15. Il deserto dei Tartari (C.16-17)
Sepolto che fu il tenente Angustina, il tempo ricominciò a passare sulla Fortezza, identico a prima.
Il maggiore Ortiz domandava a Drogo: "Da quanto tempo oramai?" Drogo diceva: "Sono qui da quattro anni".
Era venuto improvvisamente l'inverno, lunga stagione. Sarebbe caduta la neve, prima quattro cinque centimetri; poi, dopo una pausa, uno strato più alto, e poi ancora altre volte, pareva impossibile farne un conto, c'era tanto tempo davanti prima che ritornasse la primavera. (Eppure un giorno molto prima del previsto, molto prima, si sentirà dai bordi delle terrazze scrosciare giù rivoli d'acqua e l'inverno sarà inesplicabilmente finito.) La bara del tenente Angustina, avvolta nella bandiera, giaceva sotto terra in un piccolo recinto a un lato della Fortezza. Sopra c'era una croce di pietra bianca con su scritto il nome. Per il soldato Lazzari, più in là, una croce più piccola di legno.
Disse Ortiz: "Io alle volte penso: noi desideriamo la guerra, aspettiamo l'occasione buona, ce la prendiamo con la sfortuna, perché non succede mai niente. Eppure, ha visto? Angustina…".
"Vuol dire" fece Giovanni Drogo "vuol dire che Angustina non ha avuto bisogno della fortuna? Che lui è stato buono lo stesso?"
"Lui era debole e credo anche fosse malato" disse il maggiore Ortiz. "Stava peggio di tutti noi effettivamente. Lui come noi non ha incontrato il nemico, non c'è stata neanche per lui la guerra. Eppure è morto come in una battaglia. Lo sa, tenente, come è morto?"
Drogo disse: "Sì, c'ero anch'io quando il capitano Monti raccontava".
Era venuto l'inverno e gli stranieri se n'erano andati. I bei stendardi della speranza, dai riflessi forse di sangue, erano lentamente calati e l'animo era di nuovo tranquillo; ma il cielo era rimasto vuoto, inutilmente l'occhio cercava ancora qualche cosa alle estreme frontiere dell'orizzonte.
"Lui ha saputo morire al momento giusto, effettivamente" disse il maggiore Ortiz. "Come se avesse preso una pallottola. Un eroe, c'è poco da dire. Eppure nessuno sparava. Per tutti gli altri che quel giorno erano con lui le probabilità erano identiche, lui non aveva proprio nessun vantaggio, se non forse quello di poter più facilmente morire. Ma in fondo gli altri che hanno fatto? Per gli altri è stata una giornata pressappoco come tutte le altre."
Drogo disse: "Sì, soltanto un poco più fredda".
"Sì, un po' più fredda" fece Ortiz. "Anche lei, tenente, del resto, poteva andare con loro, bastava che l'avesse chiesto."
Sedevano sopra una panca di legno, sulla terrazza sommitale della quarta ridotta. Ortiz era andato a trovare il tenente Drogo ch'era di servizio. Fra i due si formava di giorno in giorno una buona amicizia. Essi sedevano sopra una panca, avvolti nelle mantelle, gli sguardi abbandonati a se stessi, in direzione del nord, dove si accumulavano grandi nubi informi piene di neve. Soffiava di quando in quando il vento settentrionale, gelando addosso i vestiti. Le alte cime rocciose, a destra e a sinistra del valico, si erano fatte nere. Drogo disse: "Io credo che domani nevicherà anche qui alla Fortezza".
"È probabile" rispose il maggiore senza alcun interesse e tacque.
Drogo disse ancora: "Nevicherà. Continuano a passare corvi".
"La colpa è anche nostra" fece Ortiz che inseguiva un ostinato pensiero. "Dopo tutto, ci tocca sempre quel che si merita. Angustina, per esempio, era disposto a pagare caro; noi invece no, è tutta qui forse la questione. Forse noi pretendiamo troppo. Tocca sempre quel che si merita effettivamente."
"E allora?" chiese Drogo "e allora che cosa dovremmo fare?"
"Oh, io niente" disse Ortiz con un sorriso. "Io ho aspettato troppo, oramai, ma lei…"
"Io che cosa?"
"Se ne vada fino a che è in tempo, torni giù alla città, si adatti alla guarnigione. Dopo tutto lei non mi sembra il tipo da disprezzare i piaceri della vita. Farà più carriera che qui, certo. Non si è poi nati tutti per fare gli eroi."
Drogo taceva.
"Lei ha lasciato passare già quattro anni" diceva Ortiz. "Ha ottenuto un certo vantaggio per l'anzianità di carriera, ammettiamo pure, ma pensi quanto più le sarebbe servito starsene in città. È rimasto tagliato fuori del mondo, nessuno si ricorda più di lei, ritorni fino a che è in tempo.
Gli occhi fissi per terra, Giovanni ascoltava muto.
"Ne ho visti già altri" continuò il maggiore. "A poco a poco hanno preso l'abitudine della Fortezza, sono rimasti imprigionati qua dentro, non sono stati più capaci di muoversi. Vecchi a trent'anni effettivamente." Drogo disse: "Le credo, signor maggiore, ma alla mia età…" "Lei è giovane" riprese Ortiz "e lo sarà ancora per un pezzo, è vero. Ma io non mi fiderei. Solo che lasci passare altri due anni, bastano anche soli due anni, e tornare indietro le costerebbe troppa fatica."
"La ringrazio" disse Drogo che non era per niente impressionato. "Ma in fondo, qui alla Fortezza, si può sperare in qualche cosa di meglio. Sarà assurdo, eppure anche lei, se è sincero deve confessare…"
"Forse sì, purtroppo" disse il maggiore. "Tutti, più o meno, ci ostiniamo a sperare. Ma è un assurdo, basta pensarci un poco (e faceva segno con una mano al nord). Da questa parte mai più potrà venire una guerra. Adesso poi, dopo l'ultima esperienza, chi volete che ci creda ancora sul serio?"
Così diceva e intanto si era alzato in piedi, sempre guardando al settentrione, così come quel lontano mattino, sul ciglione del pianoro, Drogo l'aveva visto fissare, incantato, le mura enigmatiche della Fortezza. Quattro anni erano passati da allora, una rispettabile frazione di vita, e niente, assolutamente niente era successo che potesse giustificare tante speranze. I giorni erano corsi via uno dopo l'altro; soldati, che potevano essere nemici, erano comparsi un mattino ai bordi della pianura straniera, poi si erano ritirati dopo innocue operazioni confinarie. La pace regnava sul mondo, le sentinelle non davano l'allarme, nulla lasciava presagire che l'esistenza sarebbe potuta cambiare. Come negli anni passati, con le medesime formalità, ora avanzava l'inverno e i soffi della tramontana producevano contro le baionette un debole fischio. Ed ecco ancora là, il maggiore Ortiz, in piedi sulla terrazza della quarta ridotta, incredulo alle proprie sagge parole, guardare una volta di più la landa del nord, come se lui solo avesse realmente il diritto di guardarla, lui solo il diritto di rimanere lassù, non importa a che scopo, e Drogo invece fosse un bravo ragazzo fuori di posto, che aveva sbagliato i calcoli e avrebbe fatto bene a tornare.
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Capitolo 17
Fino a che la neve sulle terrazze della Fortezza diventò molle e i piedi affondavano come nella melma. Il dolce suono delle acque, giunse improvvisamente dalle più vicine montagne, qua e là lungo gli apicchi si scorgevano strisce bianche verticali che scintillavano al sole, e i soldati ogni tanto si sorprendevano a canticchiare, come da mesi non facevano. Il sole non corse più via come prima, ansioso di tramontare, ma cominciava a fermarsi un po' in mezzo al cielo, divorando la neve accumulata, ed era inutile che le nuvole si precipitassero ancora dai ghiacci del nord: di neve non riuscivano più a farne, solo pioggia potevano, e la pioggia non faceva che sciogliere quella poca neve che restava. Era tornata la buona stagione. Già si udivano al mattino voci di uccelli che tutti credevano di avere dimenticate. In compenso i corvi non se ne stavano più riuniti sul pianoro della Fortezza ad aspettare i rifiuti delle cucine ma si sparpagliavano per le valli in cerca di cibo fresco.
Di notte, nelle camerate, le assi che sostengono gli zaini, le rastrelliere per i fucili, le stesse porte, anche i bei mobili di noce massiccio nella camera del signor colonnello, tutti i legni della fortezza, compresi i più antichi, mandavano scricchiolii nel buio. Certe volte erano colpi secchi come pistolettate, sembrava che qualche cosa andasse veramente in pezzi, uno si risvegliava nella branda e tendeva le orecchie: nulla però riusciva a sentire se non altri scricchiolii che bisbigliavano nella notte.
Ecco il tempo in cui nelle vecchie assi risuscita un ostinato rimpianto di vita. Moltissimi anni prima, nei giorni felici, era un giovanile flusso di calore e di forza, dai rami uscivano fasci di germogli. Poi la pianta era stata abbattuta. E adesso che è primavera, infinitamente minore, un palpito di vita. Un tempo foglie e fiori; ora soltanto un vago ricordo, quel tanto per fare crac e poi basta fino all'anno venturo.
Ecco il tempo in cui gli uomini della Fortezza cominciano ad avere curiosi pensieri che non hanno niente di militare. Le mura non sono più riparo ospitale ma danno l'impressione di carcere. Il loro aspetto nudo, le strisce nerastre degli scoli, gli spigoli obliqui dei bastioni, il loro colore giallo, non rispondono in alcun modo alle nuove disposizioni di spirito.
Un ufficiale - dalle spalle non si può capire chi sia e potrebbe essere anche Giovanni Drogo - cammina annoiato, nella mattina di primavera, per i vasti lavatoi della truppa, a quest'ora deserti. Egli non ha da fare ispezioni o controlli; gira così, tanto per muoversi; tutto del resto è in ordine, le vasche pulite, il pavimento spazzato e quel rubinetto che spande non è colpa dei soldati.
L'ufficiale si ferma guardando in su, a una delle alte finestre. I vetri sono chiusi, da molti anni probabilmente non sono stati lavati e negli angoli pendono ragnatele. Nulla c'è che conforti in qualche modo l'animo umano. Pure, di dietro ai vetri, si riesce a scorgere una cosa che assomiglia ad un cielo. Quello stesso cielo - pensa forse l'ufficiale - quel medesimo sole illumina contemporaneamente gli squallidi lavatoi e certe praterie lontane.
Le praterie sono verdi e ci sono nati da poco piccoli fiori di presumibile colore bianco. Anche gli alberi, come è giusto, hanno messo le foglie nuove. Bello sarebbe cavalcare senza scopo per la campagna. E se per una stradetta, in mezzo alle siepi, avanzasse una bella ragazza, e quando ci si passa vicino a cavallo lei salutasse con un sorriso. Ma che ridicola cosa, sono mai ammissibili per un ufficiale della Fortezza Bastiani così stupidi pensieri?
Attraverso la polverosa finestra del lavatoio, per quanto possa sembrare strano, si riesce a vedere anche una nuvola bianca di forma piacevole. Nuvole uguali navigano in questo momento sopra la città lontana; gente che passeggia placida ogni tanto le guarda, lieta che l'inverno sia finito, quasi tutti hanno vestiti nuovi o rimessi in ordine, le giovani donne portano cappelli con fiori e abiti a colori. Tutti hanno l'aria contenta, come se aspettassero da un momento all'altro cose buone. Una volta almeno era così, chissà se adesso è venuta una moda diversa. E se a un davanzale ci fosse una bella ragazza e quando ci si passa sotto lei salutasse, senza nessuna particolare ragione, lei salutasse amichevolmente con un bel sorriso? Tutte cose in fondo ridicole, sciocchezze da collegiale.
Attraverso i vetri sporchi si scorge, di sghembo, un tratto di muro. Anch'esso è inondato di sole ma non ne risulta letizia. È la parete di una caserma, che ci sia il sole o la luna per il muro è affatto indifferente, basta che non nascano ostacoli al buon andamento del servizio. Il muro di una caserma e niente altro. Eppure un giorno, in un lontano settembre, l'ufficiale era rimasto a guardarlo quasi affascinato; allora queste mura sembravano custodire per lui un severo ma invidiabile destino. Sebbene non riuscisse a trovarle belle, egli era rimasto immobile per alcuni minuti come dinanzi a un prodigio. Un ufficiale gira per i lavatoi deserti, altri sono di servizio alle varie ridotte, altri cavalcano sulla sassosa spianata, altri siedono negli uffici. Ciascuno non riesce a capire bene cosa sia successo, ma le facce degli altri gli danno ai nervi. Sempre le stesse facce, pensa istintivamente, sempre gli stessi discorsi, lo stesso servizio, gli stessi documenti. E intanto fermentano teneri desideri, non è facile stabilire con esattezza che cosa si vorrebbe, certo non quelle mura, quei soldati, quei suoni di tromba.
Corri allora, cavallino, per la strada della pianura, corri prima che sia tardi, non fermarti, anche se stanco, prima di vedere i prati verdi, gli alberi familiari, le abitazioni degli uomini, le chiese e i campanili.
E allora addio Fortezza, fermarsi ancora sarebbe pericoloso, il tuo facile mistero è caduto, la pianura del nord continuerà a rimanere deserta, mai più verranno i nemici, mai nessuno verrà ad assaltare le tue povere mura. Addio maggiore Ortiz, melanconico amico che non sei più capace di staccarti da questa bicocca; e come te tanti altri, troppo a lungo vi siete ostinati a sperare, il tempo è stato più svelto di voi, e non potete ricominciare.
Giovanni Drogo invece sì. Nessun impegno lo tiene più alla Fortezza. Adesso ritorna alla pianura, rientra nel consorzio degli uomini, non sarà difficile che gli diano qualche incarico speciale, magari una missione all'estero al seguito di un generale. In questi anni, mentre lui era alla Fortezza, certo sono andate perdute molte belle occasioni, ma Giovanni è ancora giovane, gli rimane tutto il tempo possibile per rimediare.
Addio dunque Fortezza, con le tue assurde ridotte, i tuoi soldati pazienti, il tuo signor colonnello che ogni mattina, senza farsi vedere, scruta col cannocchiale il deserto del settentrione, ma è inutile, non c'è mai niente. Un saluto alla tomba di Angustina, forse è stato di tutti il più fortunato, lui almeno è morto da vero soldato, meglio comunque che nel probabile letto di un ospedale. Un saluto alla sua camera, dopo tutto Drogo ci ha dormito onestamente centinaia di notti. Un altro saluto al cortile dove anche stasera, con le solite formalità, si schiereranno le guardie montanti. L'ultimo saluto alla pianura del nord, vuota oramai di illusioni.
Non pensarci più, Giovanni Drogo, non voltarti indietro ora che sei arrivato al ciglio del pianoro e la strada sta per immergersi nella valle. Sarebbe una stupida debolezza. La conosci pietra per pietra, si può dire, la Fortezza Bastiani, non corri certo il pericolo di dimenticarla. Il cavallo trotta allegramente, la giornata è buona, l'aria tepida e leggera, la vita ancora lunga davanti, quasi ancora da cominciare; che bisogno ci sarebbe di dare un'ultima occhiata alle mura, alle casematte, alle sentinelle di turno sul ciglio delle ridotte? Così una pagina lentamente si volta, si distende dalla parte opposta, aggiungendosi alle altre già finite, per ora è solamente uno strato sottile, quelle che rimangono da leggere sono in confronto un mucchio inesauribile. Ma è pur sempre un'altra pagina consumata, signor tenente, una porzione di vita.
Dal ciglio del sassoso pianoro Drogo infatti non si volta a guardare, senza neppure un'ombra di esitazione sprona il cavallo giù per la discesa, non accenna a voltare neanche di un centimetro la testa, fischietta una canzone con passabile disinvoltura, sebbene questo costi fatica.