41. NEMMENO LA FINE ALLORA
L'Europa non era nient'altro che un nome, pensava, e così l'Italia, la Provenza, l'Estremadura, così pure le città. Tutte le città non erano che semplici nomi, pensava, occupazioni di suolo e di immaginario in forma di vocali e consonanti, mentre il Bianco e il Rodano, quelli sì, il Danubio e il Cervino, sì che erano solide azioni del tempo. Erano acqua e roccia, la cui anima consisteva in materia.
Emile Magini percorreva le strade della Sologne a tarda notte. Non sarebbe rincasato prima dell'alba. “Mia nonna si chiamava Europa -aveva sorriso a tavola Miguel- Per me l'Europa è sempre esistita e mi teneva in braccio”. “Mio bisnonno battezzò sua figlia Idea Socialista detta Idolina”, aveva sbuffato Giada. “Mia nonna la chiamavano Fine, perché era magra magra, sottile sottile, un nulla che sembrava non dovesse durare, ma non finiva di rompere, non finiva di vivere”, sghignazzò Emile. Non era stata una buona idea mettersi in viaggio dopo aver bevuto una bottiglia di Saint Joseph del Domaine Monier e una di Chablis e una di Saucerre, che sa di terra e ciliegia, un vino con l'asprezza delle pianure che nulla concedono, chilometri e chilometri di infinito, tagliati da strade, viottoli, sentieri, chilometri piatti con la notte come orizzonte, adesso. Improvviso, sulla carreggiata appare un cervino. Emile Magini, guida alpina, sei Ottomila nelle gambe, non riesce a scansarlo, nemmeno a scalarlo. Un piccolo cervo all'una di notte, a quella velocità, ha la stessa consistenza di una montagna. Gli piomba addosso ai cento all'ora. È come un brindisi. Sembra tutto finito. Ma se nulla dura, nemmeno la fine allora.