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Piccolo mondo antico di Antonio Fogazzaro, PARTE PRIMA - 3. Il gran passo (parte 1)

PARTE PRIMA - 3. Il gran passo (parte 1)

Quella stessa sera, alle dieci in punto, l'ingegnere Ribera batteva due colpi discreti alla porta del signor Giacomo Puttini in Albogasio Superiore. Poco dopo si apriva una finestra sopra il suo capo e vi compariva al chiaro di luna il vecchio visetto imberbe del «sior Zacomo».

«Ingegnere pregiatissimo, mia riverenza», disse egli. «Vien subito la servente a verzeghe.» «Non occorre», rispose l'altro. «Non salgo. È ora di partire. Venga giù Lei addirittura.» Il signor Giacomo cominciò a soffiare e battere le palpebre. «La mi perdoni», diss'egli nel suo linguaggio misto di tutti gl'ingredienti. «La mi perdoni, ingegnere pregiatissimo. Gavarìa propramente necessità...»

«Di cosa?», fece l'ingegnere seccato. La porta si aperse e comparve la gialla faccia grifagna della serva. «Oh scior parent!», diss'ella rispettosamente. Vantava non so quale affinità con la famiglia dell'ingegnere, e lo chiamava sempre così. «A sti òr chì? L'è staa forsi a trovà la sciora parenta?» La «sciora parenta» era la sorella dell'ingegnere, la signora Rigey. L'ingegnere si contentò di rispondere: «Oh Marianna, vi saluto, neh?», e salì le scale seguito da Marianna col lume. «Mia riverenza», cominciò il signor Giacomo venendogli incontro con un altro lume. «Capisco e riconosco la inconvenienza grande, ma propramente...»

Il visetto raso e roseo del signor Giacomo, posato sopra un cravattone bianco e una piccola smilza personcina chiusa in un soprabito nero, esprimeva nei moti convulsi delle labbra e delle sopracciglia, negli occhi dolenti, la più comica inquietudine. «Cosa c'è di nuovo?», chiese l'ingegnere alquanto brusco. Egli, l'uomo più retto e schietto che fosse al mondo, compativa poco le esitazioni del povero timido signor Giacomo. «La permetta», cominciò il Puttini; e, voltosi alla serva, le disse aspramente: «Andè via, vu; andè in cusina; vegnì quando che ve ciamarò; andè, digo! Obedì! Abiè rispeto! Comando mi! Son paron mi!» Era la curiosità della serva, la sua noncuranza impertinente delle istruzioni superiori che accendevano nel «sior Zacomo» questo furore dispotico. «Euh, che diavol d'on omm!», rispose colei, alzando rabbiosamente il lume in aria. «L'ha de vosà a quela manera lì? Coss'el dis, scior parent?» «Sentite», fece l'ingegnere. «Invece di menar la lingua, non fareste meglio ad andar fuori dei piedi?» Marianna se n'andò brontolando e il signor Giacomo si fece a informare l'ingegnere pregiatissimo con molti ma, se, digo, e propramente , degl'intimi suoi pensieri. Egli aveva promesso di assistere come testimonio alle nozze segrete di Luisa, ma ora, sul punto di andar a Castello, gli era venuta una gran paura di compromettersi. Era primo deputato politico, come si chiamava allora la suprema autorità comunale. Se il riveritissimo I. R. Commissario di Porlezza venisse a sapere di questo pasticcio, come la intenderebbe? E quella signora marchesa? «Una donna cattiva, ingegnere pregiatissimo; una donna vendicativa.» Ed egli aveva già tanti altri fastidi. «Ghe xe anca quel maledeto toro!». Questo toro, soggetto d'una questione fra il comune d'Albogasio e l' alpador o appaltatore dell'Alpe, dei pascoli alti, era da due anni un incubo mortale per il povero signor Giacomo che, quando parlava delle sue disgrazie, incominciava sempre con la «perfida servente» e finiva col toro: «Ghe xe anca quel maledeto toro!». E così dicendo alzava il suo visetto, i suoi occhi pieni di una esecrazione dolorosa, scoteva le mani su verso il ciglione della montagna imminente alla sua casa, verso il domicilio del bestione diabolico. Ma l'ingegnere che mostrava in quella sua bella faccia d'impavido galantuomo una disapprovazione continua, un disgusto crescente dell'ometto pusillanime che gli si contorceva davanti, dopo parecchi «oh povero me!» che avevano per sottinteso "in che compagnia sono!" perdette ogni pazienza, e inarcando le braccia con i gomiti in fuori e scotendole come se tenesse le redini di un ronzino poltrone, esclamò: «Ma cosa mai, ma cosa mai! Pare impossibile! Questi son discorsi da fatuo, caro signor Giacomo. Non avrei mai creduto che un uomo, dirò così...». Qui l'ingegnere, non sapendo veramente come dire, come definire il suo interlocutore, non fece che gonfiar le gote, mettendo un lungo mormorio, una specie di rantolo, come se avesse in bocca un epiteto troppo grosso e non potesse sputarlo. Intanto il signor Giacomo, rosso rosso, si affannava a protestare: «Basta, basta, La scusa, son qua, vegno, no La se scalda, no go fato che esprimer un dubio; ingegnere pregiatissimo, Ela conosse el mondo, mi lo go conossuto ma no lo conosso più». Si ritirò e ricomparve subito tenendo in mano una tuba mostruosa, a larghe tese, che aveva visto l'ingresso di Ferdinando a Verona nel così detto «anno dell'imperatore», nel 1838. «Credo conveniente», diss'egli, «un tal quale segno di rispetto e di compiacenza.» L'ingegnere, vedendo quel coso, esclamò ancora: «Cosa mai, cosa mai?». Ma l'ometto, cerimonioso nell'anima, tenne duro: «Il mio dovere, il mio dovere», e chiamò la Marianna che facesse lume. Costei, quando vide il padrone con quello spettacoloso segno di compiacenza in capo, incominciò a far le meraviglie. «La tasa!», sbuffò il disgraziato signor Giacomo. «Tasì!», e appena fuori dell'uscio si sfogò. «No ghe xe ponto de dubio; quela maledetissima servente sarà la me morte.» «E perché non la manda via?», chiese l'ingegnere. Il signor Giacomo aveva posto un piede sul primo scalino della viottola che sale a fianco della casa Puttini, quando quest'acuta interrogazione, penetrandogli come un pugnale nella coscienza, lo fermò di botto. «Eh!», rispose sospirando. «Ah!», fece l'ingegnere. «Cossa vorla?», riprese l'altro dopo una breve pausa. «Questo xe quelo.»

Pronunciata in via di epilogo, secondo un vecchio uso veneto, tale disgraziata identità dei due aggettivi indicativi, il signor Giacomo fece le guance grosse, soffiò con vivacità e si decise a rimettersi in via. Salirono per alcuni minuti, egli davanti e l'ingegnere dietro, per la stradicciuola faticosa, mal rischiarata da un chiaror di luna perduta fra le nuvole. Non si udivano che i passi lenti, il picchiar delle mazze sul ciottolato e i soffi regolari del signor Giacomo: apff! apff! A piedi della lunga scalinata di Pianca, l'ometto si fermò, si levò il cappello, si asciugò il sudore con un fazzolettone bianco e guardando su al gran noce, alle stalle di Pianca, cui bisognava salire, mise un soffio straordinario. «Corpo de sbrio baco!», diss'egli. L'ingegnere gli fece coraggio. «Su, signor Giacomo! Per amore della Luisina!» Il signor Giacomo s'incamminò senz'altro e, guadagnate le stalle, oltre le quali la viottola diventa più umana, parve dimenticare gli scalini e gli scrupoli, la perfida servente e l'I. R. Commissario, la marchesa vendicativa e il maledetto toro, e si mise a parlar con entusiasmo della signorina Rigey. «No ghe xe ponto de dubio, quando go l'onor de trovarme con So nezza, con la signorina Luisina, digo, me par giusto, La se figura, de trovarme ancora ai tempi de la Baretela, de le Filipuzze, de le tre sorelle Spàresi da S. Piero Incarian e de tante altre de na volta che per so grazia me compativa. Vado giusto de tempo in tempo da la signora marchesa, vedo là qualche volta ste putele del dì d'ancò. No... no... no; no gavemo propramente quel contegno che m'intendo mi; o che semo durete o che semo spuzzete. La varda invece la signorina Luisina come che la sa star con tuti, col zovene e col vecio, col rico e col poareto, co la serva e col piovan. No capisso propramente, come la marchesa...» L'ingegnere l'interruppe. «La marchesa ha ragione», diss'egli. «Mia nipote non è nobile, mia nipote non ha un soldo; come si fa a pretendere che la marchesa sia contenta?» Il signor Giacomo si fermò alquanto sconcertato, e guardò l'ingegnere battendo i suoi occhi dolenti. «Ma», diss'egli. «Ela no ghe darà miga rason sul serio?» «Io?», rispose l'ingegnere. «Io non approvo mai che si vada contro la volontà dei genitori o di chi tiene le loro veci. Ma io, caro signor Giacomo, sono un uomo antiquato come Lei, un uomo del tempo di Carlo V, come si dice qui. Adesso il mondo va diversamente e bisogna lasciarlo andare. Dunque io le mie ragioni le ho dette e poi ho detto: adesso, fate vobis ; del resto poi quando avrete deciso, in qualunque modo, ditemi quel che occorre fare e son qua.» «E cossa dise la signora Teresina?» «Mia sorella? Mia sorella, poveretta, dice: se li vedo a posto non mi spiace più di morire.» Il signor Giacomo soffiò forte come sempre quando udiva quest'ultima sgradevole parola. «Ma no semo miga a sti passi?», diss'egli. «Eh!», fece l'ingegnere, molto serio. «Speriamo in Domeneddio.» Toccavano allora quel gomito della viottola che svoltando dagli ultimi campicelli del tenere di Albogasio ai primi del tenere di Castello, gira a sinistra sopra un ciglio sporgente, nell'improvviso cospetto di un grembo precipitoso del monte, del lago in profondo, dei paeselli di Casarico e di S. Mamette, accovacciati sulla riva come a bere, di Castello seduto poco più su, a breve distanza, e là di fronte, del nudo fiero picco di Cressogno, tutto scoperto dai valloni di Loggio al cielo. È un bel posto, anche di notte, al chiaro di luna, ma se il signor Giacomo vi si fermò in attitudine contemplativa e senza soffiare, non fu già perché la scena gli paresse degna dell'attenzione di chicchessia, figurarsi di un primo deputato politico, ma perché avendo una considerazione grave da mettere in luce, sentiva il bisogno di richiamare tutte le sue forze al cervello, di sospendere ogni altro moto, anche quello delle gambe. «Bela massima», diss'egli. «Speremo in Domenedio. Sissignor. Ma La me permeta de osservar che ai nostri tempi se sentìa parlar ogni momento de grazie ricevute, de conversion, de miracoli, adesso La me diga Ela. El mondo no xe più quelo e me par che Domenedio sia stomegà. El mondo d'adesso el xe come la nostra ciesa de Albogasio de sora che sti ani Domenedio el ghe vegneva una volta al mese e adesso el ghe vien una volta a l'ano.» «Senta, caro signor Giacomo», osservò l'ingegnere, impaziente di arrivare a Castello: «se si trasporta la parrocchia da una chiesa all'altra, Domeneddio non c'entra; del resto lasciamo fare a Domeneddio e camminiamo.» Ciò detto prese un'andatura così lesta che il signor Giacomo, fatti pochi passi, si fermò soffiando come un mantice. «La perdona», diss'egli, «se obedisso tanto quanto a la natural curiosità de l'omo. Se podaria saver la Sua riverita età?» L'ingegnere capì l'antifona e fermatosi un momento si voltò a rispondere quasi sottovoce, con ironica mansuetudine trionfante: «Più vecchio di Lei». E riprese spietatamente la via. «Sono dell'ottantotto, sa!», gemette il Puttini. «Ed io dell'ottantacinque!», ribatté l'altro senza fermarsi. «Avanti!» Per fortuna del Puttini non c'erano più che pochi passi a fare. Ecco il muraglione che sostiene il sagrato della chiesa di Castello, ecco la scaletta che mette all'entrata del villaggio. Ora bisognava svoltare nel sottoportico della canonica, cacciarsi alla cieca in un buco nero dove l'immaginazione del signor Giacomo gli rappresentava tanti iniqui sassi sdrucciolevoli, tanti maledetti scalini traditori, ch'egli si piantò sui due piedi e, incrociate le mani sopra il pomo della mazza, parlò in questi termini: «Corpo de sbrio baco! No, ingegnere pregiatissimo. No, no, no. Propramente mi no posso, mi resto qua. Le vegnarà ben in ciesa. La ciesa xe qua. Mi speto qua. Corpo de sbrio baco!» Questo secondo «corpo» il signor Giacomo se lo masticò privatamente in bocca come la chiusa d'un monologo interno sugli accessori dell'impiccio principale in cui s'era messo. «Aspetti», fece l'ingegnere. Un fil di luce usciva dalla porta della chiesa. L'ingegnere vi entrò e ne uscì subito col sagrestano che stava preparando gl'inginocchiatoi per gli sposi. Costui recò in soccorso del Puttini la lunga pertica col cerino acceso sulla punta, che serve per accender le candele degli altari. Poté così, fermo sull'entrata del sottoportico, porger via via, quanto era lunga la pertica, il suo lumicino davanti ai piedi del signor Giacomo che, malissimo contento di questa illuminazione religiosa, procedeva brontolando contro le pietre, le tenebre, il moccolo sacro e chi lo teneva, sinché, abbandonato dal sagrestano e abbrancato dall'ingegnere, fu tratto, malgrado il suo muto resistere, come un luccio alla lenza, sulla soglia di casa Rigey. A Castello, le case che si serrano in fila sul ciglio tortuoso del monte a godersi il sole e la veduta del lago in profondo, tutte bianche e ridenti verso l'aperto, tutte scure verso quell'altra disgraziata fila di case che si attrista dietro a loro, somigliano certi fortunati del mondo che di fronte alla miseria troppo vicina prendono un sussiego ostile, si stringono l'uno all'altro, si aiutano a tenerla indietro. Fra queste gaudenti, casa Rigey è una delle più scure di fronte alla poveraglia delle case villane, una delle più chiare di fronte al sole. Dalla porta di strada un andito stretto e lungo mette ad una loggetta aperta da cui si cala per pochi scalini sulla piccola terrazza bianca che, fra il salotto di ricevimento e un'alta muraglia senza finestre, si affaccia all'orlo del monte, spia giù i burroni ond'esce il Soldo, spia il lago fino ai golfi verdi dei Birosni e del Dòi, fino alle distese serene di là da Caprino e da Gandria. Il signor Rigey, nato a Milano da padre francese e professore di lingua francese nel collegio di madame Berra, perduto il posto, perduta gran parte delle lezioni private per la fama cresciutagli attorno d'uomo irreligioso, aveva comperato la casetta nel 1825 per ridurvisi da Milano a vivere in quiete e con poca spesa, aveva sposato la sorella dell'ingegnere Ribera ed era morto nel 1844 lasciando a sua moglie una figliuola di quindici anni e poche migliaia di svanziche oltre la casa. Appena l'ingegnere ebbe bussato alla porta, non tanto piano, si udì un correr leggero nell'andito, fu aperto e una voce non sottile, non argentina, ma inesprimibilmente armoniosa, sussurrò: «Che strepito, zio!». «Oh bella!», fece patriarcalmente l'ingegnere, «ho da picchiar col naso?» La nipote gli turò la bocca con una mano, lo tirò dentro con l'altra, fece un saluto grazioso al signor Giacomo e chiuse la porta; tutto ciò in un attimo, mentre lo stesso signor Giacomo andava soffiando: «Padrona mia riveritissima... me consolo propramente...». «Grazie, grazie», fece Luisa, «passi, La prego, devo dire una parola allo zio.»

L'ometto passò con il suo cappellone in mano, e la giovane abbracciò teneramente il suo vecchio zio, lo baciò, gli posò il viso sul petto, tenendogli le braccia al collo. «Ciao, neh», fece l'ingegnere quasi resistendo a quelle carezze perché vi sentiva una gratitudine di cui non avrebbe sopportate le parole. «Sì, là, basta. Come va la mamma?». Luisa non rispose che con una nuova stretta delle sue braccia. Lo zio era più che un padre per lei, era la Provvidenza della casa, benché nella sua gran bontà semplice neppur sognasse di aver il menomo merito verso sua sorella e sua nipote. Che avrebbero mai fatto senza di lui, povere donne, con quelle magre dodici o quindici migliaia di svanziche lasciate da Rigey? Egli godeva, come ingegnere delle Pubbliche Costruzioni, di un buon stipendio. Viveva parcamente a Como con una vecchia governante e i suoi risparmi passavano a casa Rigey. Aveva sulle prime apertamente e solennemente disapprovata la inclinazione di Luisa per Franco parendogli quello un matrimonio troppo disuguale; ma poiché i giovani erano stati fermi e sua sorella aveva consentito, egli tenendosi la sua opinione per sé, s'era messo ad aiutare in tutto che poteva. «La mamma?», ripeté. «Sta benino, stasera, per la consolazione, ma ora è agitata perché mezz'ora fa è venuto Franco e ha raccontato che c'è stata una mezza scena con la nonna.» «Oh povero me!», fece l'ingegnere, che quando udiva di qualche sproposito altrui soleva commiserarne, con questa esclamazione, se stesso. «No, zio; Franco ha ragione.» Luisa pronunziò queste parole con fierezza subitanea. «Ma si!», esclamò perché lo zio aveva messo un lungo «hm!» dubitativo. «Ha cento ragioni! Ma», soggiunse piano, «dice di essere partito di casa in modo che la nonna verrà molto probabilmente a scoprir tutto.» «Meglio», disse lo zio, incamminandosi verso la terrazza. La luna era tramontata, faceva buio. Luisa, sussurrò: «Mamma è qui». La signora Teresa, tribolata dalla mancanza di respiro, si era fatta trascinare sulla terrazza, nella sua poltrona, per avere un po' d'aria, un po' di sollievo. «Cosa vi pare, Piero?», disse con voce simile nel timbro a quella di Luisa, ma stanca e più dolce: la voce di un cuor mite cui il mondo è amaramente avverso e che cede. «Cosa vi pare che tutte le nostre prudenze non serviranno a niente?» «Ma no, mamma, questo non si sa ancora, questo non si può dire!» Mentre Luisa parlava così, Franco che stava nel salotto col curato ne uscì per abbracciar lo zio. «Dunque?», disse questi stendendogli la mano, perché gli abbracciamenti non erano di suo gusto. «Cosa è successo?»

Franco raccontò l'accaduto velando un poco le espressioni della nonna che potevano riuscire troppo offensive ai Rigey, tacendo affatto la minaccia di non lasciargli un soldo, accusando quasi più la suscettibilità propria che l'insolenza della vecchia, confessando finalmente di aver fatto conoscere, di proposito, la sua intenzione di star fuori tutta la notte. Ciò non poteva a meno di condurre la nonna a scoprir tutto subito, perché lo avrebbe interrogato su quest'assenza, ed egli non voleva mentire, e tacere era come confessare. «Senti!», esclamò lo zio con l'accento vibrato e con la faccia spanta del galantomone che, soffocando in un viluppo di cautele e di dissimulazioni, vi mena dentro due gran gomitate, se ne disbriga e respira: «Vedo che hai avuto torto d'irritar la nonna perché, cosa mai! Bisogna rispettare i vecchi anche nei loro errori; capisco che le conseguenze saranno pessime; ma son più contento così e sarei più contento ancora se tu avessi già detto a tua nonna le cose chiare e tonde. Questo segreto, questo infingersi, questo nascondersi non mi sono mai piaciuti un corno. Cosa mai! L'onest'uomo quello che fa lo dice, alla papale. Tu vuoi ammogliarti contro la volontà della nonna. Bene, almeno non ingannarla!»

«Ma Piero!», esclamò la signora Teresa che, insieme ad uno squisito sentimento della vita come dovrebb'essere, possedeva un senso acuto della vita com'è realmente, e data molto più di suo fratello agli esercizi di pietà, molto più familiare con Dio, riusciva più facilmente a persuadersi di aver ottenuta da Lui, per amor di un bene sostanziale, qualche concessione di forma. «Ma Piero! Voi non riflettete.» (La signora Teresa, molto più giovane di suo fratello, gli parlava sempre col voi e ne pigliava il tu). «Se la marchesa viene a conoscere il matrimonio in un modo simile e, naturalmente, non vuol saperne di prender Luisa in casa, cosa fanno questi ragazzi? Dove vanno? Qui non c'è posto e quand'anche vi fosse posto non è preparato nulla. In casa vostra nemmeno. Bisogna riflettere. Se si voleva tener la cosa segreta per un mese o due, non era mica per ingannare; era per aver tempo di disporvi la nonna e, se la nonna non volesse piegarsi, di preparar un paio di stanze a Oria.»

«Oh povero me!», fece l'ingegnere. «Ci voglion due mesi per questo? Non par vero.» Un soffio prolungato, nell'ombra, ricordò in quel punto la presenza del signor Giacomo che stava in un angolo, appoggiato al muro, non osando scostarsene per l'oscurità. La signora Teresa non l'aveva ancora salutato. «Oh, signor Giacomo!», diss'ella con grande premura. «Scusi. La ringrazio tanto, sa. Venga qua. Ha sentito quel che si diceva? Dica anche Lei; cosa Le pare?» «La mia servitù», disse il signor Giacomo dal suo angolo. «Propramente non me movo, perché, con la mia povera vista...» «Luisa!», fece la signora Teresa. «Porta fuori un lume. Ma ha sentito, signor Giacomo; cosa Le pare? Dica.» Il signor Giacomo mise nella sua sapienza tre o quattro piccoli soffi frettolosi che significavano: «ahi, questo è un imbarazzo» «No so», cominciò titubante, «no so, digo adesso, se trovandome a scuro...» «Luisa!», chiamò da capo la signora Teresa. «Eh nossignora, nossignora. M'intendo a scuro de tante cosse che no so. Vogio dir che ne la mia ignoranza no me posso pronunciar. Però, digo, me par che forse se podaria... adesso, digo, mi son qua per el servizio Suo e de la rispettabilissima famegia, sì ben che no me faria maravegia che l'Imperial Regio Commissario, ottima persona ma sustosèta... ben, basta, no discoremo, mi son qua, però me pararia, digo, che se podesse tirar avanti un pocheto e intanto qua el nostro nobilissimo signor don Franco podaria forse co le bone, cole molesine... Ben ben ben, per mi, come che Le comanda.»


PARTE PRIMA - 3. Il gran passo (parte 1) PART 1 - 3. The big step (part 1)

Quella stessa sera, alle dieci in punto, l'ingegnere Ribera batteva due colpi discreti alla porta del signor Giacomo Puttini in Albogasio Superiore. Poco dopo si apriva una finestra sopra il suo capo e vi compariva al chiaro di luna il vecchio visetto imberbe del «sior Zacomo».

«Ingegnere pregiatissimo, mia riverenza», disse egli. «Vien subito la servente a verzeghe.» «Non occorre», rispose l'altro. «Non salgo. È ora di partire. Venga giù Lei addirittura.» Il signor Giacomo cominciò a soffiare e battere le palpebre. «La mi perdoni», diss'egli nel suo linguaggio misto di tutti gl'ingredienti. «La mi perdoni, ingegnere pregiatissimo. Gavarìa propramente necessità...»

«Di cosa?», fece l'ingegnere seccato. La porta si aperse e comparve la gialla faccia grifagna della serva. «Oh scior parent!», diss'ella rispettosamente. Vantava non so quale affinità con la famiglia dell'ingegnere, e lo chiamava sempre così. «A sti òr chì? L'è staa forsi a trovà la sciora parenta?» La «sciora parenta» era la sorella dell'ingegnere, la signora Rigey. L'ingegnere si contentò di rispondere: «Oh Marianna, vi saluto, neh?», e salì le scale seguito da Marianna col lume. «Mia riverenza», cominciò il signor Giacomo venendogli incontro con un altro lume. «Capisco e riconosco la inconvenienza grande, ma propramente...»

Il visetto raso e roseo del signor Giacomo, posato sopra un cravattone bianco e una piccola smilza personcina chiusa in un soprabito nero, esprimeva nei moti convulsi delle labbra e delle sopracciglia, negli occhi dolenti, la più comica inquietudine. «Cosa c'è di nuovo?», chiese l'ingegnere alquanto brusco. Egli, l'uomo più retto e schietto che fosse al mondo, compativa poco le esitazioni del povero timido signor Giacomo. «La permetta», cominciò il Puttini; e, voltosi alla serva, le disse aspramente: «Andè via, vu; andè in cusina; vegnì quando che ve ciamarò; andè, digo! Obedì! Abiè rispeto! Comando mi! Son paron mi!» Era la curiosità della serva, la sua noncuranza impertinente delle istruzioni superiori che accendevano nel «sior Zacomo» questo furore dispotico. «Euh, che diavol d'on omm!», rispose colei, alzando rabbiosamente il lume in aria. «L'ha de vosà a quela manera lì? Coss'el dis, scior parent?» «Sentite», fece l'ingegnere. «Invece di menar la lingua, non fareste meglio ad andar fuori dei piedi?» Marianna se n'andò brontolando e il signor Giacomo si fece a informare l'ingegnere pregiatissimo con molti ma, se, digo, e propramente , degl'intimi suoi pensieri. Egli aveva promesso di assistere come testimonio alle nozze segrete di Luisa, ma ora, sul punto di andar a Castello, gli era venuta una gran paura di compromettersi. Era primo deputato politico, come si chiamava allora la suprema autorità comunale. Se il riveritissimo I. R. Commissario di Porlezza venisse a sapere di questo pasticcio, come la intenderebbe? E quella signora marchesa? «Una donna cattiva, ingegnere pregiatissimo; una donna vendicativa.» Ed egli aveva già tanti altri fastidi. «Ghe xe anca quel maledeto toro!». Questo toro, soggetto d'una questione fra il comune d'Albogasio e l' alpador o appaltatore dell'Alpe, dei pascoli alti, era da due anni un incubo mortale per il povero signor Giacomo che, quando parlava delle sue disgrazie, incominciava sempre con la «perfida servente» e finiva col toro: «Ghe xe anca quel maledeto toro!». E così dicendo alzava il suo visetto, i suoi occhi pieni di una esecrazione dolorosa, scoteva le mani su verso il ciglione della montagna imminente alla sua casa, verso il domicilio del bestione diabolico. Ma l'ingegnere che mostrava in quella sua bella faccia d'impavido galantuomo una disapprovazione continua, un disgusto crescente dell'ometto pusillanime che gli si contorceva davanti, dopo parecchi «oh povero me!» che avevano per sottinteso "in che compagnia sono!" perdette ogni pazienza, e inarcando le braccia con i gomiti in fuori e scotendole come se tenesse le redini di un ronzino poltrone, esclamò: «Ma cosa mai, ma cosa mai! Pare impossibile! Questi son discorsi da fatuo, caro signor Giacomo. Non avrei mai creduto che un uomo, dirò così...». Qui l'ingegnere, non sapendo veramente come dire, come definire il suo interlocutore, non fece che gonfiar le gote, mettendo un lungo mormorio, una specie di rantolo, come se avesse in bocca un epiteto troppo grosso e non potesse sputarlo. Intanto il signor Giacomo, rosso rosso, si affannava a protestare: «Basta, basta, La scusa, son qua, vegno, no La se scalda, no go fato che esprimer un dubio; ingegnere pregiatissimo, Ela conosse el mondo, mi lo go conossuto ma no lo conosso più». Si ritirò e ricomparve subito tenendo in mano una tuba mostruosa, a larghe tese, che aveva visto l'ingresso di Ferdinando a Verona nel così detto «anno dell'imperatore», nel 1838. «Credo conveniente», diss'egli, «un tal quale segno di rispetto e di compiacenza.» L'ingegnere, vedendo quel coso, esclamò ancora: «Cosa mai, cosa mai?». Ma l'ometto, cerimonioso nell'anima, tenne duro: «Il mio dovere, il mio dovere», e chiamò la Marianna che facesse lume. Costei, quando vide il padrone con quello spettacoloso segno di compiacenza in capo, incominciò a far le meraviglie. «La tasa!», sbuffò il disgraziato signor Giacomo. «Tasì!», e appena fuori dell'uscio si sfogò. «No ghe xe ponto de dubio; quela maledetissima servente sarà la me morte.» «E perché non la manda via?», chiese l'ingegnere. Il signor Giacomo aveva posto un piede sul primo scalino della viottola che sale a fianco della casa Puttini, quando quest'acuta interrogazione, penetrandogli come un pugnale nella coscienza, lo fermò di botto. «Eh!», rispose sospirando. «Ah!», fece l'ingegnere. «Cossa vorla?», riprese l'altro dopo una breve pausa. «Questo xe quelo.»

Pronunciata in via di epilogo, secondo un vecchio uso veneto, tale disgraziata identità dei due aggettivi indicativi, il signor Giacomo fece le guance grosse, soffiò con vivacità e si decise a rimettersi in via. Salirono per alcuni minuti, egli davanti e l'ingegnere dietro, per la stradicciuola faticosa, mal rischiarata da un chiaror di luna perduta fra le nuvole. Non si udivano che i passi lenti, il picchiar delle mazze sul ciottolato e i soffi regolari del signor Giacomo: apff! apff! A piedi della lunga scalinata di Pianca, l'ometto si fermò, si levò il cappello, si asciugò il sudore con un fazzolettone bianco e guardando su al gran noce, alle stalle di Pianca, cui bisognava salire, mise un soffio straordinario. «Corpo de sbrio baco!», diss'egli. L'ingegnere gli fece coraggio. «Su, signor Giacomo! Per amore della Luisina!» Il signor Giacomo s'incamminò senz'altro e, guadagnate le stalle, oltre le quali la viottola diventa più umana, parve dimenticare gli scalini e gli scrupoli, la perfida servente e l'I. R. Commissario, la marchesa vendicativa e il maledetto toro, e si mise a parlar con entusiasmo della signorina Rigey. «No ghe xe ponto de dubio, quando go l'onor de trovarme con So nezza, con la signorina Luisina, digo, me par giusto, La se figura, de trovarme ancora ai tempi de la Baretela, de le Filipuzze, de le tre sorelle Spàresi da S. Piero Incarian e de tante altre de na volta che per so grazia me compativa. Vado giusto de tempo in tempo da la signora marchesa, vedo là qualche volta ste putele del dì d'ancò. No... no... no; no gavemo propramente quel contegno che m'intendo mi; o che semo durete o che semo spuzzete. La varda invece la signorina Luisina come che la sa star con tuti, col zovene e col vecio, col rico e col poareto, co la serva e col piovan. No capisso propramente, come la marchesa...» L'ingegnere l'interruppe. «La marchesa ha ragione», diss'egli. «Mia nipote non è nobile, mia nipote non ha un soldo; come si fa a pretendere che la marchesa sia contenta?» Il signor Giacomo si fermò alquanto sconcertato, e guardò l'ingegnere battendo i suoi occhi dolenti. «Ma», diss'egli. «Ela no ghe darà miga rason sul serio?» «Io?», rispose l'ingegnere. «Io non approvo mai che si vada contro la volontà dei genitori o di chi tiene le loro veci. Ma io, caro signor Giacomo, sono un uomo antiquato come Lei, un uomo del tempo di Carlo V, come si dice qui. Adesso il mondo va diversamente e bisogna lasciarlo andare. Dunque io le mie ragioni le ho dette e poi ho detto: adesso, fate vobis ; del resto poi quando avrete deciso, in qualunque modo, ditemi quel che occorre fare e son qua.» «E cossa dise la signora Teresina?» «Mia sorella? Mia sorella, poveretta, dice: se li vedo a posto non mi spiace più di morire.» Il signor Giacomo soffiò forte come sempre quando udiva quest'ultima sgradevole parola. «Ma no semo miga a sti passi?», diss'egli. «Eh!», fece l'ingegnere, molto serio. «Speriamo in Domeneddio.» Toccavano allora quel gomito della viottola che svoltando dagli ultimi campicelli del tenere di Albogasio ai primi del tenere di Castello, gira a sinistra sopra un ciglio sporgente, nell'improvviso cospetto di un grembo precipitoso del monte, del lago in profondo, dei paeselli di Casarico e di S. Mamette, accovacciati sulla riva come a bere, di Castello seduto poco più su, a breve distanza, e là di fronte, del nudo fiero picco di Cressogno, tutto scoperto dai valloni di Loggio al cielo. È un bel posto, anche di notte, al chiaro di luna, ma se il signor Giacomo vi si fermò in attitudine contemplativa e senza soffiare, non fu già perché la scena gli paresse degna dell'attenzione di chicchessia, figurarsi di un primo deputato politico, ma perché avendo una considerazione grave da mettere in luce, sentiva il bisogno di richiamare tutte le sue forze al cervello, di sospendere ogni altro moto, anche quello delle gambe. «Bela massima», diss'egli. «Speremo in Domenedio. Sissignor. Ma La me permeta de osservar che ai nostri tempi se sentìa parlar ogni momento de grazie ricevute, de conversion, de miracoli, adesso La me diga Ela. El mondo no xe più quelo e me par che Domenedio sia stomegà. El mondo d'adesso el xe come la nostra ciesa de Albogasio de sora che sti ani Domenedio el ghe vegneva una volta al mese e adesso el ghe vien una volta a l'ano.» «Senta, caro signor Giacomo», osservò l'ingegnere, impaziente di arrivare a Castello: «se si trasporta la parrocchia da una chiesa all'altra, Domeneddio non c'entra; del resto lasciamo fare a Domeneddio e camminiamo.» Ciò detto prese un'andatura così lesta che il signor Giacomo, fatti pochi passi, si fermò soffiando come un mantice. «La perdona», diss'egli, «se obedisso tanto quanto a la natural curiosità de l'omo. Se podaria saver la Sua riverita età?» L'ingegnere capì l'antifona e fermatosi un momento si voltò a rispondere quasi sottovoce, con ironica mansuetudine trionfante: «Più vecchio di Lei». E riprese spietatamente la via. «Sono dell'ottantotto, sa!», gemette il Puttini. «Ed io dell'ottantacinque!», ribatté l'altro senza fermarsi. «Avanti!» Per fortuna del Puttini non c'erano più che pochi passi a fare. Ecco il muraglione che sostiene il sagrato della chiesa di Castello, ecco la scaletta che mette all'entrata del villaggio. Ora bisognava svoltare nel sottoportico della canonica, cacciarsi alla cieca in un buco nero dove l'immaginazione del signor Giacomo gli rappresentava tanti iniqui sassi sdrucciolevoli, tanti maledetti scalini traditori, ch'egli si piantò sui due piedi e, incrociate le mani sopra il pomo della mazza, parlò in questi termini: «Corpo de sbrio baco! No, ingegnere pregiatissimo. No, no, no. Propramente mi no posso, mi resto qua. Le vegnarà ben in ciesa. La ciesa xe qua. Mi speto qua. Corpo de sbrio baco!» Questo secondo «corpo» il signor Giacomo se lo masticò privatamente in bocca come la chiusa d'un monologo interno sugli accessori dell'impiccio principale in cui s'era messo. «Aspetti», fece l'ingegnere. Un fil di luce usciva dalla porta della chiesa. L'ingegnere vi entrò e ne uscì subito col sagrestano che stava preparando gl'inginocchiatoi per gli sposi. Costui recò in soccorso del Puttini la lunga pertica col cerino acceso sulla punta, che serve per accender le candele degli altari. Poté così, fermo sull'entrata del sottoportico, porger via via, quanto era lunga la pertica, il suo lumicino davanti ai piedi del signor Giacomo che, malissimo contento di questa illuminazione religiosa, procedeva brontolando contro le pietre, le tenebre, il moccolo sacro e chi lo teneva, sinché, abbandonato dal sagrestano e abbrancato dall'ingegnere, fu tratto, malgrado il suo muto resistere, come un luccio alla lenza, sulla soglia di casa Rigey. A Castello, le case che si serrano in fila sul ciglio tortuoso del monte a godersi il sole e la veduta del lago in profondo, tutte bianche e ridenti verso l'aperto, tutte scure verso quell'altra disgraziata fila di case che si attrista dietro a loro, somigliano certi fortunati del mondo che di fronte alla miseria troppo vicina prendono un sussiego ostile, si stringono l'uno all'altro, si aiutano a tenerla indietro. Fra queste gaudenti, casa Rigey è una delle più scure di fronte alla poveraglia delle case villane, una delle più chiare di fronte al sole. Dalla porta di strada un andito stretto e lungo mette ad una loggetta aperta da cui si cala per pochi scalini sulla piccola terrazza bianca che, fra il salotto di ricevimento e un'alta muraglia senza finestre, si affaccia all'orlo del monte, spia giù i burroni ond'esce il Soldo, spia il lago fino ai golfi verdi dei Birosni e del Dòi, fino alle distese serene di là da Caprino e da Gandria. Il signor Rigey, nato a Milano da padre francese e professore di lingua francese nel collegio di madame Berra, perduto il posto, perduta gran parte delle lezioni private per la fama cresciutagli attorno d'uomo irreligioso, aveva comperato la casetta nel 1825 per ridurvisi da Milano a vivere in quiete e con poca spesa, aveva sposato la sorella dell'ingegnere Ribera ed era morto nel 1844 lasciando a sua moglie una figliuola di quindici anni e poche migliaia di svanziche oltre la casa. Appena l'ingegnere ebbe bussato alla porta, non tanto piano, si udì un correr leggero nell'andito, fu aperto e una voce non sottile, non argentina, ma inesprimibilmente armoniosa, sussurrò: «Che strepito, zio!». «Oh bella!», fece patriarcalmente l'ingegnere, «ho da picchiar col naso?» La nipote gli turò la bocca con una mano, lo tirò dentro con l'altra, fece un saluto grazioso al signor Giacomo e chiuse la porta; tutto ciò in un attimo, mentre lo stesso signor Giacomo andava soffiando: «Padrona mia riveritissima... me consolo propramente...». «Grazie, grazie», fece Luisa, «passi, La prego, devo dire una parola allo zio.»

L'ometto passò con il suo cappellone in mano, e la giovane abbracciò teneramente il suo vecchio zio, lo baciò, gli posò il viso sul petto, tenendogli le braccia al collo. «Ciao, neh», fece l'ingegnere quasi resistendo a quelle carezze perché vi sentiva una gratitudine di cui non avrebbe sopportate le parole. «Sì, là, basta. Come va la mamma?». Luisa non rispose che con una nuova stretta delle sue braccia. Lo zio era più che un padre per lei, era la Provvidenza della casa, benché nella sua gran bontà semplice neppur sognasse di aver il menomo merito verso sua sorella e sua nipote. Che avrebbero mai fatto senza di lui, povere donne, con quelle magre dodici o quindici migliaia di svanziche lasciate da Rigey? Egli godeva, come ingegnere delle Pubbliche Costruzioni, di un buon stipendio. Viveva parcamente a Como con una vecchia governante e i suoi risparmi passavano a casa Rigey. Aveva sulle prime apertamente e solennemente disapprovata la inclinazione di Luisa per Franco parendogli quello un matrimonio troppo disuguale; ma poiché i giovani erano stati fermi e sua sorella aveva consentito, egli tenendosi la sua opinione per sé, s'era messo ad aiutare in tutto che poteva. «La mamma?», ripeté. «Sta benino, stasera, per la consolazione, ma ora è agitata perché mezz'ora fa è venuto Franco e ha raccontato che c'è stata una mezza scena con la nonna.» «Oh povero me!», fece l'ingegnere, che quando udiva di qualche sproposito altrui soleva commiserarne, con questa esclamazione, se stesso. «No, zio; Franco ha ragione.» Luisa pronunziò queste parole con fierezza subitanea. «Ma si!», esclamò perché lo zio aveva messo un lungo «hm!» dubitativo. «Ha cento ragioni! Ma», soggiunse piano, «dice di essere partito di casa in modo che la nonna verrà molto probabilmente a scoprir tutto.» «Meglio», disse lo zio, incamminandosi verso la terrazza. La luna era tramontata, faceva buio. Luisa, sussurrò: «Mamma è qui». La signora Teresa, tribolata dalla mancanza di respiro, si era fatta trascinare sulla terrazza, nella sua poltrona, per avere un po' d'aria, un po' di sollievo. «Cosa vi pare, Piero?», disse con voce simile nel timbro a quella di Luisa, ma stanca e più dolce: la voce di un cuor mite cui il mondo è amaramente avverso e che cede. «Cosa vi pare che tutte le nostre prudenze non serviranno a niente?» «Ma no, mamma, questo non si sa ancora, questo non si può dire!» Mentre Luisa parlava così, Franco che stava nel salotto col curato ne uscì per abbracciar lo zio. «Dunque?», disse questi stendendogli la mano, perché gli abbracciamenti non erano di suo gusto. «Cosa è successo?»

Franco raccontò l'accaduto velando un poco le espressioni della nonna che potevano riuscire troppo offensive ai Rigey, tacendo affatto la minaccia di non lasciargli un soldo, accusando quasi più la suscettibilità propria che l'insolenza della vecchia, confessando finalmente di aver fatto conoscere, di proposito, la sua intenzione di star fuori tutta la notte. Ciò non poteva a meno di condurre la nonna a scoprir tutto subito, perché lo avrebbe interrogato su quest'assenza, ed egli non voleva mentire, e tacere era come confessare. «Senti!», esclamò lo zio con l'accento vibrato e con la faccia spanta del galantomone che, soffocando in un viluppo di cautele e di dissimulazioni, vi mena dentro due gran gomitate, se ne disbriga e respira: «Vedo che hai avuto torto d'irritar la nonna perché, cosa mai! Bisogna rispettare i vecchi anche nei loro errori; capisco che le conseguenze saranno pessime; ma son più contento così e sarei più contento ancora se tu avessi già detto a tua nonna le cose chiare e tonde. Questo segreto, questo infingersi, questo nascondersi non mi sono mai piaciuti un corno. Cosa mai! L'onest'uomo quello che fa lo dice, alla papale. Tu vuoi ammogliarti contro la volontà della nonna. Bene, almeno non ingannarla!»

«Ma Piero!», esclamò la signora Teresa che, insieme ad uno squisito sentimento della vita come dovrebb'essere, possedeva un senso acuto della vita com'è realmente, e data molto più di suo fratello agli esercizi di pietà, molto più familiare con Dio, riusciva più facilmente a persuadersi di aver ottenuta da Lui, per amor di un bene sostanziale, qualche concessione di forma. «Ma Piero! Voi non riflettete.» (La signora Teresa, molto più giovane di suo fratello, gli parlava sempre col voi e ne pigliava il tu). «Se la marchesa viene a conoscere il matrimonio in un modo simile e, naturalmente, non vuol saperne di prender Luisa in casa, cosa fanno questi ragazzi? Dove vanno? Qui non c'è posto e quand'anche vi fosse posto non è preparato nulla. In casa vostra nemmeno. Bisogna riflettere. Se si voleva tener la cosa segreta per un mese o due, non era mica per ingannare; era per aver tempo di disporvi la nonna e, se la nonna non volesse piegarsi, di preparar un paio di stanze a Oria.»

«Oh povero me!», fece l'ingegnere. «Ci voglion due mesi per questo? Non par vero.» Un soffio prolungato, nell'ombra, ricordò in quel punto la presenza del signor Giacomo che stava in un angolo, appoggiato al muro, non osando scostarsene per l'oscurità. La signora Teresa non l'aveva ancora salutato. «Oh, signor Giacomo!», diss'ella con grande premura. «Scusi. La ringrazio tanto, sa. Venga qua. Ha sentito quel che si diceva? Dica anche Lei; cosa Le pare?» «La mia servitù», disse il signor Giacomo dal suo angolo. «Propramente non me movo, perché, con la mia povera vista...» «Luisa!», fece la signora Teresa. «Porta fuori un lume. Ma ha sentito, signor Giacomo; cosa Le pare? Dica.» Il signor Giacomo mise nella sua sapienza tre o quattro piccoli soffi frettolosi che significavano: «ahi, questo è un imbarazzo» «No so», cominciò titubante, «no so, digo adesso, se trovandome a scuro...» «Luisa!», chiamò da capo la signora Teresa. «Eh nossignora, nossignora. M'intendo a scuro de tante cosse che no so. Vogio dir che ne la mia ignoranza no me posso pronunciar. Però, digo, me par che forse se podaria... adesso, digo, mi son qua per el servizio Suo e de la rispettabilissima famegia, sì ben che no me faria maravegia che l'Imperial Regio Commissario, ottima persona ma sustosèta... ben, basta, no discoremo, mi son qua, però me pararia, digo, che se podesse tirar avanti un pocheto e intanto qua el nostro  nobilissimo signor don Franco podaria forse co le bone, cole molesine... Ben ben ben, per mi, come che Le comanda.»