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Cristo si è fermato a Eboli - Carlo Levi, Assonanze - Alicata

Assonanze - Alicata

«Diciamo subito, naturalmente, ad evitare equivoci o speculazioni non del tutto disinteressate, che le osservazioni che qui di seguito faremo non turbano affatto, però, il giudizio complessivo positivo che anche noi diamo della personalità e dell'opera pittorica e letteraria di Carlo Levi, il quale, fra gli intellettuali non marxisti, è senza dubbio fra quelli che, in questo secondo dopoguerra, dal Cristo si è fermato a Eboli alla sala della recente Biennale d'arte di Venezia, hanno con più impegno assunto a tema principale della propria attività artistica il mondo contadino meridionale. Ma proprio per l'apprezzamento che diamo all'opera di Carlo Levi e per la stima che nutriamo per lui, vorremmo dire proprio per il desiderio di vederlo schierato su posizioni, secondo noi, più esatte, e più utili alla causa del Mezzogiorno, noi non gli abbiamo mai risparmiato, quando lo abbiamo ritenuto necessario, anche la critica la più aspra: come è giusto, ci sembra, fra compagni di lotta. Ciò premesso, fermiamoci ora a considerare per pochi istanti il Cristo si é fermato a Eboli, opera senza dubbio artisticamente molto originale e la quale, cosa che più importa per la natura del nostro discorso, ha svolto un ruolo efficacissimo nella denuncia delle condizioni di miseria e di arretratezza del Mezzogiorno, ha dato un contributo sensibile, negli anni decisivi della caduta del fascismo e della nascita della Repubblica, ad una nuova, prima popolarizzazione del problema meridionale in strati molto ampi dell'opinione pubblica italiana e straniera, ha aiutato, nel momento del primo risveglio ad una nuova vita politica del Mezzogiorno, gruppi di piccola borghesia intellettuale delle nostre regioni a rendersi conto della condizione umana propria e dei propri simili. È chiaro, in questo senso, che Cristo si è fermato a Eboli appartiene senza dubbio alcuno alla tradizione «meridionalista» ed anzi si riallaccia alle sue correnti più progressive. Ma detto ciò, non dovremmo forse fermarci a notare anche gli altri elementi che si ritrovano nella ideologia che sta alla base del libro del Levi, e che lo rendono, come del resto tutta la personalità e tutta l'opera letteraria e pittorica del suo autore, profondamente contraddittorio? Se infatti, nella rappresentazione dataci dal Levi del mondo meridionale, anzi del mondo contadino meridionale, hanno da un lato gran posto la denuncia della miseria in cui versano le nostre campagne, lo sfruttamento al quale i contadini sono sottoposti, le ingiustizie e le violenze attraverso le quali lo Stato borghese «mantiene» il Mezzogiorno, la critica di un'amministrazione corrotta; e poi l'odio istintivo dei contadini contro lo Stato fascista e contro i suoi rappresentanti locali (i signori, il podestà, il prete, ecc. ), la loro insofferenza verso un sistema fiscale che li dissangua e verso una pratica burocratica che li avviluppa in una rete inestricabile di carta bollata; dall'altra parte c'è l'enunciazione di una serie di tesi senza consistenza teorica, nelle quali si rivela chiaramente come sia estraneo al Levi ogni proposito di spiegare storicisticamente le ragioni dell'inferiorità sociale del Mezzogiorno e quindi di individuare le forze storiche che, oggi, possono spingere a soluzione la questione meridionale, e le vie per le quali ciò potrà avvenire. Tutte queste tesi, in definitiva, scaturiscono dal fatto che il Levi arriva a riconoscere sì il valore fondamentale del contrasto esistente, nella moderna società borghese, fra città e campagna, ma che di questa conseguenza della "prima grande divisione sociale del lavoro" egli non è capace di dare un'interpretazione dialettica e dunque non è capace né di indagarne l'origine, il significato e gli sviluppi reali, né di analizzare le forme storiche concrete in cui tale contrasto si manifesta oggi in Italia e di cui l'esistenza della questione meridionale è forse appunto l'espressione più tipica. Tutto nel Levi si riduce, invece, ad una spiegazione metafisica, misticheggiante, alla ipostatizzazione della "entità" campagna e della "entità" città». Da Il meridionalismo non si può fermare a Eboli di Mario Alicata, in «Cronache meridionali», n. 5, 1954, poi in Scritti letterari, Il Saggiatore, 1968.

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«Diciamo subito, naturalmente, ad evitare equivoci o speculazioni non del tutto disinteressate, che le osservazioni che qui di seguito faremo non turbano affatto, però, il giudizio complessivo positivo che anche noi diamo della personalità e dell'opera pittorica e letteraria di Carlo Levi, il quale, fra gli intellettuali non marxisti, è senza dubbio fra quelli che, in questo secondo dopoguerra, dal Cristo si è fermato a Eboli alla sala della recente Biennale d'arte di Venezia, hanno con più impegno assunto a tema principale della propria attività artistica il mondo contadino meridionale. Ma proprio per l'apprezzamento che diamo all'opera di Carlo Levi e per la stima che nutriamo per lui, vorremmo dire proprio per il desiderio di vederlo schierato su posizioni, secondo noi, più esatte, e più utili alla causa del Mezzogiorno, noi non gli abbiamo mai risparmiato, quando lo abbiamo ritenuto necessario, anche la critica la più aspra: come è giusto, ci sembra, fra compagni di lotta. Ciò premesso, fermiamoci ora a considerare per pochi istanti il Cristo si é fermato a Eboli, opera senza dubbio artisticamente molto originale e la quale, cosa che più importa per la natura del nostro discorso, ha svolto un ruolo efficacissimo nella denuncia delle condizioni di miseria e di arretratezza del Mezzogiorno, ha dato un contributo sensibile, negli anni decisivi della caduta del fascismo e della nascita della Repubblica, ad una nuova, prima popolarizzazione del problema meridionale in strati molto ampi dell'opinione pubblica italiana e straniera, ha aiutato, nel momento del primo risveglio ad una nuova vita politica del Mezzogiorno, gruppi di piccola borghesia intellettuale delle nostre regioni a rendersi conto della condizione umana propria e dei propri simili. È chiaro, in questo senso, che Cristo si è fermato a Eboli appartiene senza dubbio alcuno alla tradizione «meridionalista» ed anzi si riallaccia alle sue correnti più progressive. Ma detto ciò, non dovremmo forse fermarci a notare anche gli altri elementi che si ritrovano nella ideologia che sta alla base del libro del Levi, e che lo rendono, come del resto tutta la personalità e tutta l'opera letteraria e pittorica del suo autore, profondamente contraddittorio? Se infatti, nella rappresentazione dataci dal Levi del mondo meridionale, anzi del mondo contadino meridionale, hanno da un lato gran posto la denuncia della miseria in cui versano le nostre campagne, lo sfruttamento al quale i contadini sono sottoposti, le ingiustizie e le violenze attraverso le quali lo Stato borghese «mantiene» il Mezzogiorno, la critica di un'amministrazione corrotta; e poi l'odio istintivo dei contadini contro lo Stato fascista e contro i suoi rappresentanti locali (i signori, il podestà, il prete, ecc. ), la loro insofferenza verso un sistema fiscale che li dissangua e verso una pratica burocratica che li avviluppa in una rete inestricabile di carta bollata; dall'altra parte c'è l'enunciazione di una serie di tesi senza consistenza teorica, nelle quali si rivela chiaramente come sia estraneo al Levi ogni proposito di spiegare storicisticamente le ragioni dell'inferiorità sociale del Mezzogiorno e quindi di individuare le forze storiche che, oggi, possono spingere a soluzione la questione meridionale, e le vie per le quali ciò potrà avvenire. Tutte queste tesi, in definitiva, scaturiscono dal fatto che il Levi arriva a riconoscere sì il valore fondamentale del contrasto esistente, nella moderna società borghese, fra città e campagna, ma che di questa conseguenza della "prima grande divisione sociale del lavoro" egli non è capace di dare un'interpretazione dialettica e dunque non è capace né di indagarne l'origine, il significato e gli sviluppi reali, né di analizzare le forme storiche concrete in cui tale contrasto si manifesta oggi in Italia e di cui l'esistenza della questione meridionale è forse appunto l'espressione più tipica. Tutto nel Levi si riduce, invece, ad una spiegazione metafisica, misticheggiante, alla ipostatizzazione della "entità" campagna e della "entità" città». Da Il meridionalismo non si può fermare a Eboli di Mario Alicata, in «Cronache meridionali», n. 5, 1954, poi in Scritti letterari, Il Saggiatore, 1968.