'Modelli criminali: Mafie di ieri e di oggi'
Ciao a tutti, benvenuti a questo incontro che non sono stupito di vedere affollato
questi protagonisti e i temi di cui parliamo.
Io ringrazio, il mio compito è solo di fare qualche ringraziamento
innanzitutto a Giuseppe Pignatone e a Michele Prestipino, autore di Modelli Criminali e Mafie di Ieri e di Oggi
ne discutiamo con Gianrico Carofiglio e abbiamo il coordinamento di un illustre film di Repubblica, Giuliano Toschini
illustre, lo promosso, non spenderò troppe parole di presentazione per quanto riguarda gli autori
se non per ricordare che sono già autori della casa, questo è consentito
in ordine cronologico il primo che si è affacciato dalle nostre parti è Michele Prestipino
del 2007, qualche annetto fa, è il volume, il Codice Provenzano realizzato con Salvo Palazzolo
ma rieditato più recentemente in nuova edizione
e successivamente c'è il volume realizzato da Giuseppe Pignatone e Michele Prestipino
insieme con la collaborazione di Gaetano Sabatteri, Il contagio come l'andrangheta ha infettato l'Italia
quindi è un ennesimo episodio di un percorso che immaginiamo e speriamo costellato di ulteriori iniziative
ma questa è una tappa importante anche perché, mi fermo, in questo libro si parla, come credo sia giusto aspettarsi
diffusamente del tema di mafia capitale e della mafia a Roma, oltre che naturalmente e ampiamente
delle esperienze sul campo di Pignatone e Prestipino in Sicilia e in Calabria
e quindi nella lotta contro la mafia e l'andrangheta.
Grazie ancora a tutti e Giuliano ti cede il microfono per dare l'avvio all'ansia.
Buonasera, grazie a tutti, grazie a Alessandro e a Giuseppe per l'invito
io chiaramente sono molto contento di poter parlare con il procuratore Pignatone e il procuratore Prestipino
qui a Bari, che è la mia città, di poter parlare con lui di mafia
che è una parola che ha queste latitudini e significati particolari
ed è una parola spesso troppo poco copertutata
io però, col piacere di avere Gianrico, caro figlio, qui al dettogio facciamo le domande per una volta
C'è un poliziotto buono e un poliziotto cattivo, stavolta mi fate fare il poliziotto buono
che quando facevo quel lavoro volevo fare il buono e mi dicevano che non ero credibile
e io gli dico che faccio il poliziotto buono, ci invertiamo
e in realtà volevo chiedere a Gianrico di dire una cosa
Gianrico è maestro di parole e io ti volevo chiedere qualcosa sulla parola mafia
Va beh, quanto tempo abbiamo?
Buonasera a tutti, grazie a tutti quanti senza entrare nei dettagli e nei diarenchi di numi
Eccellente occasione questa perché è un'imprudenza farsi presentare da un autore di libri
tanto più se l'autore di libri è anche ex magistrato perché la tendenza a parlare di se stessi è pressoché insopprimibile
una volta c'era un autore di libri, di romanze che presentò un mio libro e disse
naturalmente che qui siamo per parlare del suo libro e io quindi non dirò nulla su di me
parlo per 40 minuti del suo libro, non farò così
parliamo direttamente di questo libro che non è una cosa scontata, quello che sto per dire
è un ottimo libro perché non cade in molti dei peccati in cui spesso cadono i libri scritti dai magistrati
o comunque dagli addetti ai lavori, nei due è cessi opposti
uno quello di fare una mera compilazione di pezzi di atti giudiziari più o meno attaccati gli uni agli altri
lasciando al lettore il compito sgradevole di mettere insieme un disegno che di solito è impossibile
se uno poi gli atti non li ha veramente maneggiati oppure filosofare in maniera una volta piuttosto audace
su temi che superano l'ambito del giudiziario e degli esiti dell'investigazione di quello che da questo si può trarre
il libro ha una sua dimensione equilibrata fra il rigoroso riferimento alle cose che emergono dalle indagini
e dagli atti giudiziari e un tipo di impostazione, un modo di raccontare, di parlare dell'argomento
o per essere più precisi degli argomenti che consente al lettore non addetto ai lavori che voglia impegnarsi a leggere
di entrare davvero nell'argomento e capire alcune cose su cui molto spesso si dicono chiacchiere, a volte grosse chiacchiere
molti temi che sono oggetto del dibattito più o meno corretto, più o meno sgancherato sui giornali o fuori
sui temi della criminalità organizzata, sul significato della parola mafia, tanto per far vedere che non è che mi stessi eludendo
la domanda, io ricordo bene, ci capito anche di incontrarci poco dopo l'inizio di quella operazione chiamata mafia capitale
un nome che non ho particolarmente amato, mentre invece i contenuti dell'operazione sono centrati...
L'operazione si chiamava mondo di me, e se l'avessi detto tu non l'avrei amato perché sono imprudento
e già allora abbiamo avuto occasione di ragionare con la materia ancora piuttosto calda, incandescente
sul fatto che quell'impostazione a me pareva molto convincente, mi sembrava molto convincente parlare di mafia
a proposito di un fenomeno criminale che era lontano dalla Sicilia, era lontano dalla Spremonte, era lontano dalle coppole
dalle doppiette, dagli accenti più o meno meridionali e si innestava in meccanismi operativi del tutto diversi
dal punto di vista sociologico ma che riconducevano comunque alle teorie mafiose.
E' stata una vicenda anche processualmente travagliata quella perché i giudici di primo grado non hanno riconosciuto
se non ricordo male, mentre il tribunale riesame l'accastazione sì, il reato di associazione mafiosa e poi in appello invece sì.
Allora una questione interessante con la quale potremmo cominciare a ragionare, poi ho qualche domanda
proprio specifica da porti in un momento successivo se avremo il tempo, è impigliare, perché tutti quanti voi comprerete il libro
e lo reggerete, ma impigliare la differenza che esiste fra le mafie tradizionalmente intese, le mafie storiche in particolare
quelle di cui voi parlate nel libro, cioè Cosa Nostra e l'Andrangheta, rimangono fuori dall'orizzonte di questa trattazione
la Camorra e le mafie minori del sud, in particolare con le pugliesi, la differenza che c'è fra le mafie tradizionali, storiche
storicamente radicate con una tradizione complessa come appunto Cosa Nostra e l'Andrangheta e queste recenti cosiddette piccole mafie
di cui in qualche modo l'emblema, quasi l'ideal tipo, è proprio la mafia oggetto dell'operazione Mondo di Mezzo.
Intanto grazie all'invito, grazie soprattutto a chi è presente, c'è da fare un'ulteriore sottodistinzione, perché una cosa sono le mafie tradizionali
e quelle in qualche modo le conosciamo tutti, quantomeno per aver visto film, serie televisive eccetera.
Nell'immaginario collettivo le mafie tradizionali sono migliaia di aderenti, il controllo militare del territorio, che significa che
ogni negozio si sa quanto paga di pizzo, quale zona della città o della formata appartiene alla cosca A e quale alla cosca B e così via,
significa un uso continuo e plateale delle armi, poi significa di solito anche riti, giuramenti, tutto un apparato diciamo di regole
e significa anche un controllo ferro, più o meno piramidale secondo le varie organizzazioni.
Questo è quello che abbiamo tutti in testa quando parliamo di mafia, che poi è la nozione sociologica e non giuridica.
La nozione giuridica è più larga perché già quando fu introdotta la legge di Rognone-Valatore c'è il 416b,
non so con quanta consapevolezza ma il futuro, quello che è successo dopo ha dato ragione al legislatore dal 1982,
l'ultimo gomma del Tico 416b dice che le norme di quei gommi presenti, quindi l'associazione mafiosa, si applica anche alle altre organizzazioni comunque localmente denominate.
Quindi già il legislatore del 1982 diceva, pensava che non si esauriva in mafia camorra in Dania, mafia siciliana camorra in Dania.
C'è un passaggio ulteriore, nel 2008 la legge viene cambiata e viene infilata nell'articolo 416b anche le mafie straniere.
Ora, posto che in Italia non ci sono le triadi giapponesi, la Yakuza eccetera, è chiaro che per mafie straniere si intendono piccoli gruppi,
o di cinesi o di nigeriani o di altre etnie di Roma eccetera, che di solito peraltro vittimizzano i loro connazionali e non gli italiani che stanno nella stessa strada o nello stesso quartiere.
Da questo scenario normativo, da questo scenario della legge, la Cassazione ha costruito principalmente ma non soltanto, per l'esperienza delle mafie romane, il concetto di piccole mafie dicendo che sono anche esse male.
Cioè che anche ad esse dal punto di vista del verito si applica l'articolo 416b, si applica il sequestro e la confiscata dei beni, si applica una serie di norme particolarmente rigorose.
Ma qual è il punto? Che queste cosiddette piccole mafie possono non avere il controllo del territorio, hanno un numero ridotto di aderenti, 20, 15, 40, 200 magari, per alcuni clan particolarmente numerosi, ricorrono alla violenza, ma certo non parliamo di straggio, di un omicidio al giorno come succede a Napoli,
però cosa fanno di uguale alla mafia siciliana, la Camorra, l'Andranghese o la Sacra Valencia? Usano il metodo mafioso, cioè hanno la disponibilità della violenza, sono pronte ad usarla in caso di assoluta necessità e soprattutto l'interlocutore,
cioè lui che si ci mette, che ragiona di questo, che riceve le richieste, siano esse estorsive, siano esse usurarie, oppure che dice mettiamoci d'accordo e facciamola fare assieme, questo interlocutore sa che il suo interlocutore non è un interlocutore che se non si mettono d'accordo vada al giudice civile, tira fuori l'abisola e gli spari.
Quindi mafia di polizia piccola e magra. La cosiddetta mafia capitale, cioè quell'organizzazione specifica che fa, faceva, capo, ha terminato e butti, stando alla sentenza di corte d'appello e aspettando la corte di cassazione, era ancora un modello ulteriormente sofisticato ed elaborato, a parte di essere stata a Roma e di suo far notizie.
Era un modello elaborato e sofisticato perché lì la violenza era ancora più impalpabile, meno frequente il ricorso. Si fondava moltissimo sulla fama criminale di Carminati che ha una storia di terrorismo, è stato imputato e assolto per l'omicidio Pecorelli, è stato imputato e condannato con sentenza di fidia per il furto alla banca che c'è dentro il palazzo di giustizia di Roma.
Insomma, una carriera che lui stesso rivendica non solo nelle intercettazioni ma pure nell'intervento del resistenza. Qual è la caratteristica di questa mafia capitale, di questa organizzazione?
E' il ricorso continuo, in forme estreme alla corruzione, intendendo per corruzione tutti quei reati, corruzione, turbativa ad astra, manipolazioni varie dell'attività della pubblicità, per cui a un certo punto questa organizzazione ha assunto un poco con le buone, cioè con la corruzione, un poco con le cattive, cioè con il ricorso alla violenza, il controllo di pezzi significativi dell'amministrazione.
L'amministrazione comunale di Roma, con tutto il rispetto, non è l'amministrazione di Bari, di Palermo o di Catania, è la capitale d'Italia, il che significa qualcosa sia in termini quantitativi, cioè di volume di affari, sia in termini di significato politico.
Il fatto che un'associazione criminale avesse conquistato il controllo di un pezzo dell'amministrazione comunale della capitale d'Italia, ripeto con questo miscuglio di cosiddette maniere buone, cosiddette violenze, ha fatto sì che il caso diventasse clavoroso.
Io mi accoglivo l'occasione di chiedere a Dottor Prestipino, è stato a Palermo e ha reggio, è arrivato a Roma, quando è stata la prima volta che ha visto la macchia?
La prima volta che ho visto la macchia l'ho vista in una funzione un po' particolare, perché io mi occupavo di carcere prima di andare a fare la pubblicomista e poi ero giudice, ho fatto 12 anni di giudice e nella parte finale di questi 12 anni ho svolto le funzioni,
le funzioni non sono particolarmente conosciute, ma sono magistrato di sorveglianza, cioè quello il quale si occupa di istituti di pena perché presiede all'esecuzione della pena. Io avevo tre istituti perché lavoravo a L'Aquila, avevo tre carceri, due importanti e uno minore,
ma quelli importanti erano i carceri L'Aquila e Solnona e negli anni immediatamente successivi alle stragi, anzi a cavallo delle stragi che hanno iniziato nel 1992, io nella carceri Solnona dove c'è tuttora una casa lavoro, dove ci sono coloro i quali sono sottoposti a una misura di sicurezza detentiva dopo l'espiazione della pena,
ho avuto tutti quelli che avevano finito di scontare la pena del maxi 1, cioè del primo grande processo a Cosa Nostra, tutti i boss condannati per solo associazione mafiosa che all'epoca era una pena che oscillava tra i 4 anni e mezzo e i 6 anni e mezzo più o meno e dopo scontavano questo periodo di casa di lavoro di un anno e io lì ho conosciuto tutti questi capi di Cosa Nostra
che erano sottoposti a questa misura di sicurezza. Per conoscere un detenuto da maggistrati solveriani che si deve occupare dell'esecuzione della pena, tu hai la pietra miliare e la sentenza di condanna perché da lì parti, quello è il punto di partenza e poi quello che viene dopo ovviamente si valuta, però quello è la fotografia di chi hai di fronte.
E quindi io piano piano, pezzi a pezzi mi sono letto la sentenza del maxi 1, quando ancora non era lontano da me anche l'idea di andare a lavorare.
Ma cosa era il maxi 1? Il primo maxi processo?
E lì ho cominciato a capire che cos'era un capo mafioso, poi ho imparato anche bene a capirlo perché mi ricordo che il dispetto più pesante che si poteva fare al detenuto, tra virgolette, era quello quando al detenuto si diceva che non aveva mai avuto un caso di cassazione.
E il detenuto veniva per chiedere, faceva il colloquio con il magistrato di sorveglianza e chiedeva il permesso, la licenza, la misura alternative, la remoca anticipata della misura eccetera eccetera.
Io ho capito che nella logica del mafioso venire lì e chiedere era una regola, però la regola era che tu davanti al magistrato dovevi starci pochissimo, pochi minuti, perché era il tempo di chiedere e di sentirsi dire no.
Allora quando arrivavano questi palermitani io mi divertivo moltissimo a instaurare un colloquio e a costringerli lì per venti minuti, mezz'ora, trentacinque minuti e mano a mano che passava il tempo quelli ovviamente stavano sulle spine, cominciavano a sudare freddo perché poi dovevano uscendo giustificare tutti i minuti successivi a quelli regolamentari per capire che cos'era.
Questa è psicologia però intanto inizi a capire qual è il rapporto. Nello spazio che c'è tra il periodo regolamentare e il periodo che va oltre il regolamentare c'è tutta la struttura dell'essere un capo di cosa nostra, rispetto ad altri.
Avevano anche i napoletani senza offese per nessuno ma i casalesi di allora erano assolutamente inadeguati rispetto alla struttura e alla caratura mafiosa di questi personaggi qua.
Quando è arrivato a Roma voi? La domanda era chiamata anche dal procuratore Pignatore. Quando siete arrivati a Roma dal procuratore del procuratore aggiunto? C'è stato un calido, ricordiamo il funerale di Casamonica, un fatto che vi ha sorpreso che non si aspettava di trovare nella capitale di Ligaria?
Non sono mai i singoli fatti perché poi a Roma non ci sta. Di là del funerale di Casamonica che è molto dopo nel tempo. In realtà la prima indagine di mafia a Roma riguarda Ostia, quindi il clan Fasciani e l'inizio delle indagini sul clan Spada.
La cosa che mi ha colpito è il ripetersi degli schemi in Sicilia e in Calabria, gli schemi di comportamento per cui per esempio dava il denaro a un certo tasso di interesse e poi diventava usurato e non voleva avere il titolo.
Poi lui arrivava qui, gli levava il negozio, prima glielo danneggiava ma poco perché il risultato finale era prendere il negozio, poi lo andava a raccomandare con l'amministratore locale del municipio di Ostia, poi abbiamo trovato, è triste di Roma far parte del quadro, la corruzione di alcuni esponenti delle forze dell'ordine della Codice.
Un dettare amico con letti bianche, era l'amministratore locale, era l'imprenditore, era l'appartenente alle forze dell'ordine, gli diceva guarda che hai la microspia sotto il tavolo per modo di dire, ma poi erano anche irragionamenti perché siccome c'era anche la presenza di vecchi siciliani sul posto,
il vecchio siciliano era fatto da mediatore per stabilire la pace fra le varie fazioni e c'era un'intercettazione che noi citiamo, non mi ricordo se l'abbiamo citato anche nel libro oppure no, citiamo spesso in cui c'è uno che dice, che già era una Ostia, ma uno che invece è un nuovo arrivato e vuole impiantare queste macchinette che sono un'attività tipica della criminalità organizzata,
ma poi non è come Palermo, qua che tu vai in un posto, quello che dicevo prima, e sai di chi è quel posto, di chi è dal punto di vista mafioso, cioè chi è il mafioso che controlla queste cose, no qua ci mettiamo tutti d'accordo e facciamo affari tutto quanto.
In realtà esiste questo modulo, questo modello operativo che si replica diciamo in situazioni anche diversissime dal punto di vista sociologico, antropologico, però ecco come vi dicevo il libro offre la possibilità di capire il fenomeno sulla base degli atti, sulla base di una riflessione che è sempre collegata agli atti che sarebbe il minimo sindacale se non fosse che in tanti se lo dimenticano.
E proprio per questo, e poi chi ne aveva voglia leggere il libro, io volevo sollevare alcune questioni che nel libro sono appena accennate, che sono però molto interessanti per capire la natura del fenomeno.
Una di queste questioni su cui vorrei sentire la vostra opinione è quella relativa alla funzione dei rituali, degli schemi tradizionali nel generare l'affezione mafiosa e nel mantenerla.
Io ho ovviamente una mia idea, me ne sono occupato a lungo, ma il ruolo dei rituali, che cosa serve il rituale, che cosa serve lo schema tradizionale, che cosa servono i gradi e anche qualche parola sull'origine di questa roba qua che secondo me è particolarmente interessante,
quell'intreccio tra criminalità, massomeria, esoterismo che c'è alla base dell'origine rituale di Cosa Nostra e dell'Andrangheta che poi ha esportato il modello, per esempio in Puglia. Non dimentichiamo che le mafie pugliesi sono mafie, come posso dire, generate per l'appunto da un rapporto quasi di consulenza da parte dell'Andrangheta.
Vorrei sentire un po' le vostre riflessioni sulla funzione degli schemi tradizionali e dei rituali e dei gradi e di tutta quella dimensione esoterica che a molti a volte sembra quasi grotesca ma in realtà è una cosa estremamente seria.
Chi studia le mafie, ovviamente le studia non dal punto di vista giudiziario ai fini del processo, ma chi studia le mafie sono soprattutto storici, sociologi, tutti quanti, soprattutto quelli che più le hanno studiate e ne hanno studiate più dal punto di vista delle diverse mafie.
Mettono in evidenza tutti quanti un aspetto che secondo me è estremamente importante quando si parla di mafie, cioè la capacità che hanno le mafie di scrivere, di riscrivere una storia alternativa, cioè di mistificare la propria presenza.
E se andiamo indietro negli anni, noi abbiamo sostanzialmente due grandi fasi che mettono in evidenza gli storici, cioè una prima fase lunghissima in cui le mafie si sono negate, hanno negato la propria esistenza.
Ci sono pezzi di addantologia, l'intervista famosa di Marrazzo al capo Andrangheta che dice cos'è la mafia e quello baldanzoso risponde no, dice io non l'ho mai incontrata, cos'è una cosa che si mangia, siamo ancora negli anni 70 e siamo nella fase della negazione assoluta, una negazione che comincia proprio dall'inizio,
insomma, fin dall'Italia preunitaria. E poi c'è una seconda fase in cui le mafie quando non hanno più potuto, a tutta evidenza, negare se stesse, negare la propria esistenza, hanno ovviamente mistificato sulla loro struttura, sulla loro potenzialità criminali, sulla loro estensione,
sulla loro capacità, sul sistema delle alleanze, intendo dire sul sistema delle alleanze proprio sociali, insomma, e sul sistema di relazioni. E le mafie nel corso della storia hanno, queste operazioni, diciamo, tra virgolette culturali, sono importantissime, sono fondamentali per la loro stessa esistenza.
E una delle più grandi mistificazioni che le mafie in questo, sia l'Ossianostra che l'Andrangheta, hanno raggiunto livelli raffinatissimi di attività di mistificazione, è quella di propagandare un'immagine dell'organizzazione mafiosa come un'organizzazione di tipo politico che difende i deboli contro i più forti,
che difende gli oppressi contro gli oppressori, che difende i miseri, diciamo, chi ha di meno contro chi ha di più. C'è un'organizzazione contro il potere, quando tutti in realtà sappiamo che è esattamente l'inverso.
Cioè, in Calabria, per esempio, l'Andrangheta, anche proprio dal punto di vista geografico, territoriale, nonostante che tenti di farsi passare come l'evoluzione del fenomeno del banditismo, in realtà l'Andrangheta non ha nulla a che vedere col banditismo,
tant'è vero che le zone, i propri territori dove l'Andrangheta è stata sempre storicamente più forte, sono le zone, i territori della Calabria dove il fenomeno del banditismo era sempre, non c'era.
In Sicilia è sempre stata la stessa cosa, c'è la tentazione di ricollegare le radici di Cosa Nostra ai famosi Beati Paoli, a quelle organizzazioni clandestine che nel 600, nel 700, erano le organizzazioni che difendevano un po' le ragioni dei deboli contro le prepotenze dei forti.
Questa cosa qua è fondamentale e questa cosa qua si regge, ovviamente, questa narrazione strumentale si regge su una serie di mistificazioni e di creazioni di falsi miti che hanno bisogno di una struttura quasi, vorrei dire, ideologica.
E questa struttura ideologica ovviamente non può che nascere, non può che avere origine nel momento dell'affiliazione, facendo sentire a chi entra nell'organizzazione, tra virgolette, al nuovo adetto, tutta la carica potenziale di questo passaggio, di questa fase di accesso dall'essere nulla a diventare qualcuno.
A me ha fatto impressione, più che a Palermo dove c'è questa cosa, si vede soprattutto nei quartieri più popolari, quelli della periferia cittadina, a me ha fatto molta impressione la struttura sociale dei paesi della provincia di Reggio Calandria, paesi che hanno a volte un numero di abitanti inferiore a mille,
abitanti ma poco numerosi, poco popolati, poco densi, e lì l'ingresso, il momento dell'affiliazione ha una valenza che diventa quasi come l'acquisizione della capacità di agire al compimento del diciottesimo anno di età.
Perché tu passi da uno stato in cui non sei nessuno a uno stato sociale, di cui è conosciuto dalla collettività, cioè in cui diventi lo sgarrista, il picciotto, il primo livello dell'andrangheta.
E questa cosa segna anche una certa differenza tra questo rituale e la sua valenza sociale rispetto a cosa nostra. Perché, almeno io ricordo che prima di diventare uomo d'onore tu dovevi dare una prova, e dovevi dare una prova di coraggio, di coraggio criminale.
Spesso e volentieri la prova era come dire più efferato dei delitti, cioè partecipare all'omicidio, per cui tu in realtà commettevi un delitto di mafia, delitto nel senso di reato grave, e spesso però era proprio l'omicidio, prima ancora di essere un affiliato all'organizzazione mafiosa.
E questo ovviamente è più funzionale alla struttura dell'organizzazione che alla realtà. In Calabria viene spesso esattamente l'inverso, tu vieni affiliato, messo nel ruolo di sgarrista, che è quello minimo, quello di base, e poi lì devi cominciare una carriera criminale che ti consente mano a mano di raggiungere le doti, si chiamano doti, nella organizzazione criminale.
O il fiore, sì, quello è diciamo di livello maggiore. E questo perché? Perché naturalmente l'affiliazione diventa il simbolo del passaggio, dell'ascensore sociale, cioè c'è una specie di ascensore sociale, tra virgolette, ovviamente criminale, però è un ascensore sociale che in certi contesti territoriali diventa il momento rilevante, importante, dell'acquisizione di uno Stato.
Se mi permettete di aggiungere una cosa, poi vorrei sentire la tua opinione. Questo che ci hai appena detto è particolarmente significativo se lo caliamo poi nella storia, nella genesi delle mafie pugliesi, che è l'unica di cui noi abbiamo quasi film, l'atto di nascita, perché a differenza delle altre mafie che affondano in epoche piuttosto remote delle loro radici, noi sappiamo in maniera abbastanza precisa, potremmo addirittura dire l'anno di nascita,
delle mafie pugliesi e sappiamo perché sono nate e questo le rende dal punto di vista dello studio sociologico, prima ancora che criminologico, particolarmente interessanti e ci fa riflettere sul ruolo che hanno avuto i rituali di affiliazione importati dall'Andramide.
Le mafie pugliesi nascono nel 1983, nella loro versione che poi ha avuto un quindicennio, un ventennio di notevole successo dal loro punto di vista e nascono come consorterie di autodifesa carceraria. Qual è il problema? Il problema era che nelle carceri pugliesi i detenuti pugliesi erano vessati per lo più dai camorristi napoletani e di altre zone e questo a un certo punto fu considerato insopportabile.
Essendoci rapporti piuttosto intensi tra alcuni importanti criminali pugliesi e alcuni importantissimi capi dell'Andrangheta calabrese, in particolare parliamo del clan de Stefano, in sostanza de Stefano affiliò Giosuè Rizzi che era uno e l'altro era unico.
Rugoli fu affiliato da qualcun altro che non mi ricordo, Giosuè Rizzi fu affiliato da Paolo de Stefano che era il capo di Bellocco.
La cosa interessante fu proprio, e questo tema dovrei lanciarlo per approfondirlo, fu il fatto che gli schemi rituali dell'Andrangheta furono presi e carati nelle carceri pugliesi in cui furono effettuate a ripetizione in quegli anni, a cominciare dall'83, affiliazioni su affiliazioni che produssero un effetto spettacolare in un certo senso,
cioè la nascita, cosa che in termini tecnico-giuridici è quasi un controsenso, quasi da nulla di una consorteria mafiosa articolata, poi si è distribuita sul territorio quando i soggetti sono usciti e è nata proprio perché furono fatte decine, centinaia di affiliazioni nel carcere.
Questo è un tema di enorme interesse, poi ovviamente una certa dose di cialtroneria dei criminali pugliesi fece sì che dopo poco tempo si passasse alle svendite, per cui essendo il primo grado quello della picciotteria, il secondo del camorrista si andava direttamente su Sgaro, la Santa che era il quarto, un grado importante, bastava che avesse sparato le gambe a qualcuno, ma insomma quello che mi interesserebbe,
è un po' svendite da ipermercato dei gradi criminali.
Però quello che per me è importante e mi piacerebbe sentire dal vostro punto di vista è una riflessione sulla attitudine colonizzatrice dei modelli mafiosi, sia dal punto di vista degli schemi rituali, sia dal punto di vista, qui parliamo dell'Andrangheta e della sua straordinaria capacità di diffusione, non in Italia ma nel mondo, degli schemi organizzativi.
Per finire il discorso su rituali, qui c'è anche un problema di appropriarsi di alcune pezzi di cultura importanti della società mediterranea, da un lato quella cattolica, quindi per esempio la cerimonia di entrata nell'Andrangheta si chiama battezzo proprio, cioè battesimo, come tu sai entrare,
e in Sicilia non si chiama così ma il rituale che tutti hanno visto al cinema, cioè il dito appunto dal sangue, culmina nel giuramento sopra il santino, c'è l'immagine di qualche santo, della Madonna, quello che è, bruciato.
Quando è stato arrestato, lui è entrato e abbiamo trovato un centinaio di questi santini, le bibbie, tutto un apparato che ovviamente quando tu hai decine di omicidi sulla coscienza non si piega, però ti appropri in qualche modo di pezzi della cultura delle nostre regioni.
Dall'altro, lo accennavi tu nella prima domanda, c'è anche una suggestione massonica o paramassonica, per cui in specie l'Andrangheta accatta il giuramento sui santi, c'è quello su Mazzini, va a Marmola, oppure Cavalierosso, Mastrosso, sono appropriazioni indebite ovviamente di pezzi di cultura importanti delle nostre regioni,
perché la progressione dei gradi dell'Andrangheta, è come se fossi in un ministero e fai carriera, no, cominci da commesso applicato di prima classe e diventi direttore generale del ministero, salendo i gradi.
Quello che tu dicevi della capacità di espansione è ancora una volta soprattutto dell'Andrangheta, noi citiamo nel libro una dichiarazione e intercettazione, due cose dirette, di un boss calabrese che spiega, dice, del dottorato, magistrato calentero,
il mafioso siciliano che va a Roma o a Milano per fare un affare, fa quell'affare in cui l'affare può essere una rapina come può essere un investimento e torna a Palermo o a Catania o qualunque lato, il calabrese no, va lì fuori, Roma, Milano, Torino, quello che è, o addirittura all'estero e crea la locale, cioè l'unità base dell'Andrangheta, dice non c'è niente da fare, ce l'abbiamo nel DNA,
cioè questa capacità di cui l'affidazione in carcere, hai ricordato tutto, un altro aspetto, un'altra dimostrazione, di creare la cellula criminale base all'estero, estero internendo estero rispetto alla Calabria, e c'è, collegata a questa intercettazione in cui quello dice, sempre un altro boss calabrese,
dice il mondo si divide in due, la Calabria e quello che ancora Calabria non è, non è ma lo diventerà, cioè questa capacità di pensare in grande, naturalmente bisogna contrastare, con tutte le risorse, oltre che parliamo di Calabria criminale e non di Calabria per bene, che c'è pure naturalmente, anzi in maggiorità è chiaramente, però questa è la capacità,
questa è la capacità di andare fuori, quello che hanno fatto in parti significative della Lossabia, del Piemonte, poi abbiamo le idargini dello scopetto in Emilia, di recente in Venezia, però si incontra questa capacità di esportazione per così dire al nord, con una richiesta dei luoghi dove arrini,
questo è purtroppo innegabile, cioè noi abbiamo, per restare sempre ai fatti al di là delle cose, abbiamo l'imprenditrice lombarda che dovendo recuperare un credito di 30.000 euro, invece di fare il decreto ingiuntivo di andare dal giudice civile, tentare una mediazione con un avvocato, chiama un calabrese che sta al dito in questo paese della Lombardia,
e lo incarica di recuperare il credito, cosa che quello fa massacrando allegnate il depitore e lei tutta soddisfatta dice adesso è stato nato la bestia, quindi lo sa benissimo che cosa sta facendo, sta facendo un ricorso al metodo mafioso per recuperare il suo, anche il credito che dobbia prendere, ma lo stesso è un episodio simile c'è in Emilia,
l'ho ricordato pure nel libro che viene fuori dall'indagine Emilia. Peraltro verso ancora, quello che abbiamo visto per esempio a Roma era il fatto che gente che è mafiosa non è, piano piano si abitua a fare come i mafiosi a cercare il consenso sociale.
Nel 2006 a Palermo noi abbiamo raccolto un'intercettazione di uno che era il braccio destro di Provenzano come si dice all'epoca, il quale spiegava ai suoi adepti, ai suoi collaboratori per così dire, che soprattutto quella che lui chiamava la gentuccia del quartiere, cioè quelle più vicine a lui, ma questo lo abbiamo ritrovato in Calabria con le stesse identiche parole,
che bisognava trattarla bene perché se tu sei voluto bene non basta fare paura, se tu sei voluto bene da quelli che ti sono vicini, quelli ti proteggono e ti aiutano, cioè praticamente se arriva la polizia ti nascondono, se tu fai l'investimento non ti denuncia e così via.
Dice non basta la paura perché la paura ha tutto, poi in questo caso ci vuole il rispetto e non la paura perché la paura se poi se ti possono dare una punta l'altra, una volta l'altra te la dà.
Questo è quello che avevamo sentito e interpretato nel 2005-2006. Siamo arrivati a Roma nel 2015-16, forse solo Ricorda, e troviamo uno che controlla una piazza di spaccio di droga del Libre Riportato, quindi non è un mafioso, è però un criminale organizzato perché controlla una piazza di spaccio.
Altri criminali dicono Bruno è bravo, Bruno è questo signore che controlla questa piazza di spaccio di droga, dice quello è bravo, è intelligente, hai visto, pulisce le aiole della zona, porta i sacchetti della spesa alla vecchietta che sta al secondo piano e non li può salire da sola.
Piano piano si crea la zona di consenso e di rispetto invece della paura. È chiaro che a quel punto la vecchietta o gli abitanti del condominio che in mezzo ai sacchi di spazzatura hanno invece la loro aiola pulita dal signor Bruno, si guarderanno bene dal tradirlo nel momento in cui magari l'indagine lo toccherà.
Tutto questo è un consenso e costruzione di consenso sociale che è una delle caratteristiche delle mafie, piccolo o grande che sia.
A proposito del consenso sociale, volevo chiedervi una domanda che esula dal libro, però dottor Pignatore ha più volte citato la rappresentazione della mafia, siamo abituati a vederla nei film, quella che siamo abituati a leggere nei libri.
Il tema della rappresentazione della mafia oggi è quanto mai più attuale, le due puntate di Gomorra hanno sbarcato qualsiasi dato di ascolto e la mafia romana è stata rappresentata da Suburra.
Voi che ne pensate? Servono o non servono? Hanno un valore didattico o non lo hanno?
Quello che si fa quando uno è indagato è giustamente non rispondere al giudice.
Allora, io credo che il problema è semplicissimo. Io credo che occorra raccontare, ci deve essere una narrazione. Il problema è come si racconta, non è se raccontare o meno.
Altrimenti noi operiamo una censura, addirittura un'autocensura e non raccontiamo un pezzo della nostra storia passata, presente, speriamo non troppissimo futuro.
Ma io credo che occorra narrare, poi il problema è come narrare. Allora ci sono, adesso è inutile fare la colonna dei prodotti buoni e quella dei prodotti cattivi, però un paio di parametri si possono individuare.
Intanto una narrazione deve essere aderente anche quando è una narrazione che ha una parte, un filo letterario, romanzato, eccetera. Però occorre che ci sia un'aderenza ai fatti e soprattutto credo io che occorra evitare di cedere facilmente
alla fascinazione del male. La fascinazione del male esiste, è inutile che ce lo neghiamo. Allora se noi su questa fascinazione ci mettiamo anche del nostro, non raccontiamo bene.
Allora io credo che per esempio un buon prodotto sia quello in cui tu racconti le mafie ma racconti anche le vittime, cioè dentro a sti racconti ci deve essere anche il danno sociale, gli effetti negativi, che cosa significa la presenza delle mafie.
Ci vogliono anche le vittime, cioè ci vuole la vittima, non è un problema di scegliere la rappresentazione del dolore rispetto a quella. Io capisco che la fascinazione del male fa cassetta, fa più numero, perché quando tu ci metti la vittima devi raccontare il dolore,
devi raccontare delle cose che sono anche molto, molto seri e drammatiche e capisco che poi a un certo punto se stai in televisione quando arriva sto pezzo cambi canale, allora questo non ti piace perché tu devi sempre tenere il filo.
Poi io non trovo sbagliato che si raccontino i mafiosi evitando i cliché perché poi i mafiosi sono persone in carne e ossa, anche i boss sono persone in carne e ossa, che hanno le loro famiglie, i loro figli, che hanno i loro problemi, che litigano con la moglie, con il figlio, c'è il figlio che vuole uscire e quello che non vuole, che esca, insomma hanno anche i problemi della quotidianità.
Che si raccontino? Non è strano, il boss non è per forza quello fatto tutto di cliché, fatto tutto di apparenze, ha anche un suo aspetto umano, lo vogliamo raccontare raccontiamo, però mettiamolo sempre, ci vuole contraltare, cioè il prodotto deve avere al suo interno un contraddittorio.
Dopodiché io per esempio ritengo che molte cose, la narrazione delle mafie è tanto più importante, va tanto più nel segno quanto ha una maggiore capacità di superare il confine, lo steccato degli addetti ai lavori.
Perché altrimenti noi questa narrazione la facciamo sempre a noi stessi, cioè parliamo sempre tra di noi, tra virgolette.
Allora quando tu hai la capacità di raccontare una cosa che colpisce, va dentro, entra nelle case, colpisce il cuore delle persone, la loro testa le fa riflettere, le fa ragionare, questa è una cosa positiva.
Io in tanti anni non amo vedere, quindi io non ho mai visto, lo confesso, non ho mai visto Gomorra, non ho mai visto Suburra, niente di tutto questo, mi dispiace, non l'ho mai vista, non l'ho mai vista, non guardo la televisione quindi non vedo queste cose.
C'è un certo sconcerto in sala.
Preferisco leggere i libri, ma non so, almeno finché la televisione sarà questa.
Però c'è una cosa che a me ha colpito moltissimo e che secondo me negli ultimi anni è uno straordinario esempio di come si racconta un pezzo della nostra storia, un pezzo di mafia.
Una cosa che mi ha veramente strabiliato è che ha avuto la capacità di entrare nelle case di 12 milioni di italiani perché il racconto con cui Ficarra e Picone, che non è che sanno cogliere, sono ironici, fanno anche ridere, in un'edizione di Sanremo di molti anni fa loro fecero un monologo, erano in due,
un monologo?
Esatto, un monologo in due, in cui raccontarono in pochissimi minuti, se non ricordo male erano 6-7 minuti, l'omicidio di Padre Puccini.
Ed era una cosa straordinaria perché non, quando furono presentati, dicevo noi raccontiamo Pino, ma il 95% degli italiani non sapeva che cos'era e che cosa stavano raccontando e loro iniziarono il loro racconto con un tono ironico, cioè che faceva ridere,
dopodiché mano a mano che il racconto è andato avanti ovviamente è diventato un pugno nello stomaco ed era raggelante ed è stato un racconto straordinario, pochissime battute e con il loro stile particolare, particolarissimo, hanno raccontato a 12 milioni di italiani chi era Pino Puglisi e perché e come fu ammazzato e io lo trovo una cosa straordinaria.
A me pare che valga la pena fermarsi un attimo su questo punto, anche approfittando del fatto che abbiamo qui Generico Carofigli e Giorna Foschini, due persone che in questi anni hanno fatto molto anche nella comunicazione del fenomeno, che è importantissima perché se noi tutti pensiamo che per combattere questi fenomeni non bastano i magistrati, ma ci vogliono tutti i cittadini, cosa i cittadini pensino di queste organizzazioni è fondamentale.
E l'immaginario, cioè quello che noi pensiamo di questa organizzazione lo fanno moltissimo i scrittori, i giornalisti, lunedì prossimo per coincidenza io vado a Milano perché si conclude un ciclo di lezioni, non so se l'avete avuto a quella di Roma, che si chiama Romanzi nel tempo, in cui uno storico prende un romanzo e lo smonte, c'è Salvatore Lupo che parla del padrino, voi sapete che il padrino, adesso non so quanto abbiamo venduto ma credo che sia uno dei limmi che ha venduto cifre pazzesche,
in quella lezione pezzo per pezzo Salvatore Lupo dimostra e fa vedere come è quasi tutto sbagliato, è falso, un romanzo che per un accaso piacerebbe moltissimo ai mafiosi, e che ha condizionato però la nostra idea, non solo quella degli americani.
Allora la domanda che faccio tutti e quattro è ma la critica ai cattivi prodotti di massa chi la deve fare? Cioè quando esce un pessimo romanzo, un pessimo articolo, un pessimo racconto, magari bellissimo dal punto di vista stilistico perché uno può fare un meraviglioso film dal punto di vista della qualità delle immagini, un racconto scritto molto bene, ma che dà un'immagine falsa edulcorata e non ci sono le vite.
Chi la deve fare la critica? Chi deve dire all'opinione pubblica? Lo chiedo perché capisco che c'è una difficoltà dei magistrati a farlo, lo capisco Giuseppe, però chi altro la fa? Chi la può fare?
L'etica, il consumatore che ha un'etica.
L'etica non è che si nasce con l'etica, non so come più.
Gabriella però non è che io nasco già, voglio dire le cose che ho ascoltato oggi per me sono fondamentali nel formarmi la mia idea.
Allora quando esce, diciamo, ne sono usciti, ho fatto il caso del padrino per dire un caso risalente a molti anni fa, un libro quasi completamente sbagliato, questa lezione di Salvatore Ruppa è impressionante, lo smonta, e che però ha condizionato moltissimo l'idea della magia, facendo danni probabilmente.
E probabilmente Puzo è anche un buon scrittore dal punto di vista della scrittura.
Allora, chiedo a voi quattro, avete vogli diversi.
Anche Gomorra lo sta facendo.
Ma adesso, dico, chi la deve fare la critica di questi fenomeni?
Direi che ci stiamo anche avendo, scusate, adesso facciamo questo, è un tema importante, l'abbiamo non deliberatamente tenuto per il finale, ma va benissimo così, quindi dico la mia opinione, poi passo al microfono.
Intanto, se volete vedere un film che racconta in modo credibile lo squallore del mondo criminale, guardate Ruth Stellas, l'unico per me, quei bravi ragazzi, con De Niro, Ray Liotta, che fa il pentito, incredibilissima figura, è un film del 90, del 91.
Detto questo, siccome non mi voglio sottrarre allo spunto che Pepe Aurora ha lanciato, vi dico questo, che posto che naturalmente ognuno scrive quello che vuole e fa i film che vuole perché nessuno si sogna di fare la censura, abbiamo il diritto di esprimere la nostra opinione.
E la nostra opinione si può innestare su un piano e su un confine tra l'etica della narrazione e la qualità della narrazione, sia letteraria sia cinematografica.
Allora, cerco di dirlo in maniera molto sintetica. Racconti di questo tipo, il racconto del mondo criminale, per come viene presentato in certi prodotti, dovrebbe essere un racconto veridico, cioè loro si presentano come i narratori di come stanno le cose veramente.
Non è così. Le cose non stanno veramente come vengono raccontate in certi prodotti di grandissimo successo commerciale. Perché se è vero che il crimine in certe zone del nostro Paese, in certi contesti, è una realtà terribilmente aggressiva ed oppressiva, e se è vero che raccontare in altri campi storie in cui stucchevolmente il bene vince e il male perde è cattiva letteratura, cattivo cinema, cattiva televisione,
è più vero che raccontare storie che sono l'opposto di queste, quelle in cui il male domina in contrastato. È un mondo in cui non esiste altro che il successo criminale, un mondo in cui i magistrati e i poliziotti, i carabinieri, i finanzieri, sembrano completamente impotenti a ostacolare, non dico affermare, le azioni dei criminali. È un mondo finto, tanto finto quanto quello dei buoni che vincono sui cattivi.
È un mondo complicato, c'è il cosiddetto bene e il cosiddetto male, ci sono realtà complesse, ci sono tragedie che bisogna sempre raccontare, ma raccontare facendo credere che quella è una narrazione veridica, un mondo in cui i cattivi, scusate l'espressione naif, deliberatamente usata, spadroneggiano, fanno quello che vogliono e di fatto diventano dei miti, dei personaggi ripestiti di una allure leggendaria,
è una cosa sulla quale bisognerebbe interrogarsi, fermo restando che ognuno scrive e racconta quello che vuole. Io ho una sensazione, anch'io non ho visto quasi nulla di quella roba là, ma perché ho visto qualcosa e mi sono, come si dice, venuti i nervi, perché ho trovato il racconto non credibile, non veridico.
Se il mondo reale è una cosa diversa e se il mondo reale è una cosa diversa e tu mi proponi come mondo reale una narrazione che mitizza i criminali e produce questo effetto, beh io credo che qualche domanda te la devi portare.
Darci pure l'incarico di questa polemica, veramente. E tu lo puoi fare perché non sei più magistrato, già siamo costetti a farne, soprattutto a subirne troppe senza bisogno di rintruggere quelle letterarie.
Io penso che il nostro compito sotto questo specifico angolo di vista sia, lo sai quello che penso, di fare le indagini dei processi. Le indagini si fanno per arrivare a sentenza, però in questo modo diventano pubblici tanti elementi di conoscenza.
Poi ci sarà quello che si piglia, come dire, leggendo i resoconti processuali in senso lato, che ormai sono anche intercettazioni, sono filmati, sono tante altre cose, sono documenti di computer per modo di dire, sono versamenti bancari, tanto dichiarazioni di collaboratori giustizie, dichiarazioni delle vittime, come diceva Michele.
Noi ne abbiamo interrogate a decine di vittime, sia in Sicilia che in Calabria, e non è un'esperienza proprio bellissima da fare, invece quando tu non riesci a dare una risposta neanche minima alla loro richiesta di giustizia.
Ora, dico, il nostro compito è di fare le indagini per fare i processi, in questo modo vengono fuori tanti elementi di conoscenza che se non ci sarebbero, perché le mafie sono associazioni segrete, quindi tu, morto in mezzo alla strada, non sai cosa c'è dietro.
Dopodiché, quello di più che a noi si può chiedere, secondo me, è di farci capire, che non è neanche questo facilissimo, cioè noi abbiamo e dobbiamo avere un linguaggio tecnico e juridico, però fra scrivere sentenze in senso lato richieste cautelare, mandate le catture come si chiamavano una volta, totalmente incomprensibili,
che non le capisco neanche io che sto per andare in pensione, però sono parole belle che suonano bene, uno dice la Cassazione, 24 pagine in città sulla Cassazione, alla fine neanche io capisco più che cosa è.
Restando fedeli ai fatti che sono emersi, alle regole del processo, farsi capire da chi, animato da buona volontà, legge un giornale o addirittura un settimana d'ora o addirittura un libro, questo è un di più che ci si può credere, non è di chiedere, e non è neanche questo facilissimo, per il resto sottoscrivo quello che hanno detto Michele e Gianni, al professionista.
Giornalisti hanno dei compiti anche giornalisti.
Aggiungo una cosa di mio, tanto per fare un esempio di come si ribalta, Gianrico diceva giustamente falso, una serie di prodotti si fonda su uno schema proprio basico, che sono i titoli di fin degli anni 70, la polizia indaga e i magistrati invece bloccano,
con l'idea che questa contrapposizione tra la polizia che vuole arrestare e indirizzare i colpi di un accesso e i magistrati che invece pongono le mitiche pastoie burocratiche, queste roba strane eccetera, questa cosa è storicamente un falso, perché noi abbiamo la più avanzata legislazione antimafia, abbiamo degli strumenti efficientissimi,
siamo da moltissimi anni, soprattutto le procure più grandi, quelle che hanno sede distrettuali, che lavorano in piena sintonia con le differenze di ruoli, di compiti, con le forze di polizia giudiziali,
e noi anzi di questa sorta di contrapposizione la dobbiamo ribaltare completamente, perché forse noi tra le tante cose storte, le tante ovacità, omissioni, incapacità, inadeguatezze, una l'abbiamo fatta giusta, cioè noi abbiamo vinto un sacco di battaglie dopo il 92-93, dopo le stragi, nei confronti di organizzazioni mafiosi potentissime,
non abbiamo vinto la guerra, abbiamo vinto alcune battaglie, però alcune le abbiamo vinte e per la prima volta nel corso della storia di sempre, dall'Ottocento in poi, noi le abbiamo vinte rispettando le regole democratiche che lo Stato si è dato, e quindi questa è una cosa di cui noi dobbiamo fare vanto,
cioè è un punto qualificante dell'attività che abbiamo svolto in questi anni, sia noi magistratura che forze di polizia, ed è l'esatto contrario di quello schema basico, rozzo e proprio approssimativo per il quale ci sarebbe una polizia che vuole andare contro le regole e una magistratura che invece fa diventare quelle regole pastoie burocratiche, è una cosa che non esiste.
Io rispondo molto brevemente, nel senso che deve essere chiaro lo scarto iniziale, c'è chi fa il cronista e chi fa lo scrittore, c'è chi fa la cronaca, chi fa attaccare i fatti e chi fa letteratura che per definizione i fatti esagera, l'importante è che sia chiaro lo scarto iniziale,
per cui è evidente che chi fa il giornalista e chi fa il cronista, anche quando scrive i libri, l'ha attaccato i fatti, non può concedersi nessuna sbalatura.
Penso però che il ruolo della divulgazione, come diceva il dottor Prastipino, è fondamentale, è centrale, ma è centrale nella società civile, lo diciamo qui in un posto dove esiste una mafia che sul suo silenzio, sul fatto di non avere nemmeno un nome, ci sta costruendo una fortuna, che è la mafia poggiana.
La mafia garganica sono 25 anni, così come i foggiani che ammazzano, fanno affari, e il fatto che nessuno li abbia raccontati, nonostante ci siano sentenze che li raccontano perfettamente, nonostante i magistrati abbiano fatto benissimo il loro mestiere, è diventato quel silenzio una forza.
Il punto è che raccontare diventa anche un dovere civile, il tema è come farlo e il tema è farlo secondo il proprio ruolo. Se uno fa lo scrittore, secondo me ha licenza di saggiornare i fatti, perché non lo dica. Io sto scrivendo un romanzo, chi fa il cronista ha il dovere di stare attaccato ai fatti.
Io vorrei fare solo un'ultima domanda al dottor Pestipino, che riguarda l'ultimo capitolo del vostro libro. Esiste una maniera per sconfiggere, voi citate una frase di Attilio Bolzoni, quando dice la mafia vissuta e subita, con questo mito dell'invincibilità, che si deve fare, cosa avete fatto, non lo sappiamo, ma che si deve fare e quali sono gli strumenti.
Io penso, come ha detto ora ora Michele, che c'è un esempio positivo, concreto, che è proprio la guerra che lo Stato ha fatto alla mafia corleonese, alla mafia delle stracce. La guerra è stata vinta, la mafia corleonese è stata sconfitta.
Tutti i responsabili, tranne Messina Leale, che prima o poi sarà preso pure lui, tutti gli altri responsabili di quella stagione di sangue, di stragi, di aggressione allo Stato, sono o morti, o in galera, o diventati collaboratori di giustizia con questo stesso ammettendolo a sconfiggere.
Quello è stato un esempio virtuoso. Virtuoso cosa significa? Ha che c'è una legislazione efficiente, perché senza legge efficiente non si va da nessuna parte. Io leggevo tutto Stori di mafia siciliana, una dichiarazione dalla Chiesa prima che venisse a Palermo, negli anni 70, che diceva siamo senza unghie, perché non c'erano gli strumenti necessari.
Lì, io sono partito da 416 viste, dalla confisca dei beni, sono due degli strumenti chiave che consentono di combattere la mafia. Numero uno. Due, ci vuole risorse, è inutile starci a scherzare, se non ci sono risorse non si può fare niente, vale l'economia, vale la letteratura, vale anche per inserire il processo.
Significa polizia, carabinieri, finanze, magistrati, cangeriieri, benzina per le macchine, tonner per gli stampanti e così via. Banale, ma ci vuole pure questo. Terza cosa che c'è stata in Sicilia contro quelle mafie, ci vuole un'azione, anche una reazione se preferita, della società civile.
La magistratura, la sua, quando proprio va tutto bene, crea spazi di libertà, cioè arresta la gente, i mafiosi che presidiano un territorio o le reti corruttive che presidiano un settore di affari e non fanno crescere un'economia sana, li mette in galera, però poi devono arrivare i buoni.
Se non arrivano i buoni che occupano quegli spazi, dico per esempio che viene sciolto un consiglio comunale per macchie, se poi non si presentano dei partiti, delle viste, dei movimenti, chiamateli come volete, persone per bene, che si prendono la croce, perché una croce spesso è di andare ad amministrare quel comune, passeranno due, quattro, tre anni, torneranno, ci sarà un commissario più o meno bravo, che però farà ordine all'amministrazione e poi torneranno i mafiosi.
Queste tre condizioni in quel caso si sono verificate con l'aiuto della pubblica informazione, dell'internavistica, hanno raccontato, spiegato, fatto capire tutte queste belle cose e si sono ragionate. Farlo contemporaneamente in tante parti d'Italia mi rende che è difficile, però è il compito che abbiamo da fare noi.
Una domanda che per quanto mi riguarda è rubida, non c'è dubbio. L'invincibilità delle mafie è un'invenzione in vitro, l'hanno inventata, l'hanno costruita, ce l'hanno inoculata, dopo di che tutti ci siamo, come dire, è passata, perché è un'invenzione in vitro?
E' una ristificazione culturale. Che hanno fatto? I mafiosi innanzitutto, che sono i primi diretti interessati, a passarsi come invincibili e vi dimostrerò che non è così. E dall'altro lato purtroppo, di riflesso, una certa antimafia che ha vissuto specularmente sulla invincibilità dei mafiosi, perché se sono invincibili i mafiosi allora noi dobbiamo sempre esistere, siamo indispensabili e diventiamo indispensabili proprio come ristrutture.
E' un riflesso della invincibilità dei mafiosi. Allora, io sfido chiunque a dirmi il nome di uno che ha fatto parte di un'organizzazione criminale di tipo mafioso, medio, non che sia il capo, non che sia l'ultima roda di scorta, che uno medio che ha fatto parte di lei e che dopo vent'anni lo può raccontare.
Che dopo vent'anni lo può raccontare, perché tutti questi, altro che invincibilità, tutti indistintamente o sono morti e ammazzati, o finiscono poi seppelliti da anni di galera o comunque hanno le vite martoriate, rovinate negli affetti, nei legami, in tutto ciò che li riguarda, oppure se decidono di cambiare vita diventano collaboratori di giustizia ma con tutti i problemi che questa scelta genera.
Di cambiamento, sradicamento, i figli e tutto quello che stampiamo. Non ce n'è uno, altro che invincibilità. Questa è la verità. I capi di Cosa Nostra che sembravano dovessero dominare il nostro paese sono tutti, qualcuno è morto di morte naturale, qualcuno è morto di morte non naturale, ma sono tutti assicurati alla giustizia.
Passatemi il termine, seppelliti del casto. Questo è il dato reale, quello vero, non ce n'è un altro. Dopodiché anche nelle battaglie più dure, anche in quelle che sembrano difficilissime, è chiaro noi facciamo la nostra parte, ognuno ci mette il proprio impegno e dà il massimo.
Dopodiché, in qualche battaglia si vince in modo più semplice, in qualche battaglia ci vuole più tempo. Dopodiché l'invincibilità, come dire, se per invincibilità intendiamo dire l'esistenza ancora delle mafie nel nostro paese, questo è un dato sul quale noi dobbiamo riflettere.
Noi le mafie le abbiamo da prima che si costituisse il nostro paese come stato unitario. Hanno una storia plurisecolare, chi 150, chi più di 200 anni, chi più o meno 200 anni, sono fenomeni complessi, ovviamente per affrontarli e sconfiggerli ci vuole molto impegno, ci vuole molto tempo, ci vogliono i cambiamenti sociali, non basta la repressione, tutto quello che sappiamo.
Ma questa è una cosa, l'invincibilità è un'altra e non esiste.
Grazie.
Grazie.
Grazie.
Io volevo recuperare il fil rouge del vostro libro e quindi tornare alla tesi di fondo. I modelli criminali sono tanti, ma pur sempre di mafie si tratta.
Ed è da metà degli anni 90 che correttamente gli osservatori del sistema della criminalità organizzata hanno incominciato a parlare di mafie al plurale.
E voglio assestare un assist in pisticcio nei confronti della tesi di fondo.
Mi sento molto a scuola, mi sento in condonna ed è sempre colpa dei giornalisti, questa soluzione.
Volevo dire questo allora. Noi abbiamo in Puglia una mafia molecolare. La relazione della DIA sulla criminalità organizzata pugliese del 2017 con riferimento al primo semestre parla di 135 plan,
di cui 35 a Bari e 44 a Forgia e Provincia e di 115 città interessate dal fenomeno. Si tratta di quelle che voi chiamate, dico, le mafie, per cui in alcuni casi sono intervenute sentenze irrevocabili della Corte di Cassazione.
La Corte di Cassazione, Gianrico, ha istruito un processo alla mafia di Celiniova, due gruppi contrapposti, che si chiamava Cartagine, perché lui ha, con quell'indagine, distrutto per una ventina d'anni i plan che adesso con il rientro sul terreno di molti dei condannati si stanno facendo la fale.
In quel processo la Corte d'assistenza di primo grado ha inflitto 15 argastoni, io li ho raccontati perché ho seguito il processo in appello, quando gli argastoni nel maxi, uno di Palermo molto più importante per tante ragioni, erano 19.
C'erano stati 40 anni di omicidi che si erano ripetuti in un comune di 60.000 abitanti. L'etichetta di mafia è stata infine dalla Cassazione appiccicata a quei gruppi. Così è accaduto, per esempio, a Forgia, dove una sentenza irrevocabile ha stabilito che esiste la società forgiana,
che è costituita da tre batterie che magari quando sono in contrasto si sparano reciprocamente, ma che quando ci sono affari importanti da concludere si riuniscono e si riconoscono in questa unica associazione, che pure non ha un capo,
una struttura ancora diversa da tante altre in cui l'unità dei gruppi associativi presuppone l'esistenza di una cupola, di un capo, eccetera. Tutti questi modelli hanno nel tempo determinato una scia di sangue, Foschini la conosce benissimo perché la studia da tempo,
per esempio in Gargano e a Forgia, in provincia di Forgia, che si è sostanziata negli ultimi 35-38 anni in circa 300 se non più omicidi di mafia, con una reazione dello Stato sicuramente tardiva perché solo negli ultimi anni finalmente si è presa coscienza della realtà, si è intervenuti potenziando le forze di polizia,
creando dei nuovi nuclei investigativi e finalmente si spera che i risultati che in parte sono già intervenuti possano essere sempre più importanti.
Quindi io condivido bene la vostra testa, devo dire che probabilmente è stato possibile per voi dimostrare che anche a Roma, in provincia di Roma, esistevano gruppi mafiosi che non erano le mafie storiche perché probabilmente avete guardato la realtà con occhi distaccanti da persone che in qualche modo venivano da lontano.
Complimenti.
Si accomodi?
Guardi, non la risponderà nessuno, lei sta facendo una vilania, soltanto una vilania, perché se è per tutti escluso il dibattito, è escluso anche per lei, perché se è per lei, noi dobbiamo permetterlo anche agli altri.
Si accomodi?
Dicevamo che lo schema che viene fuori da questa nostra riflessione è uno schema che ci proietta verso il futuro, le sue prospettive di lavoro, le prospettive investigative, le strategie di ricostruzione dei fenomeni.
Ovviamente nel libro esistono tantissimi spunti per capire il fenomeno, è davvero non con una clausola di stile, io vi suggerisco di reggerlo perché, ripeto, si tratta di un libro che richiede un impegno di lettura, ma non nel senso che sia arduo, nel senso che è rigoroso, è legato al contenuto degli atti,
però non si lascia vincolare dagli atti, perché sviluppa una serie di riflessioni, ho trovato enormemente interessanti e non ne abbiamo parlato qui, ma va bene, quelle sul rapporto strutturale in termini di sistema fra mafia e corruzione, la riflessione sul fenomeno corruttivo come autentico cancro di questo paese, ci sarebbe piaciuto, ma lo faremo un'altra volta, fare per esempio una riflessione sui nuovi strumenti investigativi contro la corruzione,
fare una riflessione sul tema dell'uso del contante, che è una banalità di cui si parla troppo poco, ma pensate quanto il fenomeno corruttivo vorrebbe essere circoscritto se in Italia e in paesi come l'Italia si facesse come in Norvegia, cioè semplicemente eliminare l'uso del contante, non è proprio facile fare una rapina andando per la parte di credito o cose simili.
Insomma io chiudo ringraziandovi tutti quanti per essere stati qua, grazie per il gruppo e grazie per la conversazione, ci vediamo al prossimo episodio.