Stagione 4 - Episodio 9 (1)
Siamo abituati a scandire il tempo in giorni, mesi, anni, decenni, secoli: sono convenzioni che ci consentono di orientarci, ma ci dicono poco su come cambiamo nel frattempo, noi e le nostre società. Quando abbiamo bisogno di qualche significato in più, allora, ci rivolgiamo agli storici: persone che studiando gli avvenimenti sono in grado di identificare delle fasi temporali sulla base dei fatti e non dei calendari, e dei punti di rottura che separano queste fasi, questi periodi. Pensate al concetto del “secolo breve”, secondo cui il Novecento è iniziato davvero con la Prima guerra mondiale e si è concluso nel 1991 con il crollo dell'Unione Sovietica. Pensate al decennio successivo, quello della denuclearizzazione, della crescita economica, dell'euro, della fiducia verso il futuro, e a come si sia bruscamente interrotto l'11 settembre del 2001. Pensate quindi agli ultimi vent'anni, a come è cambiato il mondo da quel giorno: ai conflitti religiosi, all'ascesa del nazionalismo e dei cosiddetti “populismi”, alla crescente precarietà economica e politica che ci ha investiti. L'epidemia da coronavirus è il più grande evento globale dai tempi della Seconda guerra mondiale. Siamo ancora troppo coinvolti dai fatti che stiamo vivendo per osservarli con la prospettiva della storia, ma questo non ci impedisce di notare quanto quello che sta succedendo sia destinato ad avere grandi conseguenze. Queste conseguenze si stanno già facendo sentire nelle nostre vite, nei nostri progetti, nelle nostre città: ma saranno grandi anche a livello globale, con ricadute che a loro volta finiranno per chiudere il cerchio e toccare ognuno di noi. Molto di tutto questo riguarderà il modo in cui cambierà il ruolo delle due più grandi superpotenze del mondo, gli Stati Uniti e la Cina. Proviamo a capirlo insieme.
Per gran parte del Novecento, e soprattutto dalla fine della Seconda guerra mondiale in poi, gli Stati Uniti non sono stati la prima superpotenza mondiale solo e soltanto per via della loro forza economica. Per quanto questo predominio fosse sicuramente poggiato sulla centralità della loro valuta, sull'importanza del loro commercio internazionale e sul gigantismo del loro apparato militare, l'influenza americana si è costruita anche e soprattutto attraverso quello che gli esperti di politica estera definiscono “soft power”. Il “soft power” è la capacità di una nazione di essere influente, di convincere, di attrarre le altre nazioni non attraverso la minaccia delle armi ma attraverso la sua cultura, i suoi valori, la sua comunicazione. Pensate al ruolo straordinario che ha avuto e ha ancora la cultura statunitense nel plasmare il nostro immaginario, nel condizionare i nostri consumi, nel contribuire a modificare le nostre aspettative, i nostri desideri, la nostra opinione dell'America anche in modi di cui non siamo completamente consapevoli. Il cinema di Hollywood, per esempio, per tutta la seconda metà del Novecento è stato uno degli strumenti con cui gli Stati Uniti hanno persuaso il resto del mondo sulla validità dei propri argomenti, sul fascino del capitalismo e sul loro stile di vita. Gli Stati Uniti lo hanno fatto in parte deliberatamente, cioè con l'interesse e l'intervento del governo; e in un'altra parte in modo artisticamente spontaneo ma ugualmente efficace. Non pensate necessariamente alla propaganda più bieca: anche il solo successo planetario dei film della Disney, film che non hanno niente di politico, contribuiva a migliorare l'opinione del mondo nei confronti degli Stati Uniti. Poi c'erano anche operazioni più esplicite, certo: vi ricordate il quarto film della saga di Rocky? Quando Rocky Balboa deve affrontare Ivan Drago, l'incarnazione di ogni stereotipo vero e falso sull'Unione Sovietica, e alla fine non solo lo batte ma addirittura ottiene la benevolenza del pubblico russo? Ma il soft power non è solo cinema e cultura. Il più grande esempio di soft power americano infatti fu il piano Marshall, un grande programma di aiuti economici rivolti dagli Stati Uniti ai paesi dell'Europa occidentale dopo la Seconda guerra mondiale. Parliamo di oltre 12 miliardi di dollari, circa 150 miliardi al valore attuale, che furono versati alle diverse nazioni europee in larga parte a fondo perduto, perché fossero spesi negli investimenti e nella ricostruzione necessaria all'indomani del conflitto. Furono risorse fondamentali per rimettere l'Europa sulle sue gambe. Ma perché gli Stati Uniti approvarono un programma del genere, per generosità? No, la logica del Piano Marshall era soprattutto un'altra. Aiutare i paesi europei non era soltanto un modo per sostenere le loro economie convalescenti, ed evitare che nuove sofferenze e difficoltà potessero portare a nuovi totalitarismi, ma serviva anche a creare rapporti nuovi, amichevoli e saldi. A rendere gli Stati Uniti indispensabili per l'Europa e l'Europa grata verso gli Stati Uniti, e sviluppare relazioni commerciali fruttuose ma soprattutto alleanze geopolitiche e militari. In questo senso i soldi versati col piano Marshall non furono un compenso col quale gli Stati Uniti comprarono l'alleanza, bensì un investimento dall'importante valore simbolico, che ottenne risultati dal valore incalcolabile. Più in piccolo del piano Marshall, ci basta guardarci attorno per trovare tantissimi elementi di soft power, di questo o di quest'altro paese. Dai legami culturali ed economici che rimangono tra i paesi europei e le loro ex colonie, per esempio nel Commonwealth, al Coro dell'Armata Rossa che si esibisce in giro per il mondo, [Coro Armata Rossa]fino a cose che non sono strumenti dei governi ma fanno eccome attività di soft power, come le grandi università, il Made in Italy o servizi come Netflix [Netflix sigla] e Facebook. Dai gemellaggi costruiti tra le città di paesi diversi ai prodotti culturali fino agli investimenti nelle infrastrutture nei paesi in via di sviluppo. Dal controllo o la promozione di mezzi di comunicazione nazionali, dai Rai International per l'Italia a Sputnik per la Russia, fino ai programmi per accogliere studenti stranieri nelle università. Secondo lo studioso che per primo ne ha teorizzato l'esistenza, Joseph Nye, il soft power è “la capacità di ottenere ciò che si vuole tramite la propria attrattiva, piuttosto che per coercizione o compensi in denaro”. Nel corso della seconda metà del Novecento, quindi, gli Stati Uniti hanno consolidato il loro predominio attraverso la convinzione che questi rapporti non fossero un gioco a somma zero, in cui c'è sempre qualcuno che vince e qualcuno che perde. In certi casi hanno accettato accordi commerciali non ideali, se non addirittura penalizzanti, sulla base dell'idea che attraverso quei rapporti commerciali avrebbero comunque tratto un guadagno in termini geopolitici, energetici o militari. E quando un alleato o un potenziale alleato nel mondo si è trovato in difficoltà, gli Stati Uniti ne hanno approfittato per dare una mano e quindi ottenerne qualcosa in termini di amicizia, influenza e buoni rapporti. Anche per questo motivo gli Stati Uniti sono stati a lungo il paese che ha speso più soldi negli aiuti allo sviluppo, nonché quello che ha investito di più nella lotta contro l'HIV e la SARS, contro Ebola e Zika. Ma lo stesso controverso ingresso della Cina nel WTO, l'organizzazione mondiale del commercio, avvenne nel 2001 col benestare degli Stati Uniti sulla base dell'idea che coinvolgere la Cina nel commercio internazionale fosse un modo per costruire relazioni diplomatiche stabili e costruttive, non ostili, e magari nel tempo spingere la Cina ad adottare politiche diverse sulla concorrenza, la proprietà intellettuale e i diritti dei lavoratori. Avete presente la metafora del bastone e della carota? Ecco, questa era la carota. Ascoltate il presidente Bill Clinton in un discorso sulla Cina del 2000.
Come vi ho raccontato nello scorso episodio, le cose sono iniziate a cambiare con le elezioni presidenziali del 2000. Per quanto oggi ci risulti difficile immaginarlo, all'epoca Al Gore era il candidato che voleva un ruolo di leadership ancora maggiore per gli Stati Uniti nel mondo, mentre George W. Bush era il candidato che voleva che gli Stati Uniti si facessero un po' di più i fatti propri. Nel secondo dibattito televisivo, centrato sulla politica estera, ci fu tra i due uno scambio esemplare. Ascoltiamo cosa disse Al Gore.
Negli anni tra la Prima e la Seconda guerra mondiale i nostri leader militari e il popolo statunitense impararono una grande lezione. Dopo la Prima guerra mondiale noi voltammo le spalle all'Europa e ai nostri alleati, li lasciammo risolvere da soli le loro controversie e quelle controversie poi diventarono i guai che portarono alla Seconda guerra mondiale. Avendo imparato questa lezione, dopo la Seconda guerra mondiale varammo il Piano Marshall; fummo coinvolti nella costruzione della NATO e di altre istituzioni. E che cosa abbiamo fatto dalla fine degli anni Quaranta fino agli anni Cinquanta e Sessanta? Abbiamo fatto nation-building. Abbiamo aiutato le altre nazioni.
Sentite adesso cosa rispose Bush.
Non sono così sicuro che il ruolo degli Stati Uniti debba essere andare in giro per il mondo e dire come devono andare le cose. […] Noi crediamo nella libertà. Sappiamo che la libertà ha una forza molto, ma molto, ma molto più potente della forza degli Stati Uniti d'America. Credo che gli Stati Uniti debbano essere umili. Orgogliosi e fiduciosi nei nostri valori, ma umili nel modo in cui trattiamo le altre nazioni, che devono essere libere di tracciare la loro strada.
In questo scambio naturalmente sia Gore che Bush estremizzarono le loro posizioni, ma lo scontro ideologico tra i due era chiaro: Gore voleva che gli Stati Uniti facessero nation building all'estero, sulla base dell'idea molto antica del ruolo di leadership globale del paese; Bush voleva che gli Stati Uniti facessero nation building in casa propria, ritirandosi militarmente sia dai Balcani che da Haiti, dove gli Stati Uniti erano intervenuti – con l'autorizzazione dell'ONU – per rimuovere il regime militare che aveva deposto un presidente regolarmente eletto. Dopo la vittoria, forse le cose sarebbero andate come voleva Bush, se non si fosse messa in mezzo la realtà.
L'11 settembre ha portato il presidente Bush a comportarsi in modo completamente diverso da quanto aveva promesso, con l'inizio di una campagna militare straordinariamente aggressiva: una campagna militare che è stata tutto il contrario del soft power, capiamoci, ma il cui fallimento ventennale ha incrinato drammaticamente la fiducia nella leadership statunitense in giro per il mondo, e la voglia degli americani di essere coinvolti con grandi responsabilità sullo scenario internazionale. Il tutto mentre la Cina, entrata nel WTO, cominciava a diventare protagonista sul piano economico, e a perseguire una politica estera aggressiva basata su grandi investimenti soprattutto in Asia e in Africa. Nell'ultimo decennio queste tendenze si sono ulteriormente rafforzate. [SFX Belt and Road] Da “On Saturday”
La Cina ha messo in piedi la Belt and Road Initiative, la cosiddetta “nuova via della seta”, con cui ha impiegato e sta impiegando le sue immani risorse per costruire e poi controllare infrastrutture in molti paesi del mondo, con un investimento che non è soltanto economico ma è soprattutto politico, ed è volto a diventare per quei paesi un interlocutore indispensabile. Gli Stati Uniti hanno cercato di opporre una qualche resistenza negli anni di Obama con il cosiddetto “pivot to China”, concentrando la loro attività diplomatica nel riequilibrare il loro potere e la loro influenza nel Pacifico, ma senza grandi risultati: anche perché nel frattempo dovevano rimettersi in piedi dopo la grave crisi economica del 2008. I tentativi americani di stringere grandi e ambiziosi accordi commerciali come il TTP con l'Asia e il TTIP con l'Europa sono finiti su un binario morto, e nel 2016 è arrivato alla Casa Bianca un presidente come Donald Trump, un uomo dalle idee isolazioniste e dall'approccio apertamente critico proprio verso l'ordine mondiale che gli Stati Uniti avevano costruito nel corso del Novecento, e verso il ruolo che avevano interpretato. È in questo contesto globale che arriva la pandemia da coronavirus. Ne parliamo tra poco.
Il nuovo coronavirus si è manifestato in Cina, nella città di Wuhan, in qualche momento alla fine del 2019. Dopo qualche settimana di incertezza, errori, censure e sottovalutazioni di cui continueremo a parlare per anni, la Cina ha adottato misure mai viste in un paese moderno, costringendo in un rigidissimo stato di quarantena oltre cinquanta milioni di persone.