VII - Cambio treno (Seconda parte)
VII: Cambio treno (Seconda parte) Mi aveva ora assalito un dubbio: il dubbio se quella notizia fosse già stata smentita; se già si fosse riconosciuto l'errore, a Miragno; se fossero saltati fuori i parenti del vero morto a correggere la falsa identificazione. Prima di rallegrarmi così, dovevo bene accertarmi, aver notizie precise e particolareggiate.
Ma come procurarmele? Mi cercai nelle tasche il giornale.
Lo avevo lasciato in treno. Mi voltai a guardare il binario deserto, che si snodava lucido per un tratto nella notte silenziosa, e mi sentii come smarrito, nel vuoto, in quella misera stazionuccia di passaggio. Un dubbio più forte mi assalì, allora: che io avessi sognato? Ma no:
« Ci telegrafano da Miragno. Jeri, sabato 28... » Ecco: potevo ripetere a memoria, parola per parola, il telegramma.
Non c'era dubbio! Tuttavia, sì, era troppo poco; non poteva bastarmi. Guardai la stazione; lessi il nome: ALENGA.
Avrei trovato in quel paese altri giornali?
Mi sovvenne che era domenica. A Miragno, dunque, quella mattina, era uscito Il Foglietto , l'unico giornale che vi si stampasse. A tutti i costi dovevo procurarmene una copia. Lì avrei trovato tutte le notizie particolareggiate che m'abbisognavano. Ma come sperare di trovare ad Alenga Il Foglietto ? Ebbene: avrei telegrafato sotto un falso nome alla redazione del giornale. Conoscevo il direttore, Miro Colzi, Lodoletta come tutti lo chiamavano a Miragno, da quando, giovinetto, aveva pubblicato con questo titolo gentile il suo primo e ultimo volume di versi. Per Lodoletta però non sarebbe stato un avvenimento quella richiesta di copie del suo giornale da Alenga? Certo la notizia più « interessante » di quella settimana, e perciò il pezzo più forte di quel numero, doveva essere il mio suicidio. E non mi sarei dunque esposto al rischio che la richiesta insolita facesse nascere in lui qualche sospetto? « Ma che!
» pensai poi. « A Lodoletta non può venire in mente ch'io non mi sia affogato davvero. Cercherà la ragione della richiesta in qualche altro pezzo forte del suo numero d'oggi. Da tempo combatte strenuamente contro il Municipio per la conduttura dell'acqua e per l'impianto del gas. Crederà piuttosto che sia per questa sua "campagna". Entrai nella stazione.
Per fortuna, il vetturino dell'unico legnetto, quello de la posta, stava ancora lì a chiacchierare con gl'impiegati ferroviarii: il paesello era a circa tre quarti d'ora di carrozza dalla stazione, e la via era tutta in salita. Montai su quel decrepito calessino sgangherato, senza fanali; e via nel buio.
Avevo da pensare a tante cose; pure, di tratto in tratto, la violenta impressione ricevuta alla lettura di quella notizia che mi riguardava così da vicino mi si ridestava in quella nera, ignota solitudine, e mi sentivo, allora, per un attimo, nel vuoto, come poc'anzi alla vista del binario deserto; mi sentivo paurosamente sciolto dalla vita, superstite di me stesso, sperduto, in attesa di vivere oltre la morte, senza intravedere ancora in qual modo. Domandai, per distrarmi, al vetturino, se ci fosse ad Alenga un'agenzia giornalistica:
- Come dice?
Nossignore! - Non si vendono giornali ad Alenga?
- Ah!
sissignore. Li vende il farmacista, Grottanelli. - C'è un albergo?
- C'è la locanda del Palmentino.
Era smontato da cassetta per alleggerire un po' la vecchia rozza che soffiava con le froge a terra. Lo discernevo appena. A un certo punto accese la pipa e lo vidi, allora, come a sbalzi, e pensai: « Se egli sapesse chi porta... ». Ma ritorsi subito a me stesso la domanda:
« Chi porta?
Non lo so più nemmeno io. Chi sono io ora? Bisogna che ci pensi. Un nome, almeno, un nome, bisogna che me lo dia subito, per firmare il telegramma e per non trovarmi poi imbarazzato se, alla locanda, me lo domandano. Basterà che pensi soltanto al nome, per adesso. Vediamo un po'! Come mi chiamo? Non avrei mai supposto che dovesse costarmi tanto stento e destarmi tanta smania la scelta di un nome e di un cognome. Il cognome specialmente! Accozzavo sillabe, cosi, senza pensare: venivano fuori certi cognomi, come: Strozzani, Parbetta, Martoni, Bartusi , che m'irritavano peggio i nervi. Non vi trovavo alcuna proprietà, alcun senso. Come se, in fondo, i cognomi dovessero averne... Eh, via! uno qualunque... Martoni, per esempio, perché no? Carlo Martoni... Uh, ecco fatto! Ma, poco dopo, davo una spallata: « Sì! Carlo Martello... ». E la smania ricominciava. Giunsi al paese, senza averne fissato alcuno.
Fortunatamente, là, dal farmacista, ch'era anche ufficiale telegrafico e postale, droghiere, cartolajo, giornalajo, bestia e non so che altro, non ce ne fu bisogno. Comprai una copia dei pochi giornali che gli arrivavano: giornali di Genova: Il Caffaro e Il Secolo XIX ; gli domandai poi se potevo avere Il Foglietto di Miragno. Aveva una faccia da civetta, questo Grottanelli con un pajo d'occhi tondi tondi, come di vetro, su cui abbassava, di tratto in tratto, quasi con pena certe pàlpebre cartilaginose. - Il Foglietto ? Non lo conosco. - È un giornaluccio di provincia, settimanale, - gli spiegai.
- Vorrei averlo. Il numero d'oggi, s'intende. - Il Foglietto ? Non lo dieci - badava a ripetere. - E va bene!
Non importa che lei non lo conosca io le pago le spese per un vaglia telegrafico alla redazione. Ne vorrei avere dieci venti copie, domani o al più presto. Si può? Non rispondeva: con gli occhi fissi, senza sguardo, ripeteva ancora: - Il Foglietto ?... Non lo conosco -. Finalmente si risolse a fare il vaglia telegrafico sotto la mia dettatura, indicando per il recapito la sua farmacia. E il giorno appresso, dopo una notte insonne, sconvolta da un tempestoso mareggiamento di pensieri, là nella Locanda del Palmentino, ricevetti quindici copie del Foglietto . Nei due giornali di Genova che, appena rimasto solo, m'ero affrettato a leggere, non avevo trovato alcun cenno. Mi tremavano le mani nello spiegare Il Foglietto . In prima pagina, nulla. Cercai nelle due interne, e subito mi saltò a gli occhi un segno di lutto in capo alla terza pagina e, sotto, a grosse lettere, il mio nome. Così: MATTIA PASCAL
Non si avevano notizie di lui da alquanti giorni: giorni di tremenda costernazione e d'inenarrabile angoscia per la desolata famiglia; costernazione e angoscia condivise dalla miglior parte della nostra cittadinanza, che lo amava e lo stimava per la bontà dell'animo, per la giovialità del carattere e per quella natural modestia, che gli aveva permesso, insieme con le altre doti, di sopportare senza avvilimento e con rassegnazione gli avversi fati, onde dalla spensierata agiatezza si era in questi ultimi tempi ridotto in umile stato. Quando, dopo il primo giorno dell'inesplicabile assenza, la famiglia impressionata si recò alla Biblioteca Boccamazza, dove egli, zelantissimo del suo ufficio, si tratteneva quasi tutto il giorno ad arricchire con dotte letture la sua vivace intelligenza, trovò chiusa la porta; subito, innanti a questa porta chiusa, sorse nero e trepidante il sospetto, sospetto tosto fugato dalla lusinga che durò parecchi dì, man mano però raffievolendosi, ch'egli si fosse allontanato dal paese per qualche sua segreta ragione. Ma ahimè!
La verità doveva purtroppo esser quella! La perdita recente della madre adoratissima e, a un tempo, dell'unica figlioletta, dopo la perdita degli aviti beni, aveva profondamente sconvolto l'animo del povero amico nostro. Tanto che, circa tre mesi addietro, già una prima volta, di notte tempo, egli aveva tentato di pôr fine a' suoi miseri giorni, là, nella gora appunto di quel molino, che gli ricordava i passati splendori della sua casa ed il suo tempo felice. ...Nessun maggior dolore Che ricordarsi del tempo felice Nella miseria... Con le lacrime agli occhi e singhiozzando cel narrava, innanzi al grondante e disfatto cadavere, un vecchio mugnajo, fedele e devoto alla famiglia degli antichi padroni. Era calata la notte, lugubre; una lucerna rossa era stata deposta lì per terra, presso al cadavere vigilato da due Reali Carabinieri e il vecchio Filippo Brina (lo segnaliamo all'ammirazione dei buoni) parlava e lagrimava con noi. Egli era riuscito in quella triste notte a impedire che l'infelice riducesse ad effetto il violento proposito; ma non si trovò più là Filippo Brina pronto ad impedirlo, questa seconda volta. E Mattia Pascal giacque, forse tutta una notte e metà del giorno appresso, nella gora di quel molino. Non tentiamo nemmeno di descrivere la straziante scena che seguì sul luogo, quando l'altro ieri, in sul far della sera, la vedova sconsolata si trovò innanzi alla miseranda spoglia irriconoscibile del diletto compagno, che era andato a raggiungere la figlioletta sua. Tutto il paese ha preso parte al cordoglio di lei e ha voluto dimostrarlo accompagnando all'estrema dimora il cadavere, a cui rivolse brevi e commosse parole d'addio il nostro assessore comunale cav. Pomino. Noi inviamo alla povera famiglia immersa in tanto lutto, al fratello Roberto lontano da Miragno, le nostre più sentite condoglianze, e col cuore lacerato diciamo per l'ultima volta al nostro buon Mattia: - Vale, diletto amico, vale! M. C.
Anche senza queste due iniziali avrei riconosciuto Lodoletta come autore della necrologia.
Ma debbo innanzi tutto confessare che la vista del mio nome stampato lì, sotto quella striscia nera, per quanto me l'aspettassi, non solo non mi rallegrò affatto, ma mi accelerò talmente i battiti del cuore, che, dopo alcune righe, dovetti interrompere la lettura. La « tremenda costernazione e l'inenarrabile angoscia » della mia famiglia non mi fecero ridere, né l'amore e la stima dei miei concittadini per le mie belle virtù, né il mio zelo per l'ufficio. Il ricordo di quella mia tristissima notte alla Stìa , dopo la morte della mamma e della mia piccina, ch'era stato come una prova, e forse la più forte, del mio suicidio, mi sorprese dapprima, quale una impreveduta e sinistra partecipazione del caso; poi mi cagionò rimorso e avvilimento. Eh, no!
non mi ero ucciso, io, per la morte della mamma e della figlietta mia, per quanto forse, quella notte, ne avessi avuto l'idea! Me n'ero fuggito, è vero, disperatamente; ma, ecco, ritornavo ora da una casa di giuoco, dove la Fortuna nel modo più strano mi aveva arriso e continuava ad arridermi, e un altro, invece, s'era ucciso per me, un altro, un forestiere certo, cui io rubavo il compianto dei parenti lontani e degli amici, e condannavo - oh suprema irrisione! - a subir quello che non gli apparteneva falso compianto, e finanche l'elogio funebre dell'incipriato cavalier Pomino! Questa fu la prima impressione alla lettura di quella mia necrologia sul Foglietto . Ma poi pensai che quel pover'uomo era morto non certo per causa mia, e che io, facendomi vivo non avrei potuto far rivivere anche lui; pensai che approfittandomi della sua morte, io non solo non frodavo affatto i suoi parenti, ma anzi venivo a render loro un bene: per essi, infatti, il morto ero io non lui, ed essi potevano crederlo scomparso e sperare ancora, sperare di vederlo un giorno o l'altro ricomparire. Restavano mia moglie e mia suocera.
Dovevo proprio credere alla loro pena per la mia morte, a tutta quella « inenarrabile angoscia », a quel « cordoglio straziante » del funebre pezzo forte di Lodoletta? Bastava, perbacco, aprir pian piano un occhio a quel povero morto, per accorgersi che non ero io; e anche ammesso che gli occhi fossero rimasti in fondo alla gora, via! una moglie, che veramente non voglia, non può scambiare così facilmente un altro uomo per il proprio marito. Si erano affrettate a riconoscermi in quel morto?
La vedova Pescatore sperava ora che Malagna, commosso e forse non esente di rimorso per quel mio barbaro suicidio, venisse in ajuto della povera vedova? Ebbene: contente loro, contentissimo io! « Morto?
affogato? Una croce, e non se ne parli più! Mi levai, stirai le braccia e trassi un lunghissimo respiro di sollievo.