16. Il deserto dei Tartari (C. 18-19)
L'uscio di casa fu aperto e Drogo sentì subito l'antico odore domestico, come quando, bambino ritornava in città dopo i mesi di estate in villa. Era odore familiare ed amico, eppure, dopo tanto tempo, vi affiorava alcunché di meschino. Gli ricordava sì gli anni lontani, la dolcezza di certe domeniche, le liete cene, la fanciullezza perduta, ma parlava anche di finestre chiuse, di compiti, di pulizia mattutina, di malattie, di litigi, di topi.
"Oh, signorino!" gli gridò esultante la buona Giovanna che gli aveva aperto la porta. E subito arrivò la mamma; grazie a Dio non ancora cambiata.
Seduto in salotto, mentre tentava di rispondere alle tante domande, sentiva mutarsi la felicità in tristezza svogliata. La casa gli pareva vuota in confronto ad un tempo, dei fratelli uno era andato all'estero, un altro era in viaggio chissà dove, il terzo in campagna. Soltanto la mamma restava e anche lei dopo un po' dovette uscire per una funzione in chiesa dove la attendeva un'amica. La sua camera era rimasta identica, così come l'aveva lasciata, non un libro era stato mosso, pure, gli parve di un altro. Si sedette sulla poltrona, ascoltò il rumore dei carri nella via, l'intermittente vocio che veniva dalla cucina. Solo se ne stava nella sua stanza, la mamma pregava in chiesa, i fratelli erano lontani, tutto il mondo viveva dunque senza alcun bisogno di Giovanni Drogo. Aprì una finestra, vide le case grige, i tetti dopo i tetti, il cielo caliginoso. Cercò in un cassetto i vecchi quaderni di scuola, un diario che aveva tenuto per anni, certe lettere; si stupì di aver scritto lui quelle cose, non se ne ricordava proprio, tutto si riferiva a strani fatti dimenticati. Si sedette al piano, tentò un accordo, riabbassò il coperchio della tastiera. E adesso? si domandava.
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Straniero, girò per la città, in cerca di vecchi amici, li seppe occupatissimi negli affari, in grandi imprese, nella carriera politica. Gli parlarono di cose serie e importanti, stabilimenti, strade ferrate, ospedali. Qualcuno lo invitò a pranzo, qualcuno si era sposato, tutti avevano preso vie diverse e in quattro anni si erano già fatti lontani. Per quanto tentasse (ma anche lui forse non era più capace) non riusciva a far rinascere i discorsi di un tempo, gli scherzi, i modi di dire. Girava la città in cerca dei vecchi amici - ed erano stati molti - ma finiva per ritrovarsi solo su un marciapiedi, con tante ore vuote davanti prima di far venire la sera. Di notte stava fuori di casa fino a tardi, determinato a divertirsi. Ogni volta usciva con le solite vaghe speranze giovanili di amore, ogni volta tornava deluso. Riprese a odiare la via che lo riconduceva a casa solitario, sempre uguale e deserta.
Ci fu in quel tempo una grande festa da ballo e Drogo, entrando nel palazzo in compagnia dell'amico Vescovi, l'unico che avesse ritrovato, si sentiva nelle migliori condizioni di spirito. Benché fosse già primavera, la notte sarebbe stata lunga, uno spazio di tempo pressoché illimitato; prima dell'alba potevano succedere tante cose, esattamente Drogo non era in grado di specificarle ma certo lo attendevano parecchie ore di incondizionato piacere. Aveva infatti cominciato a scherzare con una ragazza vestita di viola e non era ancora suonata mezzanotte, forse prima del giorno sarebbe nato l'amore; quand'ecco il padrone di casa lo chiamò per mostrargli dettagliatamente il palazzo, lo trasse per certi labirinti e cunicoli, lo tenne relegato nella biblioteca, lo obbligò a considerare pezzo per pezzo una collezione d'armi, gli parlava di questioni strategiche, di facezie militari, di aneddoti di Casa reale, e il tempo intanto passava, gli orologi si erano messi a correre spaventosamente. Quando Drogo riuscì a liberarsi, ansioso di tornare alle danze, le sale si erano già mezzo vuotate, la ragazza vestita di viola era scomparsa, probabilmente già tornata a casa. Invano Drogo tentò di bere, invano rise senza senso, neanche il vino più gli serviva. E la musica dei violini si faceva sempre più fioca, a un certo punto essi suonarono letteralmente a vuoto perché nessuno più ballava. Drogo si trovò, con la bocca amara, fra gli alberi del giardino, udiva incerti echi di un valzer mentre l'incantesimo della festa svaniva e il cielo si faceva lentamente pallido per l'alba vicina. Tramontando le stelle, rimase Drogo, fra le nere ombre vegetali, a vedere sorgere il giorno, mentre ad una ad una le carrozze dorate si allontanavano dal palazzo. Ora anche i suonatori tacquero e un valletto andò girando per le sale abbassando le luci. Da un albero, proprio sopra Drogo, giunse acuto e freschissimo il trillo di un uccellino. Il cielo diventava progressivamente più chiaro, tutto riposava silenzioso nella attesa fiduciosa di una buona giornata. In quel momento - Drogo pensò - i primi raggi del sole avevano già raggiunto i bastioni della Fortezza e le sentinelle infreddolite. Il suo orecchio aspettò inutilmente un suono di tromba. Attraversò la città addormentata, ancora immersa nel sonno, aprì con esagerato rumore il portone di casa. Nell'appartamento già filtrava dalle fessure delle persiane un poco di luce. "Buonanotte, mamma" egli disse passando nel corridoio e dalla stanza, al di là della porta, gli parve che come al solito, come nei giorni lontani quando rincasava a notte alta, gli rispondesse un suono confuso, una voce amorevole anche se grondante di sonno. E continuò quasi pacificato verso la propria stanza, quando si accorse che anche lei parlava. "Che cos'hai, mamma?" chiese nel vasto silenzio. Nello stesso istante capì di avere scambiato il rotolio di una carrozza lontana con la cara voce. In verità la mamma non aveva risposto, i passi notturni del figlio più non la potevano destare come una volta, si erano fatti come estranei, quasi il loro suono fosse col tempo cambiato.
Una volta i suoi passi la raggiungevano nel sonno come un richiamo stabilito. Tutti gli altri rumori nella notte, anche se molto più forti, non bastavano a svegliarla, né i carri giù nella strada, né il pianto di un bambino, né gli ululati dei cani, né le civette, né l'imposta che sbatte, né il vento dentro le gronde, né la pioggia o lo scricchiolare dei mobili. Soltanto il passo di lui la svegliava, non perché fosse rumoroso (Giovanni anzi andava in punta di piedi).
Nessuna speciale ragione, soltanto che lui era il figliolo. Ma adesso dunque non più. Adesso lui aveva salutato la mamma come una volta, con la medesima inflessione di voce, certo che al familiare rumore dei suoi passi si fosse destata. Invece nessuno gli aveva risposto fuori che il rotolio della lontana carrozza. Una stupidaggine, pensò, una ridicola coincidenza, poteva anche darsi. Eppure gliene restava, mentre si disponeva a entrare nel letto, una impressione amara, quasi l'affetto di una volta si fosse appannato, come se fra loro due il tempo e la lontananza avessero lentamente disteso un velo di separazione. --
Capitolo 19
Poi andò a trovare Maria, la sorella dell'amico Francesco Vescovi. La loro casa aveva un giardino e siccome era primavera gli alberi portavano foglie nuove, sui rami cantavano gli uccellini. Maria gli andò incontro sulla porta, sorridendo. Aveva saputo che lui veniva e si era messa un vestito azzurro, sottile alla vita, simile a un altro che in un giorno lontano gli era piaciuto.
Drogo aveva pensato che sarebbe stata per lui una grande emozione, che gli sarebbe battuto il cuore. Quando invece le fu vicino e rivide il suo sorriso, quando udì il suono della sua voce che diceva: "Oh, finalmente, Giovanni! " (così diversa da quello che aveva pensato) egli ebbe la misura del tempo passato. Lui era lo stesso di una volta - credeva - forse un po' più largo di spalle e fatto scuro dal sole della Fortezza. Anche lei non era mutata. Ma qualche cosa si era messo fra loro.
Entrarono nel grande salotto, perché fuori c'era troppo sole; la stanza era immersa in una dolce penombra, una striscia di sole risplendeva sul tappeto e un orologio camminava. Sedettero su di un divano, di sbieco, per potersi guardare. Drogo la fissava negli occhi senza trovare le parole, ma lei vivamente portava gli sguardi attorno, un po' su lui, un po' ai mobili, un po' a un suo braccialetto di turchesi che sembrava nuovissimo. "Francesco sarà qui tra poco" disse Maria gaiamente. "Intanto starai un po' con me, chissà quante cose hai da raccontare!" "Oh" fece Drogo "niente di speciale davvero, è sempre la…" "Ma perché mi guardi così? " chiese lei. "Mi trovi così cambiata? " No, Drogo non la trovava cambiata, era anzi sorprendente che una ragazza in quattro anni non avesse fatto alcun visibile mutamento. Pure egli aveva un senso vago di delusione e di freddo. Non riusciva a trovare più il tono di una volta, quando si parlavano come fratelli e potevano scherzare di tutto senza ferirsi. Perché lei se ne stava così composta sul sofà e parlava con tanta grazia? Avrebbe dovuto tirarla per un braccio, dirle: "Ma sei matta? Cosa ti viene in mente di fare così la persona seria?". Il gelido incanto sarebbe stato spezzato. Ma Drogo non se ne sentiva capace. Di fronte gli stava una persona diversa e nuova, i cui pensieri gli erano sconosciuti. Lui stesso, forse, non era più quello di un tempo, ed era stato lui a cominciare con un tono falso.
"Cambiata? " rispose Drogo. "No, no, assolutamente." "Ah tu dici così perché mi trovi imbruttita, ecco. Dimmi la verità!" Era proprio Maria che parlava? Non faceva per scherzo? Quasi incredulo, Giovanni ascoltava le sue parole e ad ogni istante sperava che lei buttasse via quell'elegante sorriso, quell'atteggiamento soave, e ci facesse su una risata. "Brutta, sì, brutta ti trovo" avrebbe risposto ai bei tempi Giovanni passandole un braccio dietro la vita, e lei gli si sarebbe stretta contro. Ma adesso? Sarebbe stato assurdo, uno scherzo di cattivo genere. "Ma no, ti dico" rispose Drogo. "Identica sei, te lo garantisco." Lei lo guardò con un sorriso poco persuaso e cambiò discorso. "E adesso, dimmi, sei venuto per restare?" Era una domanda che egli aveva previsto ("Dipende da te" aveva pensato di rispondere, o qualche cosa del genere). Egli però se l'era aspettata prima, all'atto dell'incontro, come sarebbe stato naturale, se a lei veramente premeva. Adesso, invece, gli era giunta quasi di sorpresa, ed era una cosa diversa, una domanda quasi di convenienza, senza sottintesi sentimentali.
Ci fu un attimo di silenzio, nel salotto in penombra, dove giungevano dal giardino canto di uccelli e da una stanza lontana accordi di pianoforte, lenti e meccanici, di qualcuno che studiava.
"Non so, per ora non so. Ho soltanto una licenza" disse Drogo. "Appena una licenza? " fece subito Maria e ci fu nella voce una vibrazione sottile che poteva essere caso, o delusione, o anche dolore. Ma qualche cosa si era messo veramente fra loro, un velo indefinibile e vago che non voleva dissolversi; forse esso era cresciuto lentamente, durante la lunga separazione, giorno per giorno, dividendoli, e nessuno dei due lo sapeva.
"Due mesi. Poi forse devo tornare, forse vado in un altro posto, forse anche qui in città" spiegò Drogo. Il colloquio ormai gli diventava penoso, un'indifferenza gli era entrata nell'animo. Entrambi tacquero. Il pomeriggio ristagnava sulla città, gli uccelli erano ammutoliti, si udivano solo i lontani accordi di pianoforte, tristi e metodici, che salivano salivano, riempiendo l'intera casa, e c'era in quel suono una specie di ostinata fatica, una difficile cosa da dire che non si riesce a dire mai. "È la figlia dei Micheli, al piano di sopra" disse Maria, accorgendosi che Giovanni ascoltava. "Anche tu la suonavi una volta questa musica, no?" Maria piegò graziosamente la testa come per ascoltare.
"No, no, questa è troppo difficile, l'avrai sentita da un'altra parte. " Drogo disse: "Mi pareva…". Il pianoforte suonava con immutata pena. Giovanni guardava la striscia di sole sul tappeto, pensava alla Fortezza, immaginò la neve che si scioglieva, il gocciolio sulle terrazze, la povera primavera della montagna, che conosce solo piccoli fiori nei prati e profumi di fienagioni trasportati dal vento.
"Ma adesso ti fai trasferire, no? " riprese la ragazza. "Dopo tanto tempo avrai bene il diritto. Deve essere una bella noia lassù! " Disse queste ultime parole con lieve ira, come se la Fortezza le fosse odiosa. "Un po' noioso forse, certo preferisco stare qui con te. " Questa misera frase balenò nella mente di Drogo come una coraggiosa possibilità. Era banale, però forse sarebbe bastata. Ma di colpo ogni desiderio si spense, Giovanni pensò anzi con disgusto quanto sarebbero state ridicole quelle parole pronunciate da lui.
"Eh, sì" disse allora. "Ma i giorni passano così presto!" Si udiva il suono del pianoforte, ma perché quegli accordi continuavano a salire senza concludere mai? Scolasticamente nudi, essi ripetevano con rassegnato distacco una vecchia storia già cara. Parlavano di una sera di nebbia fra i fanali della città e di loro due che se ne andavano sotto gli alberi spogli, per il viale deserto, improvvisamente felici, tenendosi per mano come bambini, senza capire il perché. Anche quella sera, se ne ricordava, c'erano pianoforti che suonavano nelle case, le note uscivano fuori dalle finestre illuminate; e benché fossero probabilmente noiosi esercizi, Giovanni e Maria mai avevano udito musiche più dolci ed umane. "Certo" aggiunse Drogo scherzosamente "lassù non ci sono grandi divertimenti, ma un po' ci si era abituati…" La conversazione, nel salotto che aveva odore di fiori, pareva lentamente acquistare una poetica mestizia, amica delle confessioni d'amore. "Chi lo sa" pensava Giovanni "questo primo incontro dopo così lungo distacco non poteva essere diverso, forse potremo ritrovarci, ho due mesi di tempo, così di colpo non si può giudicare, può darsi che mi voglia ancora bene e che io non torni più alla Fortezza. " Ma la ragazza disse: "Che peccato! Parto con la mamma e la Giorgina fra tre giorni, staremo via qualche mese, credo" all'idea si animava gioiosamente. "Andiamo in Olanda." "In Olanda?" La ragazza adesso parlava del viaggio, entusiasmandosi tutta, degli amici con cui sarebbe partita, dei suoi cavalli, delle feste che c'erano state in carnevale, della sua vita, delle sue compagne, inconsapevole di Drogo. Adesso si sentiva completamente a suo agio e sembrava più bella. "Una magnifica idea" fece Drogo che si sentiva chiudere la gola da un nodo amaro. "Questa è la stagione migliore in Olanda, ho sentito dire. Dicono che ci siano pianure tutte fiorite di tulipani. " "Oh sì, deve essere bellissimo" approvava Maria. "Invece di grano coltivano rose" continuava Giovanni con lieve ondeggiamento della voce "milioni e milioni di rose a perdita d'occhio, e sopra si vedono i molini a vento, tutti dipinti a nuovo con vivaci colori. " "Dipinti a nuovo? " chiese Maria che cominciava a capire lo scherzo. "Che cosa vuoi dire?" "Così raccontano" rispose Giovanni. "L'ho letto anche in un libro. " La striscia di sole, percorso tutto il tappeto, ora saliva progressivamente lungo gli intarsi di uno scrittoio. Il pomeriggio già moriva, la voce del pianoforte si era fatta fioca, fuori del giardino un uccellino isolato ricominciava a cantare. Drogo fissava gli alari del camino, esattamente identici a un paio che c'erano nella Fortezza; la coincidenza gli dava una sottile consolazione come se ciò dimostrasse che, dopo tutto, Fortezza e città erano un mondo solo, con uguali abitudini di vita. Oltre agli alari però null'altro Drogo era riuscito a scoprire di comune. "Deve essere bello sì" disse Maria, abbassando gli occhi. "Ma adesso che si è per partire mi è passata la voglia." "Sciocchezze, succede sempre all'ultimo momento, è così noioso preparare i bagagli" disse apposta Drogo, come non avesse inteso l'allusione sentimentale. "Oh, non è per i bagagli, non è per questo…" Ci sarebbe voluta una parola, una semplice frase per dirle che la sua partenza gli faceva dispiacere. Ma Drogo non voleva chiedere nulla, in quel momento non era capace davvero, gli sarebbe parso di mentire.
Perciò tacque, con un generico sorriso.
"Andiamo in giardino un momento? " propose infine la ragazza non sapendo più cosa dire. "Il sole deve essere calato." Si alzarono dal divano. Lei taceva, come aspettando che Drogo le parlasse, e lo guardava forse con un residuo di amore. Ma il pensiero di Giovanni, alla vista del giardino, volò ai magri prati che contornavano la Fortezza, anche lassù stava per giungere la dolce stagione, coraggiose erbette spuntavano fra i sassi. Proprio in quei giorni, centinaia di anni prima, erano forse arrivati i Tartari, Drogo disse:
"Fa già un bel caldo per esser aprile. Vedrai che toma a piovere. " Proprio così disse, e Maria fece un piccolo sorriso desolato. "Sì, fa troppo caldo" rispose con voce atona, ed entrambi si accorsero che tutto era finito. Adesso erano di nuovo lontani, fra essi si apriva un vuoto, invano allungavano le mani per toccarsi, ad ogni minuto la distanza aumentava. Drogo capiva di voler bene ancora a Maria e di amare il suo mondo: ma tutte le cose che nutrivano la sua vita di un tempo si erano fatte lontane; un mondo di altri dove il suo posto era stato facilmente occupato. E lo considerava oramai dal di fuori, pur con rimpianto; rientrarvi lo avrebbe messo a disagio, facce nuove, diverse abitudini, nuovi scherzi, nuovi modi di dire, a cui egli non era allenato. Quella non era più la sua vita, lui aveva preso un'altra strada, tornare indietro sarebbe stato stupido e vano. Siccome Francesco non arrivava, Drogo e Maria si salutarono con esagerata cordialità, ciascuno chiudendo in sé i segreti pensieri. Maria gli strinse la mano con forza, fissandolo negli occhi, un invito forse a non partire così, a perdonarle, a ritentare ciò che era ormai perduto?
Anche lui la guardò fisso e disse: "Addio, prima che tu parta spero che ci rivediamo". Poi se s'andò senza voltarsi indietro, a passi marziali, verso il cancello di ingresso, facendo scricchiolare nel silenzio la ghiaietta del viale.