Bartleby (5)
Ne fui commosso. Gli espressi il mio rammarico; accennai al fatto che naturalmente faceva cosa saggia ad astenersi dallo scrivere per un po'; lo incitai a cogliere quell'occasione per fare qualche salutare attività all'aria aperta. Cosa, tuttavia, che egli non fece. Alcuni giorni dopo, durante un'assenza degli altri impiegati, mi saltò in mente, avendo grande premura di spedire certe lettere per posta, che Bartleby, non avendo nulla al mondo da fare, sarebbe stato di sicuro meno inflessibile del solito e avrebbe portato le lettere all'ufficio postale. Ma rifiutò con aria irremovibile e assente. Così, con notevole disagio, ci andai di persona.
Passarono altri giorni. Se gli occhi di Bartleby migliorassero o meno, non saprei. Di primo acchito avrei detto di sì. Ma quando gli chiesi conferma, non mi accordò risposta. In ogni caso non copiava niente. Alla fine, su mia sollecitazione, mi rispose di aver smesso di copiare per sempre.
"Cosa! ", esclamai. "Supponiamo che i suoi occhi guariscano perfettamente - meglio di prima - non vorrà più copiare?"
"Ho smesso di copiare", rispose e scivolò via.
Rimase, come prima, a essere un infisso nel mio studio. Anzi - se possibile - divenne più che mai un infisso. Che cosa fare? Non voleva fare nulla nell'ufficio: perché allora doveva stare lì? Per dirla schietta, era diventato una pietra al collo, un'inutile collana, greve da sopportare, per giunta. Eppure mi faceva pena. Non esagero dicendo che mi metteva a disagio. Se appena avesse fatto il nome di un solo parente o amico, gli avrei scritto immediatamente sollecitandolo a portare quel povero disgraziato in qualche posto adatto. Ma sembrava solo, assolutamente solo nell'intero universo. Un relitto nel mezzo dell'Atlantico. Alla lunga le tiranniche esigenze del lavoro travolsero ogni altra considerazione. Con tutto il tatto possibile dissi a Bartleby che, in capo a sei giorni, doveva assolutamente lasciare l'ufficio. Lo consigliai di adoperarsi, nel frattempo, per trovarsi un altro alloggio. Mi offrii di aiutarlo in questa fatica, purché facesse il primo passo per il trasloco. "E quando alla fine mi lascerà, Bartleby", aggiunsi, "provvederò a che lei non se ne vada del tutto sprovvisto. Sei giorni da adesso, se ne ricordi".
Alla fine di quel periodo guardai dietro il paravento, ed ecco Bartleby, sempre lì.
Mi abbottonai la giacca, mi feci forza, avanzai lentamente verso di lui, gli toccai la spalla e dissi: "è venuto il momento; deve lasciare questo posto. Mi spiace per lei, ecco il danaro, ma deve andarsene".
"Preferirei di no", rispose sempre con le spalle voltate.
"Lei deve andarsene".
Rimase in silenzio.
Ora io avevo illimitata fiducia nell'onestà di quell'uomo. Spesso mi aveva consegnato monetine da sei centesimi e qualche scellino che avevo sbadatamente lasciato cadere, perché sono incline a essere distratto in queste cosucce. Quello che seguì non parrà, allora, fuori dell'ordinario.
"Bartleby", dissi, "le devo dodici dollari per il lavoro svolto. Eccone trentadue; i venti in più sono per lei. Vuole prenderli? ", e gli tesi le banconote.
Non si mosse.
"Li lascio qui allora", dissi mettendoli sul tavolo sotto un fermacarte. Prendendo quindi cappello e bastone, e avviandomi alla porta, mi volsi tranquillamente aggiungendo: "Quando avrà portato via le sue cose dall'ufficio, Bartleby, chiuda la porta - ormai se ne sono andati tutti per oggi, tranne lei. E, per favore, infili la chiave sotto lo zerbino, dove domattina io possa trovarla. Non la vedrò più: addio, dunque. Se in futuro, nel suo nuovo alloggio, potrò esserle utile, non manchi di avvertirmi per lettera. Addio, Bartleby, e buona fortuna".
Ma egli non rispose neppure una parola; simile all'ultima colonna di un tempio in rovina, rimase in piedi, muto e solitario nel mezzo della stanza altrimenti deserta.
Incamminandomi verso casa meditabondo, la vanità ebbe la meglio sulla pietà. Non potevo non essere compiaciuto per come avevo magistralmente condotto le cose nel liberarmi di Bartleby. Magistralmente - così mi esprimo - e tale deve apparire a ogni pensatore spassionato. La bellezza della mia tattica sembrava risiedere nella sua perfetta, pacata sobrietà. Nessuna arroganza volgare, nessuna spacconata di alcun tipo, nessun sopruso collerico, nessun andirivieni concitato per lo studio, sbottando in ordini rabbiosi perché Bartleby facesse fagotto con le sue cianfrusaglie da straccione. Niente del genere. Senza alzar la voce per ordinargli di andarsene - come forse avrebbe fatto un uomo meno perspicace - partivo dal presupposto che andarsene doveva, e su quel presupposto si fondava tutto quello che avevo da dire. Più riflettevo su come erano andate le cose, più ne ero incantato. Il mattino dopo, tuttavia, al risveglio, avevo i miei dubbi - in qualche modo il sonno aveva smaltito i fumi della vanità. Uno dei momenti in cui si è più lucidi e saggi è subito dopo il risveglio, al mattino. Mi sembrava ancora di essermi comportato con sagacia… ma soltanto in teoria. Come sarebbe stato in pratica - ecco l'intoppo. Era davvero un pensiero meraviglioso supporre che Bartleby se ne fosse andato, ma, dopo tutto, era esclusivamente una mia supposizione, non certo di Bartleby. Il grosso nodo non era che fossi io a supporre, bensì che fosse lui a preferire. Era un uomo di preferenze più che di supposizioni.
Dopo colazione mi incamminai verso lo studio dibattendo le probabilità a favore e quelle contro. Un attimo pensavo che la mia tattica si sarebbe rivelata un penoso fallimento e che avrei trovato Bartleby piantato nel mio ufficio come al solito; un attimo dopo mi pareva certo che avrei trovato vuota la sua sedia. Così continuavo a cambiare opinione. All'angolo di Broadway e Canal Street vidi un gruppo di gente piuttosto agitata, impegnata in un'accesa discussione.
"Scommetto che non lo fa", disse una voce mentre passavo.
"Che non se ne va? D'accordo! ", dissi. "Fuori i soldi".
Stavo istintivamente mettendo mano alla tasca per tirar fuori la mia posta, quando mi ricordai che quello era giorno di elezioni. Le parole che avevo udito non avevano alcun rapporto con Bartleby, ma con il successo o l'insuccesso di un tale candidato alla carica di sindaco. Assorto com'ero nei miei pensieri, avevo immaginato, per così dire, che tutta Broadway condividesse il mio turbamento e dibattesse il mio problema. Li superai, grato che il frastuono della strada avesse nascosto la mia momentanea distrazione.
Come avevo deciso, giunsi davanti alla porta dell'ufficio prima del solito. Rimasi lì ad ascoltare per un attimo. Tutto era tranquillo. Doveva essersene andato. Provai la maniglia. La porta era chiusa a chiave. Sì, la mia tattica aveva compiuto il miracolo: doveva, sul serio, essersi dileguato. Eppure un pizzico di melanconia si mescolava a questo: ero quasi dispiaciuto per quel brillante risultato. Stavo frugando sotto lo zerbino alla ricerca della chiave che senz'altro Bartleby aveva lasciato lì per me, quando per caso con il ginocchio urtai un pannello, producendo un suono come di chi bussa, e da dentro, in risposta, mi giunse una voce: "Un momento, sono occupato".
Era Bartleby.
Ne fui folgorato. Per un attimo rimasi in piedi come quel tizio che, pipa in bocca, era stato ucciso tanto tempo prima in Virginia da un fulmine, in un terso pomeriggio d'estate. Alla sua finestra, aperta e tiepida, era stato ucciso e lì era rimasto, affacciato nel languido pomeriggio, finché qualcuno, toccandolo, non lo aveva fatto cadere.
"Non se n'è andato? ", mormorai alla fine. Ma ancora una volta obbedendo a quello strano ascendente che aveva su di me l'imperscrutabile scrivano, dal quale ascendente, pur con tanta insofferenza, non riuscivo a sottrarmi del tutto, scesi piano le scale, uscii in strada e, mentre giravo intorno all'isolato, soppesai il da farsi in quell'inaudito dilemma. Buttarlo fuori con la forza non potevo; trascinarlo via a suon di insulti non si addiceva; chiamare la polizia era un'idea che non mi andava; eppure lasciargli assaporare il suo cadaverico trionfo su di me… neanche questo potevo ammettere. Che fare? Oppure, se non si poteva fare niente, mi restava qualche altra supposizione in questa faccenda? Sì, come prima, in prospettiva, ero partito dal presupposto che Bartleby se ne sarebbe andato, così ora, in retrospettiva, potevo partire dal presupposto che andato se ne fosse. Sviluppando coerentemente tale supposizione, sarei potuto entrare in ufficio di gran fretta e, fingendo di non vedere Bartleby, andargli addosso come se fosse stato aria. Questa tattica avrebbe avuto, in grado straordinario, tutto l'aspetto di una espulsione. Non era possibile che Bartleby riuscisse a sopportare una tale applicazione della dottrina dei presupposti. Ma, ripensandoci, il successo del piano pareva piuttosto dubbio. Decisi di discutere ancora la faccenda con lui.
"Bartleby", dissi entrando nell'ufficio con un'espressione pacatamente severa, "sono profondamente dispiaciuto. Sono addolorato, Bartleby. Avevo un'opinione migliore di lei. L'avevo ritenuta un gentiluomo con il quale sarebbe bastato fare un semplice accenno in un qualsiasi frangente delicato - un'allusione, insomma. Ma, a quanto sembra, mi sono ingannato. Come? ", aggiunsi con un sussulto di sincera sorpresa. "Non ha ancora toccato quel denaro", indicandoglielo là dove lo avevo lasciato la sera prima.
Non rispose nulla.
"Intende lasciarmi oppure no? ", chiesi a questo punto con impeto improvviso, avvicinandomi a lui.
"Preferirei non lasciarla", rispose sottolineando leggermente il non.
"Quale diritto al mondo ha mai di restare qui? Paga l'affitto? Mi paga le tasse? Questa casa le appartiene? ".
Non rispose nulla.
"è disposto a riprendere a scrivere adesso? I suoi occhi sono guariti? Potrebbe copiarmi un breve documento questa mattina? Oppure aiutarmi a controllare qualche riga? Oppure fare un salto all'ufficio postale? In una parola, fare una cosa qualsiasi che giustifichi il suo rifiuto di lasciare l'ufficio? ".
In silenzio si ritrasse nel suo eremo.
Mi trovavo in uno stato tale di risentita irritazione che ritenni prudente trattenermi per il momento dal dire altro. Io e Bartleby eravamo soli. Mi sovvenne la tragica fine dello sventurato Adams e dell'ancor più sventurato Colt nell'ufficio solitario di quest'ultimo; come il povero Colt, portato da Adams a un punto di esasperazione estrema, abbandonandosi imprudentemente a un furore selvaggio, fosse trascinato a commettere il suo fatale gesto senza esserne consapevole, un gesto che nessuno avrebbe potuto deplorare più di lui che lo aveva compiuto. Spesso, nel riflettere sul caso, mi aveva assalito il pensiero che se l'alterco fosse scoppiato nella pubblica via o in un'abitazione privata, non si sarebbe concluso in quel modo. Era stata la circostanza di trovarsi da solo nell'ufficio deserto, al primo piano di uno stabile mai benedetto dall'influsso umanizzante dei rapporti familiari, un ufficio dall'assito nudo, indubbiamente polveroso e squallido - ecco che cosa doveva aver contribuito a esacerbare la rabbia disperata dello sfortunato Colt.
Ma quando in me sorse questo rancore, quando in me si svegliò il vecchio Adamo, per tentarmi contro Bartleby, lo abbrancai e lo respinsi. Come? Limitandomi a ricordare il comando divino: "Un nuovo comandamento io do a tutti voi, che vi amiate l'un l'altro"? Sì, fu questo a salvarmi. A prescindere da nobili considerazioni, la carità spesso opera alla stregua di un principio saggio e prudente - una grande salvaguardia per chi la possiede. Gli uomini hanno ucciso per gelosia, per rabbia, per odio, per egoismo, per orgoglio spirituale, ma nessun uomo, per quanto ne sappia, ha mai ucciso per la dolce carità. Per mero interesse personale allora, in mancanza di un motivo migliore, tutti, specie le persone colleriche, dovrebbero praticare la carità e la filantropia. In ogni modo, nell'attuale situazione, cercai con tutte le forze di soffocare la mia esasperazione nei confronti dello scrivano interpretando benevolmente la sua condotta. "Poveretto, poveretto! ", pensai. "Non ha cattive intenzioni, senza contare che ne ha conosciuti di momenti difficili e bisogna aver pazienza con lui".
Mi sforzai anche di trovare subito qualcosa da fare e, nello stesso tempo, di dare sollievo al mio sconforto. Cercai di cullarmi nella fantasia che, nel corso della mattinata, in un momento che gli fosse andato a genio, Bartleby, di sua spontanea volontà, sarebbe emerso dal suo cantuccio per imboccare con decisione la direzione della porta. Niente da fare. Venne la mezza; Tacchino cominciò a irradiare luce dal volto, a rovesciare il calamaio, a farsi insofferente; Pince-Nez si acquietò in una cortese compostezza; Zenzero prese a rosicchiare la mela del pranzo; Bartleby, in piedi davanti alla finestra, era immerso in una delle sue più profonde fantasticherie sul muro cieco. Lo si crederà? Dovrei ammetterlo? Quel pomeriggio lasciai l'ufficio senza rivolgergli altra parola.
Trascorsero alcuni giorni, durante i quali, negli intervalli liberi, leggiucchiavo il trattato di Edwards Sulla volontà e quello di Priestley Sulla necessità. Date le circostanze, quei libri mi ispirarono sentimenti salutari. A poco a poco mi abbandonai alla convinzione che i miei affanni, riguardanti lo scrivano, fossero stati predestinati dall'eternità e che Bartleby mi fosse stato assegnato per qualche misterioso scopo da una onnisciente Provvidenza, imperscrutabile per un semplice mortale come me. "Sì Bartleby, stattene lì, dietro il tuo paravento", pensavo. "Non ti perseguiterò più; sei innocuo e silenzioso come una di queste vecchie sedie. In breve, non mi sento mai così solo come quando so che sei lì. Perlomeno lo vedo, lo percepisco, intuisco lo scopo predestinato della mia vita. Mi basta. Altri forse avranno ruoli più nobili da interpretare, ma la mia missione nel mondo, Bartleby, è di darti una stanza d'ufficio per tutto il tempo che ti andrà di rimanervi".