5. DISCIPLINA AUGUSTA (2)
In quell'epoca, Quadrato, vescovo dei cristiani, m'inviò un'apologia della sua fede. Mi ero prefisso di seguire, per questa setta, la stessa linea di condotta rigidamente equa che Traiano s'era imposta nei suoi giorni migliori; avevo recentemente rammentato ai governatori delle province che la protezione delle leggi si estende a tutti i cittadini, e che i diffamatori di cristiani sarebbero stati puniti qualora li accusassero senza prove. Ma ogni tolleranza accordata ai fanatici li induce immediatamente a credere a una simpatia per la loro causa. Stento a credere che Quadrato sperasse di convertirmi al cristianesimo; comunque, volle provarmi l'eccellenza della sua dottrina, e soprattutto quanto essa fosse innocua per lo Stato. Lessi la sua opera, ed ebbi perfino la curiosità di far raccogliere da Flegone qualche informazione sulla vita del giovane profeta chiamato Gesù, il quale fondò quella setta e morì vittima dell'intolleranza ebraica circa cento anni fa. Pare che quel giovane sapiente abbia lasciato precetti che arieggiano quelli di Orfeo, al quale i discepoli talvolta lo paragonano. Attraverso la prosa singolarmente piatta di Quadrato, non mancai tuttavia di gustare il fascino commovente di quelle virtù da gente semplice, la loro dolcezza, la loro ingenuità, il loro affetto reciproco; sembravano le confraternite di schiavi o di poveri che si fondano qua e là in onore dei nostri déi, nei quartieri popolosi delle città; in un mondo che, malgrado tutti i nostri sforzi, seguita a essere spietato e indifferente alle pene e alle speranze degli uomini, queste piccole società di mutua assistenza offrono un appoggio e un conforto a molti sventurati. Ma non ero insensibile ad alcuni pericoli: quella esaltazione di virtù da fanciulli o da schiavi avveniva a discapito di qualità più virili e più ferme; dietro quell'innocenza insipida e ristretta, indovinavo l'intransigenza feroce del settario verso forme di vita e di pensiero che non sono le sue, l'orgoglio insolente che gli fa preferire se stesso al resto degli uomini, la sua visuale deliberatamente limitata da paraocchi. Mi stancai ben presto degli argomenti capziosi di Quadrato, di quelle briciole di filosofia scopiazzata dalle opere dei nostri saggi. Cabria, sempre ansioso del giusto culto da offrire agli déi, si preoccupava del progresso delle sette di questo genere tra la plebe delle grandi città; si sgomentava per le nostre vecchie religioni, che non impongono all'uomo il giogo di alcun dogma, si prestano a interpretazioni tanto varie quanto la natura stessa, e lasciano che i cuori austeri si foggino, se lo vogliono, una morale più alta, senza costringere le masse a precetti troppo rigidi per evitare che ne scaturiscano subito costrizione e ipocrisia. Arriano condivideva queste opinioni. Trascorsi una sera intera a discutere con lui l'ingiunzione di amare il prossimo come se stessi; essa è troppo contraria alla natura umana per essere sinceramente seguita dalle persone volgari, le quali non ameranno mai altri che loro stesse, e non si addice al saggio, il quale non ama particolarmente neppure se stesso.
Su molti punti, d'altro canto, mi sembrava che il pensiero dei nostri filosofi fosse limitato, confuso e sterile anch'esso. Tre quarti dei nostri esercizi intellettuali non sono più che ricami nel vuoto; mi domandavo se tale crescente vacuità fosse dovuta a un decadimento dell'intelligenza o a un declinare del carattere; comunque, la mediocrità di spirito andava raramente disgiunta da una sorprendente bassezza d'animo. Avevo incaricato Erode Attico di sorvegliare la costruzione d'una rete di acquedotti nella Troade; ne profittò per sperperare vergognosamente il pubblico danaro; chiamato a renderne conto, fece rispondere con insolenza d'essere abbastanza ricco per coprire tutto il deficit: e la sua ricchezza, in se stessa, costituiva uno scandalo. Il padre, morto da poco, aveva fatto in modo di diseredarlo con discrezione moltiplicando le elargizioni ai cittadini ateniesi; Erode rifiutò di punto in bianco di tener fede ai legati paterni, e ne nacque un processo che dura ancora. A Smirne,
Polemone, il mio antico compagno, si permise di mettere alla porta una deputazione di senatori romani che avevano creduto di poter fare affidamento sulla sua ospitalità. Se ne adirò persino tuo padre Antonino, l'essere più mite che ci sia; l'uomo di Stato e il sofista finirono per scendere a vie di fatto, gazzarra indegna d'un futuro imperatore, e ancor più d'un filosofo greco. Favorino, quel nano avido che avevo colmato di danaro e di onori, metteva in giro per ogni dove motteggi di cui io facevo le spese. Le trenta legioni che comandavo, a suo dire, erano i miei soli argomenti validi nelle competizioni filosofiche in cui avevo la vanità di compiacermi, e nei quali s'aveva cura di lasciare l'ultima parola all'imperatore. Equivaleva a tacciarmi di presunzione e di stupidità e, soprattutto, menar vanto d'una vigliaccheria singolare. Ma i pedanti si irritano sempre quando si conosce quanto loro il loro piccolo mestiere. Tutto serviva di pretesto a osservazioni maligne: avevo fatto includere nei programmi scolastici le opere troppo neglette di Esiodo e di Ennio; quei gretti conservatori mi attribuirono immediatamente il desiderio di detronizzare Omero, e il limpido Virgilio che pure citavo senza posa. Non c'era niente da fare con quella gente.
Arriano era migliore. Con lui, mi piaceva conversare di qualsiasi argomento. Aveva serbato un ricordo fatto d'ammirazione rapita e di considerazione del giovinetto di Bitinia; gli ero riconoscente di aver posto questo amore, di cui era stato testimone, sul piano delle grandi passioni reciproche del passato; ne parlavamo, di tanto in tanto, ma, benché non fosse detta fra noi alcuna menzogna, a volte provavo l'impressione di avvertire un tono falso nelle nostre parole; la verità scompariva sotto il sublime. Cabria mi deludeva quasi altrettanto: aveva avuto per Antinoo la devozione cieca che il vecchio schiavo prova per il giovane padrone, ma, assorto com'era nel culto del nuovo dio, pareva quasi aver perduto ogni memoria del vivo. Il mio negro, Euforione, almeno, aveva osservato le cose più da vicino. Arriano e Cabria m'erano cari, e non mi sentivo affatto superiore a quei due galantuomini, ma, a volte, mi sembrava d'essere il solo che si sforzasse di conservare gli occhi bene aperti.
Era pur sempre bella, Atene, e non mi rammaricavo d'aver imposto discipline greche alla mia esistenza; tutto quel che c'è in noi di armonico, cristallino e umano ci viene dalla Grecia. Ma mi veniva fatto, a volte, di dire a me stesso ch'era stato necessario il rigore un po' austero di Roma, il suo senso della continuità, il suo gusto del concreto, per trasformare ciò che in Grecia restava solo mirabile intuizione dello spirito, nobile slancio dell'anima, in realtà. Platone aveva scritto "La Repubblica" ed esaltato l'idea del Giusto, ma eravamo noi che, ammaestrati dai nostri stessi errori, ci adoperavamo faticosamente per far dello Stato una macchina atta a servire gli uomini, e che rischiasse il meno possibile di opprimerli. Il termine «filantropia» è greco, ma eravamo noi, il legislatore Salvio Giuliano e io, a tentare di modificare lo stato miserabile degli schiavi. L'assiduità, la serietà, l'impegno nei particolari che tempera l'audacia dei vasti piani, erano virtù che avevo appreso a Roma. E, nel fondo dell'animo, m'accadeva di ritrovare anche i vasti paesaggi malinconici di Virgilio, i suoi crepuscoli velati di lacrime; inoltrandomi ancor più a fondo, trovavo la tristezza ardente della Spagna, la sua violenza arida; pensavo alle gocce di sangue celta, iberico, fors'anche punico, che avevano dovuto infiltrarsi nelle vene dei coloni romani del municipio d'Italica; mi tornava alla mente che mio padre era stato soprannominato l'Africano. La Grecia mi aveva aiutato ad apprezzare tutti questi elementi, che pure non erano greci. Lo stesso avveniva per Antinoo: avevo fatto di lui l'immagine stessa di quel paese appassionato del bello: forse, ne sarebbe stato l'ultimo dio. E, tuttavia, la Persia raffinata e la Tracia selvaggia s'erano mescolate in Bitinia ai pastori dell'Arcadia antica; quel profilo delicatamente arcuato ricordava quello dei paggi di Osroe; il suo viso largo, dagli zigomi sporgenti, era quello dei cavalieri traci che galoppano sulle sponde del Bosforo e la sera erompono in canti rauchi e tristi. Non v'era alcuna formula così completa da poter contenere tutto.
Quell'anno, portai a termine la revisione della costituzione ateniese, iniziata molto tempo prima. Per quanto possibile, mi rifacevo alle antiche leggi democratiche di Clistene. La riduzione del numero di funzionari alleviava le spese dello Stato; ostacolai l'appalto delle imposte, un sistema disastroso, disgraziatamente ancora adottato qua e là dalle amministrazioni locali. Qualche fondazione universitaria, stabilita nella stessa epoca, aiutò Atene a tornare a essere un importante centro di studi. I cultori del bello che erano affluiti in quella città prima di me s'erano accontentati di ammirarne i monumenti senza darsi pensiero della penuria in aumento dei suoi abitanti. Io, al contrario, avevo fatto di tutto per moltiplicare le risorse di quella terra depressa. Uno dei progetti più ambiziosi del mio regno giunse a compimento poco tempo prima della mia partenza: l'istituzione di ambascerie annuali, incaricate di trattare ad Atene gli affari del mondo greco, restituì a quella città limitata ma perfetta il suo rango di metropoli. Quel progetto aveva preso consistenza soltanto dopo negoziati irti di difficoltà con le città gelose della supremazia ateniese o animate da rancori secolari e ormai superati contro di lei; a poco a poco, però, la ragione e l'entusiasmo stesso prevalsero. La prima di queste assemblee coincise con l'apertura dell'Olympieion al culto pubblico: più che mai quel tempio diveniva il simbolo d'una Grecia rinnovata.
In quest'occasione, nel teatro di Dionisio furono dati alcuni spettacoli di grande successo: io sedetti in un seggio appena sovrastante gli altri, accanto a quello dello Ierofante: il sacerdote di Antinoo ormai aveva il suo tra i notabili e il clero. Avevo fatto ingrandire la scena del teatro, bassorilievi nuovi la adornavano: uno di essi rappresentava il mio giovane bitinio nell'atto di ricevere dalle dee eleusine una specie di cittadinanza eterna. Nello stadio panatenaico, trasformato per qualche ora in una selva fiabesca, organizzai una caccia dove figurarono migliaia di bestie feroci, richiamando in vita così, per la durata effimera d'una festa, la città agreste e selvaggia d'Ippolito, servitore di Diana, e di Teseo, compagno d'Ercole. Pochi giorni più tardi, partii da Atene. Da allora, non vi ho fatto mai più ritorno.
L'amministrazione dell'Italia, lasciata per secoli alla mercé dei pretori, non era stata mai definitivamente codificata. L'"Editto perpetuo", che la regola una volta per tutte, data di quell'epoca della mia vita; da molti anni, ero in corrispondenza con Salvio Giuliano circa queste riforme; il mio ritorno a Roma ne affrettò il compimento. Non si trattava di privare le città italiane delle loro libertà civili; al contrario, su questo punto come su tanti altri, abbiamo tutto da guadagnare a non imporre con la forza una unità fittizia, anzi, mi fa persino meraviglia che municipi spesso più antichi di Roma siano così pronti a rinunciare ai loro costumi, talvolta pieni di saggezza, per assimilarsi in tutto alla capitale. Il mio fine era semplicemente di diminuire quella massa di contraddizioni e di abusi che finiscono per far della procedura una boscaglia dove gli onesti non osano avventurarsi e dove prosperano i furfanti. Questi lavori mi costrinsero a spostarmi di frequente entro i confini della penisola. Soggiornai più d'una volta a Baia, nell'antica villa di Cicerone, che avevo comprata agli inizi del mio principato; m'interessavo a quella provincia campana, che mi ricordava la Grecia. Nella piccola città di Adria, sulla spiaggia Adriatica, donde quasi quattro secoli prima i miei avi erano emigrati in Spagna, fui insignito delle più alte cariche municipali; in riva a quel mare tempestoso di cui porto il nome, ritrovai qualche urna di famiglia, in un colombario in rovina. Ripensavo a quegli uomini di cui non sapevo quasi nulla, ma dai quali discendevo, e la cui razza s'estingueva con me. A Roma, si adoperavano per ingrandire il mio colossale mausoleo, di cui Decriano aveva abilmente rimaneggiato la pianta; ci lavorano ancora oggi. L'Egitto m'ispirò quelle gallerie circolari, quelle rampe che declinano verso sale sotterranee; avevo concepito il piano d'un palazzo della morte, che non avrebbe dovuto esser riservato solo a me o ai miei successori immediati, ma nel quale sarebbero venuti a riposare gli imperatori futuri, separati da noi da prospettive di secoli; principi ancora da venire hanno così già il loro posto segnato nella tomba. Mi occupai altresì di ornare il sepolcro elevato nel Campo di Marte alla memoria di Antinoo, per il quale una nave piatta, giunta da Alessandria, aveva scaricato obelischi e sfingi. C'era un nuovo progetto, che mi tenne occupato a lungo e mi ci tiene tuttora: l'Odeon, una biblioteca modello, munita di sale per lezioni e conferenze, destinata a costituire un centro di cultura greca a Roma. Non vi prodigai tanti tesori quanti ne profusi nella nuova biblioteca di Efeso, costruita tre o quattro anni prima, né la colmai dell'eleganza accogliente di quella di Atene. Di questa mia fondazione vorrei fare l'emula, se non l'eguale, del Museo d'Alessandria: lo sviluppo di essa, in futuro sarà compito tuo. Nell'occuparmene, penso spesso alla bella iscrizione che Plotina aveva fatto apporre sulla soglia della biblioteca istituita a sua cura in pieno Foro Traiano: «Ospedale dell'Anima».
La Villa era ormai abbastanza a buon punto da potervi trasportare le mie collezioni, i miei strumenti di musica, le poche migliaia di libri acquistati un po' dovunque nel corso dei miei viaggi. Offrii una serie di feste in cui ogni cosa era prevista con cura, la lista delle vivande e il numero ristrettissimo dei miei ospiti. Ci tenevo che ogni cosa fosse in armonia con lo splendore pacato di questi giardini e di queste sale, che le frutta fossero squisite quanto i concerti, e il funzionamento dei servizi perfetto quanto il cesello dei piatti d'argento. Mi interessai per la prima volta alla scelta delle vivande: volli che si provvedesse a far venire le ostriche dal Lucrino e i gamberi fossero pescati nei fiumi della Gallia. In contrasto con la negligenza pomposa che troppo spesso distingue la tavola imperiale, stabilii la regola che mi si mostrasse ogni piatto prima di offrirlo, sia pure all'ultimo dei miei commensali; insistetti per verificare personalmente i conti dei cuochi e dei trattori: a volte, ricordavo che mio nonno era stato avaro. Non erano ancora terminati né il piccolo teatro greco della Villa, né quello latino, un po' più vasto, ma vi feci egualmente rappresentare qualche commedia. Per mio ordine, furono recitate tragedie e pantomime, drammi in musica e atellane. Mi piaceva soprattutto la ginnastica sottile delle danze, e scoprii d'avere un debole per le danzatrici con le nacchere, che mi ricordavano il paese di Gades, i primi spettacoli ai quali avevo assistito quando non ero che un bimbo. Amavo quel suono crepitante, le braccia levate, quei veli spiegati o ravvolti, quella danzatrice che cessa d'esser donna per diventare nuvola o uccello, onda o trireme. Per una di queste creature, ebbi persino una passioncella di breve durata. Durante le mie assenze, non erano stati trascurati i canili e le scuderie, e ritrovai il pelo duro dei cani, il manto serico dei cavalli, la bella muta dei paggi. Organizzai qualche caccia in Umbria, sulle sponde del Trasimeno, o, più vicino a Roma, nei boschi di Alba. Il piacere aveva ripreso il suo ruolo nella mia vita; il mio segretario, Onesimo, mi serviva da fornitore, sapeva quando bisognava evitare certe affinità, quando, al contrario, ricercarle. Ma questo amante frettoloso e distratto non era troppo amato. A volte, m'imbattevo in un essere più tenero, più fine degli altri, qualcuno che valeva la pena di ascoltar parlare, fors'anche di rivedere; casi fortunati ma rari, per colpa mia, senza dubbio. Di solito, mi bastava placare, o ingannare, la mia fame. In altri momenti, mi accadeva di provare una indifferenza da vegliardo per quei giochi.
Nelle ore d'insonnia, percorrevo i corridoi della Villa, erravo di sala in sala, a volte importunavo un artigiano intento a mettere a posto un mosaico; passando, esaminavo un Satiro di Prassitele; mi fermavo davanti ai simulacri del morto. Ogni stanza aveva il suo, ogni portico perfino. Facevo schermo con la mano alla fiamma della mia lampada; sfioravo con un dito quel petto di pietra. Questi confronti rendevano più arduo il compito della memoria; scostavo come una tenda il candore del marmo pario e del pentelico, risalivo alla meglio da quei contorni immobili alla forma viva, dal freddo marmo alla carne. Proseguivo nella mia ronda; la statua interrogata ripiombava nell'oscurità; a pochi passi da me, la lampada mi rivelava un'altra immagine; quelle grandi figure bianche non si distinguevano quasi dai fantasmi. Pensavo amaramente agli esorcismi mediante i quali i sacerdoti egizi avevano attirato l'anima del defunto dentro i simulacri di legno di cui si servono per il loro culto; avevo fatto anch'io come loro, avevo stregato pietre che mi stregavano a loro volta; non sarei sfuggito mai più a quel silenzio, a quel gelo che ormai mi era più vicino che non il calore, la voce dei vivi; guardavo quasi con rancore quel viso insidioso, dal sorriso sfuggente. Ma, poche ore dopo, nel mio letto, risolvevo d'ordinare a Papias di Afrodisia una nuova statua; avrei voluto un modellato più esatto delle gote, là dov'esse, insensibilmente, s'incavano sotto la tempia, un'inclinazione più lieve del collo sulla spalla; alle ghirlande di pampini e ai fermagli di pietre preziose avrei sostituito questa volta lo splendore dei riccioli nudi. Non dimenticavo mai di far scavare all'interno quei bassorilievi o quei busti per diminuirne il peso, e renderne più agevole il trasporto. Di queste immagini, le più somiglianti mi hanno accompagnato dovunque; non m'importa neanche più che siano belle oppure no.
La mia vita, in apparenza, era normale; mi dedicavo con impegno sempre maggiore al mio mestiere d'imperatore, infondendo in quel compito forse un discernimento maggiore del fervore d'altri tempi. Avevo un poco perduto il gusto delle idee e degli incontri nuovi, e quell'agilità di spirito che un tempo mi consentiva di associarmi al pensiero altrui, di profittarne anche giudicandolo. La curiosità, nella quale una volta ravvisavo la molla intima del mio pensiero, uno dei fondamenti del mio metodo, non si esercitava più che su particolari molto futili; aprii lettere destinate ad amici, che se ne offesero; ma quell'occhiata ai loro amori e alle loro baruffe di famiglia mi divertì solo per un istante. Del resto, vi si mescolava un'ombra di sospetto: per qualche giorno, fui in preda alla paura del veleno, quel terrore atroce che un tempo avevo scorto nello sguardo di Traiano malato, e che un principe non osa confessare, poiché sembra grottesco, sino a che gli eventi non l'hanno giustificato. Sorprende un'ossessione del genere in un uomo immerso d'altro canto nella meditazione della morte; ma, in fin dei conti, non pretendo d'essere più coerente di chiunque altro. Di fronte a stupide inezie, a bassezze banali, mi coglievano furori segreti, impazienze selvagge, un disgusto dal quale non escludevo neppure me stesso. In una delle sue "Satire", Giovenale osò insultare il mimo Paride, che mi piaceva: ne avevo abbastanza di quel poeta ampolloso e corrucciato, non mi piaceva il suo grossolano disprezzo per l'Oriente e la Grecia, le sue affettate simpatie per la cosiddetta austerità dei nostri padri, e quel miscuglio di descrizioni particolareggiate del vizio e declamazioni inneggianti alla virtù che stuzzica i sensi del lettore e ne rassicura l'ipocrisia. Nella sua qualità di letterato, aveva diritto però a certi riguardi, e lo feci chiamare a Tivoli per comunicargli di persona il decreto d'esilio. Questo spregiatore del lusso e dei piaceri di Roma ormai potrà studiare sul posto i costumi della provincia; i suoi insulti a Paride avevano segnato il termine della sua commedia. Nella stessa epoca, Favorino si insediò nel suo comodo esilio di Chio, dove abiterei volentieri anch'io, ma donde non poteva raggiungermi la sua voce pungente. Pressappoco nello stesso lasso di tempo, feci cacciare ignominiosamente da una sala del banchetto un mercante di saggezza, un sordido cinico che si lamentava di morir di fame, come se quella genia meritasse di meglio: mi divertii un mondo quando vidi quel chiacchierone piegato in due dalla paura svignarsela tra l'abbaiare dei cani e gli scherni canzonatori dei paggi; la canaglia dei filosofi e dei letterati non m'imponeva più alcuna soggezione.
Ogni minima delusione della vita politica mi esasperava precisamente come, alla Villa, il più leggero dislivello d'un pavimento, la più piccola sbavatura di cera sul marmo d'una tavola, il minimo difetto d'un oggetto che si vorrebbe immune da imperfezioni, esente da impurità. Un rapporto di Arriano, nominato recentemente governatore della Cappadocia, mi mise in guardia contro Farasmane, che, nel suo piccolo regno sulle coste del Mar Caspio, continuava quel doppio gioco che ci era costato tanto caro sotto Traiano. Quel reuccio spingeva insidiosamente verso le nostre frontiere orde di barbari alani; i suoi conflitti con l'Armenia compromettevano la pace in Oriente. Convocato a Roma, si rifiutò di recarvisi, come già quattro anni prima si era rifiutato di assistere alla conferenza di Samosata. Per tutta scusa, m'inviò un omaggio di trecento abiti d'oro, vesti regali che feci indossare nell'arena ad alcuni criminali dati in pasto alle belve. Questo gesto inconsulto mi appagò come quello d'un uomo che si gratta a sangue.
Avevo un segretario, personaggio mediocre, in verità, che tenevo al mio servizio perché conosceva a fondo il protocollo della cancelleria, ma che m'irritava per la sua sufficienza arcigna e testarda, il suo sdegno per le innovazioni, la mania di cavillare senza fine su minuzie superflue. Un giorno, quell'imbecille m'irritò più del solito; levai la mano per colpirlo; disgraziatamente, brandivo uno stilo, che gli accecò l'occhio destro. Non dimenticherò mai quel suo urlo di dolore, quel braccio goffamente alzato per parare il colpo, quel viso stravolto dal quale colava copioso il sangue. Feci chiamare immediatamente Ermogene, che gli prestò le prime cure, poi fu consultato l'oculista Capito. Ma invano; l'occhio era perduto. Pochi giorni dopo, quell'uomo riprese il suo lavoro; una benda gli traversava il volto. Lo invitai alla mia presenza; gli chiesi umilmente di fissare lui stesso il compenso che gli era dovuto. Mi rispose con un sorriso malvagio che mi chiedeva una cosa sola, un altro occhio destro. Finì tuttavia per accettare una pensione. Lo tengo tuttora in servizio: la sua presenza mi serve di ammonimento, forse di castigo. Non avevo desiderato accecare quel disgraziato. Ma non avevo desiderato neppure che un fanciullo che m'amava morisse a vent'anni.