Radar ep.1: L'informazione in tempo di guerra, con Giorgio Zanchini - YouTube
L'emotività dell'informazione italiana. Ecco questo è il vero
punto forse dolente ma che riguarda di qui il passaggio a
un altro medium. La televisione soprattutto la televisione. Il
nostro, il giornalismo italiano, un giornalismo che è
più emotivo che analitico. Qui sì davvero il New York Times,
Guardian, Le Monde, i giornali tedeschi, alcuni giornali
spagnoli tendono a avere uno un modo di raccontare i fatti che
mette l'analisi dei fatti al primo posto e poi il emotivo. I
talk show italiani sono pieni di storie pieni di racconti e
l'analisi tende a essere sempre avversariale. Cioè schierare
due parti, una contrapposizioni perché è una dinamica che in
televisione funziona. Che però fa pagare un prezzo in termini
di comprensione razionale dei fatti.
Viviamo in un'epoca di sovrainformazione siamo
bombardati da continue notifiche, dati, cifre, titoli.
Quello che sembra mancare però è il tempo di rimettere tutti
questi elementi in un contesto più generale. Unire i puntini e
provare a capire il prima e il dopo. La dimensione meno
istantanea dei grandi temi del nostro tempo. Il clima, i
diritti, l'informazione, l'economia
io sono Giuseppe Laterza e questo è radar podcast degli
Editori Laterza. Radar è una serie di conversazioni
settimanali sulle questioni essenziali del nostro tempo
ogni volta in compagnia di un esperto per cercare di andare
in profondità rimettere ordine e orientarsi
oggi siamo tutti invasi di informazioni sull'Ucraina un
po' come quando iniziò la pandemia nei primi mesi del
lockdown eh siamo esposti a tante immagini, a dati,
aggiornamenti costanti certe volte quasi verrebbe da dire
ossessivi, interviste, opinioni, analisi e poi
ciascuno di noi apre il proprio smartphone chi ne ha uno e c'è
un'informazione parallela quella del proprio eh che
arriva attraverso i social, di video magari non verificati, eh
un flusso incessante, di notifiche che ci arriva, si
mischia alle cose che facciamo tutti i giorni senza un ordine,
senza linee di demarcazione, senza tregua. Tutti competono
per la nostra attenzione ma ognuno ci informa in maniera
diversa e ci informiamo in maniera ciascuno diversa
all'interno della propria bolla come si dice. Chi è pronato,
chi è antiamericano, chi a destra, chi a sinistra, chi è favorevole
agli armamenti, che invece è un pacifista a oltranza. Insomma,
in tempi di guerra tutto questo si intensifica ancora di più in
una gara, all'ultimo dettaglio e anche alle emozioni alle
emozioni forti. L'altro giorno un amico giornalista mi diceva
che è giusto emozionare per informare perché non basta dare
i numeri di una guerra ma bisogna dare anche le immagini
certe volte anche cruente perché questo sensibilizza,
smuove, crea empatia eh ma qual è il limite? Qual è deve essere
il ruolo dell'informazione in tempi di guerra? E come
possiamo informarci nel modo migliore però senza diventare
appunto ossessivi senza rischiare l'assuefazione magari
all'orrore di un conflitto. In questo episodio ad aiutarci a
dipanare i fili di questa questione molto complicata
abbiamo invitato Giorgio Zanchini un giornalista della
Rai che ha condotto rubriche radiofoniche televisive di
grande successo e di approfondimento come Radio
Anch'io, Quante Storie e che da anni studia il giornalismo sia
attraverso i libri ricordiamo soltanto tra i vari libri
Leggere, Cosa e Come: Giornalismo e l'informazione culturale e
l'età della rete con Donzelli ha fatto con Laterza un volume
con Giovanni Solimine sulla cultura orizzontale dedicata ai
giovani ehm e poi dirige un festival del giornalismo
culturale a Urbino. Ciao Giorgio. E grazie per
l'invito. Ciao a voi. Dunque partiamo dall'inizio. Allora,
in questo momento nel mondo ci sono come sappiamo tante
guerre, decine di conflitti armati, anche con centinaia a
volte migliaia di vittime però uh di queste guerre per la
stragrande maggioranza sappiamo veramente poco. Certe volte
nulla. E ci sono invece casi in passato quello siriano in certi
momenti e certamente oggi quell'ucraino con una
sovrabbondanza di copertura mediatica. Ehm ecco la prima
cosa che vorrei chiederti Giorgio cosa rende una guerra
più mediatica di un'altra perché di questa guerra si
parla così tanto?
Dare tre risposte ma forse saranno soltanto due perché la
prima risposta è quella più istintiva che peraltro leggiamo
anche nei manuali di giornalismo ci sono sempre
ragioni geografiche e di interesse e impatto
sull'esistenza di ciascuno di noi geografiche perché l'ordine
di attenzione che noi poniamo ai fatti del mondo quelli a ai
quali il sistema mediatico dà significato e che per noi hanno
significato in realtà ci di nuovo in mano di giornalismo in
primo luogo sono mossi dalla vicinanza con i nostri
interessi cioè non so tu personalmente o chi ci ascolta
e ci ascolterà come procedere alla lettura dei giornali o
nell'ascolto del della telegiornale o del giornale
radio che in realtà hanno una gerarchia ma quando noi apriamo
un quotidiano siamo noi stessi a scegliere quali pagine
leggere per prima insomma noi sappiamo che esempio le notizie
locali di cronaca locale sono quelle che interessano una
percentuale molto eh di lettori, lettrici, ascoltatori,
ascoltatrici. Di qui il primo criterio cioè quello del quello
geografico e cioè quanto un evento, un fatto informativo,
un atto informativo è vicino a noi, ai nostri interessi. E
quindi anche le guerre rispondono a questo criterio.
Per cui noi ci occupiamo, almeno credo di ucraina, eh più
di quanto ci occupiamo di yemen e la nostra attenzione va
all'Ucraina più di quanto non faccia per una ragione
puramente geografica. L'Ucraina è un paese molto vicino a noi
con il quale abbiamo un rapporto molto stretto. In
Italia ci sono mi pare duecentocinquanta,
duecentosessantamila ucraini, ucraini prima dell'inizio della
guerra, adesso se ne sono aggiunte centomila. È il paese
europeo nel quale la percentuale di ucraini è fuori
dall'Ucraina, a parte la Polonia, è la più alta d'Europa
e quindi c'è un interesse diretto quindi il criterio
geografico è il primo credo che muova poi i media e coloro che
ricevono notizie, fruitori delle dell'informazione.
L'altro è quello dell'impatto sulle nostre vite. Quando una
guerra ha un impatto diretto o indiretto sulle nostre vite i
media tendono a occuparsene. Tu hai citato la Siria. La Siria
non è tanto vicina però ha avuto un impatto diretto sulle
nostre esistenze perché eh quella guerra ha generato un
flusso di migranti enorme che sono arrivati in Europa e di
qui anche la preoccupazione e gli interessi dei cittadini
italiani in primis quelli tedeschi che sono passati paesi
accoglienza ma anche dei cittadini italiani rispetto
agli effetti di quella guerra. Poi una guerra suscita la
nostra attenzione se ha un impatto economico e l'Ucraina
da questo punto di vista ha un enorme impatto economico perché
spesso le guerre nella fattispecie nella maniera
evidente generano delle sanzioni che possono avere una
ricaduta sull'economia interna. Questo è un altro dei criteri
che poi spingono i media a occuparsene più o meno. A
questi criteri di di ordine generale chiamiamolo così poi
Giuseppe. Io ne aggiu un altro che per così dire la torsione
politica che qualsiasi guerra genera. Quale più e quale meno
l'Iraq ne ha avuta un enorme l'Ucraina ne ha uno eh
gigantesco perché il rapporto con la Russia è un rapporto
politicamente molto sensibile in tutta Europa ma in Italia
direi in maniera particolare perché alcuni nostri partiti e
movimenti hanno avuto un rapporto con la Russia
piuttosto stretto l'Italia è uno dei paesi che ha intessuto
rapporti molto stretti con la Russia devo dire che anche la
Germania non è da meno se leggiamo abbiamo letto le
polemiche questi giorni sul ruolo di Gerald Schröder dopo
l'intervista che ha fatto a New York quattro cinque giorni fa
tradotta da molti giornali europei da qui da noi dalla
Stampa anche la Germania ha questa questione politicamente
sensibile e questo significa che i nostri giornali e il
nostro sistema mediatico usa anche quell'argomento per
riflessi effetti di politica interna e questo lo misuro io
ad esempio che conduco una trasmissione radiofonica ogni
'giorno perché mi rendo conto che certi e l'attenzione che
viene portata dagli ascoltatori su certi profili è figlia del
loro modo di leggere la politica italiana anzi direi in
maniera più esplicita del loro orientamento politico di chi
votano perché il modo in cui loro si pronunciano rispetto a
questa guerra è figlio della loro struttura mentale appunto
del del loro modo di leggere le cose della politica. Poi c'è
una terza questione un terzo modo di leggere eh questi
fenomeni che anche purtroppo questo è forse il più triste
degli degli argomenti l'importanza geografico,
politica, economica dei paesi in cui si svolgono i conflitti.
Eh tu davi quel dato quarantaquattro conflitti a mio
avviso io che faccio il giornalista potrei numerarne al
massimo quindici venti ma altri nemmeno li ricordo
probabilmente nemmeno li so nemmeno li conosco e
figuriamoci chi non lo fa professionalmente e non finisce
nel nel bacino di nell'occhio mediatico semplicemente perché
sono paesi troppo lontani da noi. Con interessi economici
che non impattano assolutamente sul nostro mercato che
significa anche il mercato dell'informazione e quindi la
terza ragione è quella più amara di tutte. Ti vorrei
chiedere anche dal punto di vista soggettivo di un
giornalista cosa vuol dire trovarsi improvvisamente in una
scena mediatica completamente cambiata cioè un giornalista in
particolare come te abituato a seguire attualità più diversa,
dalla politica, all'economia alla società alla cultura. E
poi a un certo punto succede un fatto enorme drammatico che
occupa il novanta percento se non in alcuni momenti il cento
percento del panorama informativo peraltro su un
paese che sì certo come tu dicevi è vicino ma in realtà di
cui poi gli italiani sanno ben poco. Ecco come cambia il il
tuo lavoro nel raccontare i conflitti diciamo eh un
conflitto che scoppia in questa maniera cioè eh eh ci sono delle regole che
che rimangono cambia tutto, cambiano i parametri con cui si
organizza il proprio lavoro, insomma, che cosa vuol dire per
un giornalista improvvisamente doversi occupare di un fatto
come questo? Questa è una risposta che io ho tentato di
dare anche in quel saggio in cui abbiamo riflettuto proprio
con saggio Laterza a più voci sul come sarebbe stato il mondo
dopo il covid, il mondo dopo la fine del mondo e all'interno di
quel breve articolo io provavo a riflettere su che cosa era
successo con il covid, perché prendo subito di petto la covid
perché in realtà oramai nella mia lunga vita professionale ai
microfoni mi è capitato spesso come dicevi tu di eh dover
parlare di io parlerei più che di guerre di eventi che hanno
avuto un impatto mediatico e quindi informativo enorme qui
me ne erano assegnati ed elencati alcuni la guerra
Jugoslavia eh l'Iraq due volte la guerra in Afghanistan guerre
che abbiamo coperto meno ad esempio quelle africane in
Ruanda però la Libia già 'sta insomma desta nostra
attenzione. Guerre di precedenti intromissioni russe,
definiamole così, pensiamo pensiamo alla Georgia, pensiamo
alla Crimea cambia tutto, cambia il lavoro a seconda
dell'importanza e dell'impatto che ha quella guerra come come
suggerivi tu e però devo dirti che rispetto alla copertura che
stiamo dando e che poi, secondo me, sarà utile, se insomma sarà
utile tornare su questo punto eh perché quanto il sistema
mediacrico italiano agli altri paesi europei copre un evento
come la guerra in Ucraina credo sia interessante perché eh gli
italiani tendono eh i giornali italiani per mille ragioni a
dare una copertura superiore cioè in termini di più pagine
rispetto ad altri tradizioni giornalistiche europee però il
punto qual è? Che l'impatto che ha avuto il covid questo
scrivevo nel nel saggio all'interno del mondo dopo la
fine del mondo è stato talmente soverchiante per noi
giornalisti che questa guerra che pure ha di nuovo effetti e
conseguenze enormi sullo scardinamento dell'agenda
informativa tradizionale eh devo dire che quella ha
cambiato tutto perché lì davvero per mesi per mesi in
ragione di quello che è successo e in ragione
soprattutto del lockdown che imponeva alle popolazioni di
stare a casa è stato il solo argomento di attenzione
pubblica cioè io ricordo settimane, settimane se non mesi Giuseppe
in cui la scaletta era dedicata al covid interamente lì sì
che la monotematizzazione che il covid aveva imposto era una novità
assoluta. Cioè a me nella mia vita professionale non era mai
capitato né con l'undici settembre né con le guerre, in
Iraq, in Afghanistan, né con la terribile degli attentati
terroristici ehm, del terrorismo islamico in Europa,
di dare una copertura così totale come ci è accaduto con
il covid. Quindi questa guerra sì ha cambiato la gerarchia
delle notizie e ha monopolizzato l'attenzione
pubblica e il modo in cui lavoriamo, ma non l'ha fatto il
covid. Per quanto riguarda questo aspetto di cui parlavi
della abbondanza informativa italiana rispetto anche ad
altri paesi abbiamo ascoltato l'opinione di Giovanni De
Mauro, il direttore di internazionale che è il
settimanale che ci riporta una selezione proprio di quello che
si dice, si scrive sui grandi giornali stranieri e la
risposta è molto interessante. Come sempre quando si parla di
mezzi di informazione è difficile generalizzare.
Possiamo dire che rispetto al modo in cui la gran parte dei giornali
italiani sta seguendo la guerra in Ucraina i giornali di
alcuni paesi europei in particolare Spagna, Francia,
Regno Unito e Germania e all'interno di quei paesi
giornali di riferimento quindi è il Paese in Spagna, le mondi
in Francia, il Franancial Times o il Guardian, Regno Unito
dedicano quotidianamente al conflitto decisamente meno
pagine. Puntano cioè molto sulla selezione e sulla qualità
dei singoli articoli che sulla quantità o sulla loro varietà.
E perfino nelle prime settimane di guerra lo spazio dedicato
all'invasione dell'Ucraina non ha mai superato le sei o le
otto pagine contro le venti e più pagine in Italia. E questa
è certamente la differenza maggiore quella più rilevante o
che comunque salta agli occhi. Ecco quello che dice De Mauro
mi sembra coincide con quello che tu ci dicevi e la prima
domanda è semplicemente perché secondo te c'è questa
sovrabbondanza informativa in Italia rispetto agli altri
paesi però voi vorrei chiederti di aggiungere anche un commento
più qualitativo cioè a me pare che la nostra informazione
particolarmente la televisione è molto suggestiva eh ma anche
i giornali che mettono grandi foto, grandi titoli e nuove
colonne ci sono poi i dibattiti, talk show, le
analisi però c'è moltissimo, un'informazione, come dire, di
di testimonianza e quindi nella guerra di testimonianza
terribile, tragica, di persone che soffrono e l'impressione è
che questa non è neutra è questa informazione così
emotiva, può avere una conseguenza sull'opinione
pubblica, può avere conseguenze paradossalmente opposte. Può
portare al fatto che uno dice facciamo di tutto per farlo
finire fino a entrare nel conflitto fino invece a quello
che provoca una certa assuefazione cioè l'idea che
basta non ne voglio più sapere non posso vivere
quotidianamente la mia normalità e avendo ogni minuto
queste immagini terribili ecco eh come dire entriamo nel vivo
del tema quindi quantità da una parte ma anche qualità
dell'informazione cosa vuol dire? Scusi qui potremmo
discutere per ore e ore immagino che anche tu abbia
delle riflessioni da da consegnare a questo incontro eh
anzitutto riprendo quello che diceva De Mauro eh aggiungendo
che non mi stupisce affatto la considerazione che faceva il
direttore di internazionale perché primo c'è un dato molto
semplicemente fattuale numerico che riguarda la foliazione cioè
eh molti giornali italiani sono più lunghi in termini di numero
di pagine appunto la foliazione rispetto a eh alcuni dei grandi
giornali europei basterebbe pensare a Le Monde o El País il
nostro Corriere della Sera è un giornale molto lungo eh
Repubblica e La Stampa si sono accorciati dal punto di vista
delle pagine ma in generale la nostra è una stampa primo
sovrabbondante cioè noi abbiamo un numero di giornali enorme
superiore a molti perdono soldi ma insomma ora non facciamo un
discorso di mercato editoriale facciamo un discorso di
contenuti che quelle pagine devono riempire e eh se
ci facciamo caso diceva De Mauro eh nella Le Monde o El País
massimo otto pagine sono dedicate alla guerra su quella sera
dipende dai giorni ma insomma nei giorni eh
alle nostre spalle ma anche oggi molto semplicemente ho qui di
fronte a me un po' di giornali italiani mi sembra ci siano
dodici quattordici pagine dedicate alla guerra, alla
stampa è lo stesso ma anche eh domani dedica moltissime pagine
anche il foglio dedica enorme attenzione quindi una
percentuale che più o meno quella dei due terzi alla alla
guerra le ragioni sono le più diverse la più banale se volete
la più prosaica è che quelle pagine devono essere riempite
siccome questo è il tema che domina l'agenda informativa
italiana e quindi giocoforza in un sistema di circuito
virtuoso perverso anche l'attenzione del pubblico. Eh i
giornali tendono a dare al pubblico quello che al pubblico
interessa eh o viceversa. Ma poi c'è una seconda un secondo
punto. È che lo vediamo dai dati d'ascolto i talk show
almeno nei primi delle prime settimane senz'altro nel primo
mese e mezzo che si occupavano e si occupano perché ogni sera
noi abbiamo due tre talk show che si occupano principalmente
della guerra in Ucraina fanno buoni ascolti. Questi sono
processi che abbiamo sperimentato sempre con i
grandi eventi è successo anche col covid la la anche per
ragioni di lockdown insomma i consumi televisivi ma anche nei
talk show radiofonici e sui giornali sono aumentati sono
aumentati in tutto la PanoPlia diciamo degli del dei media e
eh perché il pubblico chiedeva quelle notizie. Quindi i
giornali italiani tendono a dare al pubblico quello che si
aspettano che il pubblico voglia ricevere. E quindi
moltiplicano le pagine gli spazi che si occupano di di
guerra. Come lo fanno? Perché poi questa è la vera domanda
che mi ponevi. Qui secondo me bisogna distinguere fra i vari
media, fra i quotidiani, la televisione, la radio, la rete,
va sulla rete forse poi un'attenzione diversa. Ora io
tendo a essere meno severo di quando parliamo al di là di
questo podcast quando parliamo io e te tu tendi a avere un
atteggiamento sempre molto severo e pessimista rispetto
alla stampa italiana io tendo a essere un po' più ottimista
forse perché 'sto qui dentro faccio faccio il giornalista.
Poi bisogna distinguere molto i singoli quotidiani. Quello che
mi sento di dire è che a mio avviso alcuni quotidiani
italiani stanno facendo un ottimo lavoro. Eh qui ne cito
tre o quattro corriere della Sera, La Stampa a mio avviso a
venire domani anche il Foglio. Gli altri quotidiani anche
Repubblica che pure ha spesso delle interviste di grandissima
qualità repubblica tende ad esser insomma si è a mio avviso
molto schierata. Poi legittimamente o meno questo
non spetta a me dirlo e quindi è un giornalismo in questo
momento un po' più partigiano di quello che fanno gli altri
anche il Corriere della Sera una posizione molto orientata
ma a mio avviso ha un'articolazione di posizioni e
di ponte di molto ricca. Il Corriere della Sera a mio
avviso sempre 'sta facendo un lavoro eccellente in questa
guerra e e mi permetto di dire che persino Le Mondo o il
Guardian hanno una ricchezza di posizioni, di sguardi, una
varietà di inviati inferiori al della sera e anche la stampa e
qui tocco subito l'argomento che tu suggerivi cioè
l'emotività dell'informazione italiana. Ecco questo è il vero
eh punto forse dolente ma che riguarda il passaggio a un
altro medium. La televisione soprattutto la televisione. Il
nostro, il giornalismo italiano, è un giornalismo che
è più emotivo che analitico. Qui sì davvero il New York
Times, il Guardian, Le Monde, i giornali tedeschi alcuni
giornali spagnoli tendono a avere uno un modo di raccontare
i fatti che mette l'analisi dei fatti al primo posto e poi il
racconto emotivo, corazzate, come il New York Times fanno
entrambi benissimo, cioè c'è l'analisi militare, geopolitica
c'è una quantità di storia, racconti, emotivi straordinari.
Vai il New York Times cioè il diciamo il giornale più
importante del mondo almeno credo. E altri eh il Le Monde
punta molto sull'analisi e meno sull'emotività. Noi facciamo il
contrario. I talk show italiani sono pieni di storie pieni di
racconti e l'analisi tende a essere sempre avversaria cioè
schierare due parti, una contrapposizioni come il
vecchio modello di Ballarò perché è una dinamica che
funziona. Che però fa pagare un prezzo immagino che tu su
questo voglia aggiungere delle considerazioni un prezzo in
termini di comprensione razionale dei fatti
l'osservazione razionale di quello che accade. Questo in
televisione è evidente. Sui giornali il racconto emotivo
penso a quello che fa ad esempio Francesca Mannocchi che
che fa sia in televisione sulla Sette sia da noi alla radio su
Radio Uno sia sulla stampa con degli articoli a mio avviso ma
eh lo fa Marta Serafini sul Corriere della Sera, lo fa su
Repubblica Stein ad esempio che è entrato con secondo me con un
reportage straordinario dentro l'acciaieria dove sta la
brigata Azov ovviamente lì è un racconto di un'emotività
altissima, fortissima. Quella è una è una eh cifra del
giornalismo italiano verso la quale sulla quale io non riesco
a emettere un vero giudizio. Cioè io penso che ad esempio i
racconti della della Mannocchi che sceglie una chiave
narrativa siano molto belli. Non me la sento di di certo poi
ti spingono su posizioni. Ti ti spingono a prendere una
posizione rispetto alla guerra? Forse sì. Perché è anche la
scelta che fa il TG uno ad esempio che fa un racconto
collettivo sul quale magari torneremo composto dal racconto
dei giornalisti professionali ma anche di video che magari
hanno girato gli ucraini che vengono messi assieme. Certo
c'è una fortissima componente emotiva. E poi io mi chiedo e
qui davvero non so che risposta dare è far vedere quei
racconti, far vedere le immagini dei morti perché si è
aperto un dibattito molto interessante all'interno ad
esempio del sindacato giornalisti, del del della mia
categoria che perché alcuni lamentano, il fatto che non
dovremmo far vedere le immagini dei morti, non dovremmo far
vedere le immagini dei bambini, le immagini delle donne e io
sinceramente lì non so che posizione prendere perché
orientano il fruitore e poi rischiano di assuefare il
fruitore. Questa è una questione che tu ti ponevi. Non
lo so. Io qui davvero non so che che posizione la radio poi
anche qui bisogna distinguere molto perché noi alla Radio
anch'io al giornale radio cerchiamo di separare diciamo i
fatti dalle opinioni però poi è difficilissimo farlo perché
tutto si intreccia. Radio Tre ha una narrazione un po' più
distante rispetto a quella di Radio Uno che ha anche gli
ascoltatori quindi è un racconto collettivo in cui però
la componente emotiva è molto presente. Chiudo su un punto il
la questione che il giornalismo italiano è un giornalismo partigiano
fazioso, emotivo, più di altri tradizioni giornalistiche.
Quindi quello che accade nel nostro paese in ultima analisi
qui chiudo non ci deve sorprendere. Ma tu hai messo
insieme molte cose e le hai messe insieme a ragione perché
sono collegate però vorrei isolare tre parole su cui
vorrei andare un pochino più in profondità. Tu hai parlato di
soggettività hai parlato di emotività e hai parlato di
partigianeria. Allora, cominciamo con ultima. Allora
eh noi abbiamo fin qui parlato di informazione dal punto di
vista dell'utente ma dal punto di vista di chi combatte la
guerra l'informazione è uno strumento bellico no come sa
bene anche Zelenski che ha usato straordinariamente bene
l'informazione in questo periodo e certamente è arrivato
alle opinioni pubbliche di molti paesi in attraverso il
suo messaggio un messaggio che però arriva da tante fonti ci
sono appunto filmati che arriva attraverso il eh cellulare da
parte di delle persone più diverse. Ci sono fake news.
Ecco la partigianeria del giornalista fino a che punto è
ammissibile. Cioè il giornalista in un certo senso
avrebbe il dovere di tirarsi fuori dal conflitto e di
raccontare ciò che vede perché se invece è parte di questo
conflitto e si sente come dire parte di un'ammissione
salvifica anche se sta dalla parte buona forse rischia di
diventare strumento di propaganda e non è più questo
il compito del giornalista o sbaglio? Questa è una questione
enorme. Io ricordo che nei manuali di giornalismo veniva
sempre citato un caso. Vado a memoria quindi potrei
sbagliarmi sul riferimento bellico. Ma mi pare riguardasse
la prima guerra mondiale se non la guerra civile americana ma
mi sembra più difficile perché i tempi del giornalismo
americani erano lentissimi perché ovviamente eravamo agli
albori della stampa però e del caso cronista che stava sul
ciglio di un fronte di guerra e vede avanzare questo americano
e vede avanzare le forze nemiche e si domanda che devo
fare? Perché poi questo è un credo sia un fatto veramente
verificatosi e si domanda devo stare qui e e vedere con i miei
occhi per poi raccontare ai miei lettori l'avanzamento
delle forse è di età ma addirittura dell'avanzamento
delle forze avversarie o devo correre dal mio esercito per
avvertirli che stanno arrivando i nemici? Questo ovviamente è
un caso macroscopico di quello che rischia di fare giornalismo
oggi 'giorno guarda Giuseppe sarò il più pratico possibile.
Gli ascoltatori mi chiedevano siccome a Radio Anch'io ho
provato a porre la domanda che ci stiamo ponendo in questo in
questo incontro. Come stiamo raccontando la guerra. E eh oh
abbiamo invitato vari interlocutori che hanno avuto
delle idee, delle opinioni molto diverse. C'era ad esempio
Giuliana Mascherina che insieme ad altri vecchi eh inviati di
guerra aveva una posizione molto critica c'era Massimo
Giannini il direttore della stampa che invece raccontava
perché si fanno certe scelte ma insomma il punto è che gli
ascoltatori ci domandavano ma qual è la vostra linea
editoriale a questa guerra. Mi sono confrontato con Andrea
Vianello e eh abbiamo convenuto su un punto contestabile
Giuseppe, non lo metto in dubbio, che è il seguente, noi
dobbiamo essere i più neutrali e oggettivi possibili, far
parlare i nostri inviati che sono sul campo, vedono le cose
con i loro occhi, incontrano le persone, parlano con le fonti
ma poi non possiamo scordare che in questa guerra c'è un
aggressore e c'è un aggredito. Ora tu mi dirai sì ma significa
questa frase? Anche qui ci riporta su un terreno emotivo
cioè che da un certo punto di vista uso un'espressione molto
correva facciamo il tifo? Punto interrogativo ci auguriamo che
gli ucraini sconfiggano i lussi e quindi come giornalisti non
riusciamo a liberarci di queste lenti cioè il fatto che noi
parteggiamo per gli ucraini ecco questo è un errore cioè eh
che istintivamente rischiamo tutti di commettere anche io
personalmente non lo nascondo cioè in questa guerra trovo la
prepotenza dell'aggressore russo come ha detto il nostro
della Repubblica per il venticinque aprile c'è un
prepotente che ha aggredito c'è un popolo che eh che è appunto
vittima di quella aggressione. È difficile liberarsi di queste
lenti. Però il giornalismo professionista e gli
anglosassoni da questo punto di vista sono io penso più la BBC
più gli inglesi degli americani perché gli americani se vai a
leggere la stampa persino il grande New York Times nel
rapporto con la Cina e nella descrizione della Cina e della
Russia ha un bias su una distorsione che è quasi
pregiudiziale però il punto è che molto sgombrare, liberarsi
di questo bias, di questa distorsione, di questo
pregiudizio ma uno è un professionista ed è un
giornalista proprio per questo. Cioè, è un giornalista, è un è
un professionista perché deve nei limiti del possibile
liberarsi dei pregiudizi che lo spingono a raccontare un fatto
e a leggere soltanto e a dare ascolto soltanto a certe fonti.
Ora non ho né voglia, né desiderio, né penso di poter
giudicare quello che 'sta accadendo ad esempio
all'interno della mia azienda a voci a sguardi e occhi che sono
sembrati parteggiare per una parte eh mi riferisco a
corrispondenti da dalla Russia da Mosca che hanno messo un po'
in crisi la nostra la nostra azienda è una questione che
riguarda la stampa che però quando non è servizio pubblico
se la può porre in una maniera un po' più libera cioè se
Repubblica sceglie di avere un punto di vista, di essere
partigiana essendo un giornale privato legittimamente può
farlo, come lo può fare la sera, un'altra cosa è per
riguarda eh la Rai o la BBC e la BBC è stata anche accusata
ad esempio di essere più volte partigiana di aver preso una
posizione sulla Brexit perché poi questo riguarda la guerra
ma riguarda qualsiasi argomento anche sulla politica però eh
capisco il l'obiezione che tu poni il rischio di essere
strumento di propaganda e di ascoltare solo le fonti
ucraine. Anche perché noi abbiamo più fatti facciamo più
fatica a eh cercare fonti russe, dare voce a quella che
per noi è solo mentre c'è propaganda anche da parte
americana ovviamente come in ogni conflitto c'è propaganda
parte ucraina anzi c'è in maniera forte eh aggressiva
persino da da fonte ucraina però è molto difficile. Dovere
di un giornalista e cercare ecco di Allora io non credo che
sia possibile liberarsi dai propri pregiudizi soprattutto
in un in un conflitto però il nostro dovere secondo me è un
altro è quello del pluralismo cioè di fronte a un fatto
cercare sempre di abbeverarsi a più fonti cioè raccontare quel
fatto anche dal punto di vista russo faccio un esempio oggi ho
visto nella conferenza stampa a Mosca dopo un incontro fra
Guterres e Lavrov il punto di vista non coincidevano però nostro
dovere è anche ascoltare Lavrov dare conto di quello che dice Lavrov
ed eventualmente fare un'operazione di validazione di quello che ti
dice Lavrov ma anche di quello che dice Guterres e di quello
che dice Blinken e di quello che dice Biden e di quello che
dice Austin. Cioè questo credo sia il nostro dovere Giuseppe.
A proposito di pluralismo abbiamo chiesto a Marina
giornalista della redazione est di Rai News ventiquattro di
raccontarci la sua esperienza nei primi giorni del conflitto
come corrispondente da Mosca. Ecco che cosa ci ha detto. Una
delle esperienze che mi rimarrà senz'altro impressa dalla
guerra in corso in Ucraina e l'esperienza che ho avuto in
prima persona da inviata per un brevissimo periodo di circa tre
giorni a Mosca all'inizio di marzo. La particolarità di
quella esperienza è stata quella di atterrare nella
capitale russa proprio eh il giorno eh in cui una girata
legge contro le fake news entrata in vigore in Russia con
la quale si rischiavano con le quali tutt'oggi si rischiano
fino a quindici anni di carcere. Un'altra particolarità
eh dell'arrivo del mio arrivo a Mosca era il momento in cui
molte molte sedi ehm dei corrispondenti eh esteri
chiudevano in particolar modo colpiva la decisione della BBC
che per la prima volta dalla seconda guerra mondiale
decideva di chiudere la propria sede eh per la impossibilità eh
di effettuare il lavoro in maniera appropriata proprio a
causa. Dell'entrata in vigore di questa legge. Eh e dunque
potete capire la mhm difficoltà con la quale uno eh si
preparava magari di fare una diretta nel momento in cui eh
una legge che non definiva bene tutt'oggi non definisce bene
quello che eh si intende eh per il concetto delle notizie
false, le cosiddette fake news e di conseguenza il concetto
chiave era quello di non utilizzare la parola 《война》 ovvero la
guerra eh in russo eh ma quello che tutt'oggi viene ripetuto
come un mantra dal Cremlino ovvero la operazione speciale
militare. Eh il maggior dubbio è maggior diciamo una maggiore
difficoltà era quella di eh raccontare la percezione
soprattutto quello che si poteva insomma raccogliere e
documentare in nelle ore in cui eh eravamo lì eh e non eh
appunto cadere nella trappola della cosiddetta autocensura
per essere in linea di questa nuova legge dunque un
equilibrismo eh non facile ehm e soprattutto partendo dalla
mhm dal concetto che appunto si doveva raccontare un conflitto
senza utilizzare la parola chiave ovvero la eh guerra e
dunque a questo punto si decideva insomma di eh per così
dire parafrasare eh il concetto della guerra così come chiama
il Cremlino la guerra ovvero la operazione speciale militare e
raccontare la percezione eh della città in cui eh stavamo
Mosca che è nel mio eh particolar caso mi ricordava
moltissimo la mia città di origine degli anni novanta a
Belgrado la città spettrale dove si cercava di simulare una
specie di una assurda normalità eh dove eh non c'erano le
immagini eh assolutamente della guerra qualcosa che già era
molto presente per esempio a Roma eh sia entrando nei bar,
nei ristoranti degli schermi televisivi dove il conflitto
era ormai onnipresente eh questo eh aspetto del tutto
mancava per esempio paradossalmente nella
principale protagonista una città protagonista di questo
conflitto a vero Mosca dall'altra parte un'altra
immagine che si cercava di raccontare quella della mhm
esperienza che si è avuta con delle persone che facilitavano
il nostro lavoro in quel momento eh ovvero questa
necessità di lasciare la città eh dunque se dare un titolo a
quelle quarantotto ore eh a Mosca sarebbe eh sicuramente la
fuga da Mosca. E ora torniamo alla conversazione con Giorgio
Zanchini.
Liberarsi dei propri pregiudizi secondo me è possibile a
partire dalla consapevolezza di averli i pregiudizi. Certo. Noi
abbiamo ospitato all'auditorium di Roma una bellissima lezione
di Andrea Graziosi che raccontava diciamo come dietro
all'invasione russa ci sia un'ideologia. Noi spesso
sentiamo oscillare il giudizio su Putin tra il pazzo e il
criminale. Beh non necessariamente deve essere
pazzo criminale. Eh magari lo è. Ma diciamo basterebbe capire
l'ideologia la l'ideologia come dire sedimentata
nell'establishment russo che Putin rappresenta e da questo
punto di vista questo aiuta a a liberarci diciamo da un
pregiudizio quantomeno a capire per esempio che forse noi
occidentali ci siamo illusi che la storia fosse mossa solo
dagli interessi e quindi bastava trafficare coi russi, scambiare,
fare affari e sarebbero rabboniti. No, la storia dentro
la storia c'è una componente ideologica e culturale fortissima per cui
non so come la pensi su questo ma bisogna sempre tener
presente che anche se io faccio business con qualcuno se quello
rimane imbevuto di un'ideologia totalitaria
questo pesa comunque. Io su questo sono d'accordissimo anzi
il fatto che tu abbia eh menzionato Andrea Graziosi mi
fa dire che forse è nostro dovere e io ho cercato di farlo
nel piccolo di Radio Anch'io e rivolgerci ai veri competenti
che ovviamente sono anche geopolitici qualche volta
persino giornalisti però è quello che ha fatto nel suo
intervento a Radio Anch'io. Cioè ci ha rimandato alla
storia. Anche alla storia dell'ideologia e quindi alla
componente ideologica nelle scelte di un gruppo dirigente
nella fattispecie quello moscovita, quello del quello
del Cremlino. Ecco, forse il nostro compito è di fronte al
rischio da un lato della propaganda, dall'altro del
pregiudizio, dall'altro della partigianeria è quello di
provare a divolgersi, anche se qui su insinuo subito un dubbio
perché persino gli storici hanno il loro pregiudizio
quindi nel raccontare i fatti e la storia e descrivere un
gruppo dirigente corrono seppur meno di noi lo stesso rischio
però ecco rivolgerci ad Andrea Graziosi o eh a Cella che è un
altro studioso di Ucraina molto attento però ad esempio
Giuseppe sarò molto franco quando ho rivolto la stessa
domanda a Franco Cardini che non è uno specialista come
Andrea Graziosi dell'Europa orientale del novecento che è
però un'insigne storico ha dato una descrizione completamente
diversa a quella di Graziosi quindi capisci che è sempre molto
questo no? Ma non c'è dubbio. D'altra parte non credo che
neanche Veraziosi pretenda di avere la verità. No certo. Ehm
io credo che tutti noi siamo alla ricerca. E ehm tornando un