La teoria è un macello, ma questi rapporti
di coerenza non sono di necessità logica, sono di compatibilità razionale, quindi sono rapporti
classe. Questo è uno dei motivi per cui possiamo anche trovarci d'accordo tra scuole diverse,
perché non sono sistemi logicamente. Il discorso rischia di andare da ragione
a popere quando diceva che può dimostrare una cosa anche l'altra.
No, perché qui stiamo parlando... poi c'è l'altro elemento che è il dato empirico,
su cui poi testimoni la bontà o meno della teoria. La struttura di una teoria psicoterapeutica non è
mai rigida. Sono arrivate delle domande e ci chiedono di rispondere. Buonasera,
volevo chiedere se nella relazione terapeutica possono esistere dei punti di stallo e come si
possono gestire da parte del terapeuta e da parte del paziente. Potrei proporre una riflessione
sugli effetti iatrogeni della terapia quando causati dalla posizione manipolatoria e o
invidiosa della terapeuta. Non è facile rispondere in poche parole, comunque provaci.
Possono esistere dei punti di stallo? Certo che sì. E questi punti di stallo possono
essere anche svolgersi in modo dannoso. Come possono gestirsi dipende dal tipo di stallo.
Ovviamente ci sono difficoltà dell'alleanza che possono riguardare difficoltà al paziente di
lavorare sui compiti e sui obiettivi della terapia, per cui per esempio la necessità del contratto.
Ma non coinvolgono il legame interpersonale. Io aggiungerei che vanno accettati, vanno
riconosciuti senza problemi discusi col paziente. Esatto. Poi ci sono situazioni di stallo che
possono coinvolgere il legame interpersonale. Sono descritti in tanti modi. Per alcuni sono
anche un'occasione di comprensione di certe dinamiche. In altri casi, però,
un concetto che descrive molto bene gli effetti iatrogeni è quello di ciclo interpersonale.
Ciclo interpersonale è un processo in cui aspettative negative sulla relazione fanno
sì che noi mettiamo in atto dei comportamenti preventivi che suscitano nell'altro delle
reazioni tali da confermare le aspettative negative di partenza. Questo può accadere
anche nella relazione terapeutica. Tra cui c'è ovviamente dinamiche di potere,
di invidia, di competizione e così via. Questo con moltissimi pazienti accade.
Certo. Ci hanno detto che durava 50 minuti e dovremmo penso finire.
Ecco, abbiamo rispettato i tempi, certamente. Ti ringrazio moltissimo, Paolo.
No, io ringrazio molto te per quest'occasione, davvero.
Allora, speriamo di vedere. Questo è un ringraziamento a chi ci ha invitato.
Sì, dovremmo un'altra occasione come per l'ultima volta che ci vediamo,
ti ricordi in Sicilia?
Sì, veramente. Ci vediamo. Arrivederci prima.
Arrivederci.