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Pasolini - Ragazzi di Vita, VII. DENTRO ROMA (1)

VII. DENTRO ROMA (1)

Davanti al Monte del Pecoraro c'era un gran piazzale e vicino al cartello con la scritta «Fine zona - Inizio zona», poco prima di dove cominciava la gran distesa dei campi fino all'Aniene, s'alzava la vecchia pensilina del 309 che a quel punto svoltava, lasciando la via Tiburtina, e puntando tra i lotti della Borgata verso la Madonna del Soccorso. Alduccio abitava, come il Begalone, al IV Lotto, in fondo alla via centrale della borgata, poco dopo lo spiazzo del mercato, con la fila dei lampioni che accendendosi all'imbrunire, lungo i lotti non più alti di due piani, davano l'impressione di trovarsi nel rione povero di qualche stazione balneare, con la strada che dietro la breve scesa pareva si sperdesse contro il cielo sfuocato, coi rumori della gente che tra le pareti sonore, nei cortili, stava cenando o si preparava alle ore della notte. A quell'ora c'era un gran passaggio di ragazzi e giovinottelli; ma i veri uomini di vita se ne stavano ancora in disparte, dentro i caffè o nei crocicchi, aspettando che venisse notte, non per andarsene al cinema o a Villa Borghese, ma per riunirsi in qualche bisca a giocare a zecchinetta fino a mattina. E mentre che qualche giovanotto qua e là, nei cortili, pizzicava una ghitarra, c'erano ancora le donne a lavare i piatti o a scopare, coi ragazzini che facevano la lagna, e gli autobus arrivavano ancora carichi di gente che tornava dal lavoro. - Te saluto, a Bègalo, - disse Alduccio quando furono avanti casa. - Te saluto, - disse Begalone, - se vedemo. - T'aspetto a 'e nove, - disse Alduccio, -me fai un fischio, eh! - Va bbe, ma tu èssi pronto, - fece il Begalone, andando su per la scala scrostata, tutta piena di ragazzini. Alduccio abitava tre o quattro porte più avanti, al pianterreno. Davanti alla porta c'era una specie di loggia, come in tutti i lotti, con le colonnine e le pareti acciaccate e cadenti. Seduta sullo scalino stava sua sorella. - Mbè, che stai a ffà, -fece Alduccio. Lei non gli rispose niente, guardando in strada. - Va a morì ammazzata, - disse lui, e entrò in cucina, dove sua madre stava cucinando al fornello. - Che vvòi? - fece senza voltarsi. - Come che vojo, - disse Alduccio. Lei si voltò di brutto, tutta scapigliata: - Chi nun lavora nun magna, sa', - disse. Era una donna alta e grossa, quasi ignuda sotto la vestaglia di tela tutta zozza, con i capelli che le stavano incollati di sudore sulla fronte, e la crocchia tutta in disordine, sfilacciata sopra il collo e l'orlo della vestaglia. - Ah va bbè! disse Alduccio facendo il calmo, - nun me voi dà da magnà? e chi se ne frega!

Se ne andò di là, nell'unica camera dove dormiva tutta la sua famiglia, mentre nell'altra dormiva quella del Riccetto, e cominciò a spogliarsi, fischiettando per far vedere a sua madre che non gliene fregava niente. -Fatte n'altro fischio, - gridava lei dalla cucina, - a disgrazziato, che te possino ammazzatte te e quer imbriacone zozzo de tu' padre! - Sì, e quella chiavicona de mi madre, - ciancicò Alduccio tra i denti, mentre nudo sul letto s'infilava i mocassini. - Si c'hai li nervi pe corpa de que'a disgrazziata de tu fija, vattela a pija in saccoccia, che, co' me te vieni a sfogà? Nun me vòi dà da cena? E nun me dà da cena! Che me frega a mme! Basta che te stai zitta! - Ma quale zitta quale zitta, - gridò la madre, - s'ha da vede un fijo che tiè quasi vent'anni e mo va sordato, che nun porta a casa manco na lira, nun porta, st'infame. - Uffa che pippa che sei! - gridò Alduccio mentre si acchittava. Ma da fuori in strada si sentivano degli strilli, delle voci di donna che baccajavano. La madre d'Alduccio stette un po' zitta, con le orecchie tese, a sentire, mentre in camera dove stava Alduccio le parole arrivavano confuse. - A deficiente fraccica! - gridò, parlando da sola, la madre davanti al fornello. Fece cadere qualche cosa nella prescia d'uscire, e andò alla porta. Là rimase ancora un po' zitta ad ascoltare e poi uscì del tutto e si sentì pure la sua voce che urlava insieme alle altre. - An senti! ma perché nun se ne vanno a fà la grattachecca all'orso! - fece tra sé Alduccio. Dopo quasi dieci minuti di battibecchi e di baccajamento, sulla strada o forse sui pianerottoli delle scale, si sentì la porta che si riapriva sbattendo, ma non che si richiudeva, perché la madre d'Alduccio si era fermata, forse perché aveva ancora qualcosa da dire. Anzi tornò un po' indietro, sul pianerottolo: - A zozzona, - si mise a gridare verso fuori, -ch'ai fatto 'a puttana insin'adesso, e mo je venghi a dì mignotta a mi fija! -Si sentì una voce che le rispondeva dall'alto, che non si capiva bene. - Me puzzano proprio de morì ammazzate! - fece amaro Alduccio. - Meno malle! - gridò mettendosi una mano sul fianco la madre, rispondendo a quel macello di parole che non s'erano sentite. - Senti chi parla! E te che te facevi dà li sordi da l'amico pe mannà ar cinema li fiji e sta sola con lui! -La voce dal cortile o dal pianerottolo salì furiosamente di due tre toni, e cominciò su quel tono altissimo a rivomitare un campionario d'ingiurie di tutte le sorti: quando ch'ebbe finito, ritoccò un'altra volta alla madre d'Alduccio: - Nun te la ricordi, - gridò con voce acutissima, che non l'avrebbe fatta star zitta nemmeno Gesù Cristo, - a zozza, quanno che tu marito è venuto a casa e t'ha trovato co l'amico, dentro il letto davanti a li du fiji piccoli? - Sbatté la porta e rientrò in cucina, e lì continuò da sola, con la voce che vibrava nel gargarozzo, tagliente come un coltello: - E poi falla finita, a disgrazziata, che domani quanno te incontro in piazza te strappo tutti li capelli che c'hai in testa, che te possino ammazzatte! - Dopo un po' la porta si riaprì e entrò il padre d'Alduccio. Come tutte le sere era ubbriaco. S'avvicinò alla moglie, e fece per menarla. Ma quella gli appoggiò una mano sul petto e lo spinse indietro: lui fece un giro completo, e cadde seduto su una sedia. Ma si rialzò subito e ostinatamente cercò di menarla un'altra volta. Dalla camera di là, dove abitava la famiglia del Riccetto, venne fuori la sorella del Riccetto per vedere se succedeva qualcosa di preoccupante: arrivò giusto a vedere lo zio che ricadeva sulla sedia una seconda volta. - Ma che vvòi te qqua, - le fece, voltandosi inviperita la madre, - ma che vvòi! - La ragazzina, con un altro Riccetto piccolo in braccio, voltò sui tacchi e se ne ritornò diretta nella sua stanza. -Disgrazziata te e tutta la tu famija de magna a ufo e de morti de fame, - le gridò dietro la madre, - so quattr'anni che so' qqua e mai che t'avessero detto na vorta tiè, pija ste mille lire, paga 'a bolletta della luce! - Il padre, dopo qualche minuto di raccoglimento, riuscì a articolare un po' la voce e, in seguito a due o tre tentativi, riuscì a dire qualcosa come: - Sta sempre a baccajà, sta disgrazziata! - Si alzò all'impiedi, e ondeggiando indietro e avanti, fece una specie di ragionamento tutto coi gesti, portò due tre volte la mano dall'altezza del petto all'altezza del naso, poi fece con le dita una piroetta come per indicare un'idea tutta sua che gli passava per la capa: infine, correndo per non cadere, andò nella camera dove Alduccio si stava vestendo, e si buttò vestito sul letto alla supina. Il vino che aveva bevuto per l'intero dopopranzo l'aveva fatto diventare bianco come un lenzuolo e gli aveva come intostato le tre dita di pellaccia rasposa di barba intorno alle froce del naso e agli angoli della bocca, scura umida e rugosa come quella dei cani. Era tutto spiovente; spioventi le braccia distese sul copriletto, spiovente la bocca semiaperta, spioventi le ganasce e le fessure degli occhi, spioventi i capelli ancora neri e lucidi di sudore che pareva di brillantina. La lampada accesa che pendeva sopra il letto gli illuminava a una a una sulla faccia le macchiette color cacao della vecchia zella miste con le recenti crostine di polvere e di sudore sotto la fronte; mentre la ragnatela delle rughe gli si spostava su e giù per conto suo sopra la pelle, tirata e imbolsita dal vino, gialla per chissà quali vecchie malattie di quel fegataccio insaccato dentro le sue quattr'ossa coperte di panni vecchi. E qua e là si vedevano le ombre delle ammaccature, color marrone nel centro e con intorno una coroncina di lenticchie, ch'erano botte prese forse quand'era ragazzino, o in gioventù, quando faceva il soldato o il manovale, cent'anni prima. E tutto come fuso dal grigiore del digiuno e del vino, più quello dei ciuffi della barba di quattro giorni.

Alduccio era ormai pronto, coi calzoni a tubbo e la maglietta a righine col collo aperto e le falde fuori dai calzoni. Ancora si doveva pettinare. Andò davanti allo specchietto in cucina, e, col pettine bagnato al rubinetto, cominciò a aggiustarsi i capelli, stando con le gambe larghe, perché lo specchio era troppo basso per lui. - Sto magnaccia bòno a niente, -ricominciò, ritrovandoselo tra i piedi la madre, grigia di rabbia. - Mo basta a ma', - scattò Alduccio, - già m'hai stufato, ce lo sai sì! - Tu, m'hai stufata, - ribatté la madre, più forte. Alduccio si mise a cantare, chino sullo specchio. - Lavorà nun lavora, aiutà in casa nun aiuta... - A ma', - la interruppe Alduccio, - già m'hai stufato te sto a ddì, ma te la vòj piantà-a?

- Nun la pianto manco per niente, - gridò lei, - si me va de baccajà baccajo quanto me pare, ha' ccapito sì, sor paino de li me cojoni! -Fàmmene annà, va, - disse infuriato Alduccio, e se ne uscì, tutto ben pettinato, sbattendo la porta scassata. Neanche guardò la sorella, che se ne stava accoccolata sullo scalino con le sottane tirate giù fino ai talloni. Era verde, tanto era pallida e i labbri dipinti parevano un taglio. I capelli le cadevano sul collo lisci e secchi, con qualche spunzone davanti all'occhi. «Sta svergognata!» pensò solo Alduccio, andandosene. Da quando s'era inguaiata col figlio della sor'Anita, la fruttarola che abitava all'angolo, non c'era stato più un momento di pace in casa d'Alduccio. Adesso doveva sposare, ma il figlio della fruttarola ormai non la poteva più vedere. La notte ch'era stata cacciata via di casa, le aveva tenuto compagnia, dormendo con lei alla chiarina, sugli scalini davanti a casa sua al III lotto: ma solo per farsi vedere dalla gente. Dopo che lei aveva capito ch'era incinta, s'erano fidanzati, con tutto che, prima, sia i genitori di lui che quelli di lei non avessero voluto. Lei, per l'umiliazione, s'era tagliata le vene dei polsi con un pezzo di vetro, e era stata per morire; e difatti c'aveva ancora ai polsi due belle cicatrici fresche.

Aspettando il Begalone, Alduccio s'andò a fare due passi per la borgata. Il temporale s'era dissolto, e l'aria era tiepida, quasi di primavera. Pure il Begalone s'era cambiato; s'era messo intorno al collo un fazzoletto annodato alla malandrina, e s'era pettinato i capelli color stoppa lisci lisci, come una crosta, con la scrima da una parte e lunghi sul collo. - A Bègalo! - chiamò Alduccio. - Tu quanto tenghi? - gli chiese subito il Begalone. -Trenta lire, - fece Alduccio. - Giusto pe l'autobus, - disse il Begalone, -pure io! - Come, e quell'artri? - chiese insospettito Alduccio. - Stanno qqua, stanno qqua! - disse il Begalone, battendo con la mano sulla saccoccia di dietro dove teneva piegata la piotta e mezza fregata al Caciotta. - Ce scappeno pure du nazzionali, - fece Alduccio passando davanti al bare. - Tiette, a Ardù! - rispose il Begalone. - Addio! fece poi all'autobus che passava. - Mo ce ne sta n'antro, - fece Alduccio stirandosi allegramente.

Pure il Begalone stava a digiuno. E sotto i capelli gialli la sua faccia era gialla d'un bel giallo che dava sul verde su cui risaltavano bene i cigolini rossicci. Era così debole che nemmeno la febbre riusciva a dargli un po' di colorito: e sì che ce ne aveva almeno sei sette linee, come tutte le sere, da quando era stato rilasciato dal Forlanini; era tubercoloso da due o tre anni, e ormai non c'era più niente da fare, gli restava sì e no ancora un anno di vita...

Camminando con Aldo si passava i palmi delle mani sullo stomaco vuoto, piegandosi in avanti e dicendo i morti ai suoi fratelli, a suo padre e più di tutti a quella poveraccia di sua madre, che una notte - ch'era stata la prima d'una fila di notti disgraziate - s'era buttata giù dal letto strillando come una scema che aveva visto il diavolo. Diceva che un serpente era venuto dentro nella camera e s'era intorcinato ai piedi del letto e la guardava fisso costringendola a spogliarsi nuda; e allora lei aveva cominciato a gridare. Poi per l'intera giornata, tutt'a un botto, ricominciava con gli strilli, e guaendo come una cagna con un mal di testa che si sturbava, s'attaccava alle figlie o a chi aveva appresso perchè la proteggessero contro quella cosa che capiva soltanto lei. La notte dopo si svegliò un'altra volta urlando: ma questa volta non era più il diavolo. Difatti s'era spostata più in là sul letto sfatto, per lasciare un po' di posto a qualcuno, benchè il suo corpo secco come un'alice non ne occupasse molto. Sulle lenzuola grigie s'era messa seduta accanto a lei - come dopo lei raccontò - una ragazza morta: morta almeno a considerare com'era vestita, con la veste buona, le calze di lana bianche e la corona di fiori d'arancio, perchè pochi giorni dopo avrebbe dovuto sposare. Aveva incominciato a lamentarsi con la mamma del Begalone dicendo che le avevano messo una sottoveste troppo corta, che la corona di fiori che le avevano messo in testa era troppo stretta e le faceva male alle tempie, e poi a lamentarsi che dicevano per lei poche messe, che il Pisciasotto, un suo cugino piccoletto, non la veniva mai a trovare in cimitero, e avanti di questo passo. La mamma del Begalone non aveva mai conosciuto questa ragazza, ma il giorno dopo, il vicinato, commentando quegli strilli che in piena notte uscivano dalle finestre scassate dell'appartamento del Begalone e echeggiavano per i cortili dei lotti, appurò che quella ragazza morta era una parente di certe persone che abitavano poche porte più in là nello stesso lotto: tutti i connotati corrispondevano alla perfezione, compreso il cuginetto Pisciasotto, che esisteva difatti vivo e felice al Borghetto Prenestino. Poi ricominciò a apparire il diavolo, sotto varie forme: una volta un serpente, un'altra un orso, un'altra ancora una vicina di casa a cui erano cresciuti i denti come zanne, e che entravano e uscivano dentro la casa del Bègalo come fosse casa loro a tormentare la madre. Allora la famiglia aveva deciso di fare qualcosa, e aveva fatto venire da Napoli un vecchio parente ch'era pratico di quei fatti. Per prima cosa, questo parente fece bollire tutti gli oggetti che appartenevano alla mamma del Begalone: 20 chilovatt di gas se n'andarono in pochi giorni per quelle bolliture, e alla cena nessuno ci pensava. I tre fratelli, le quattro sorelle e tutte le vicine erano occupati a mandar via la fattura. Avevano trovato nel cuscino della mamma del Bègalo delle piume intorcinate in forma di colombe, croci, corone, e le avevano fatte subito bollire: nel tempo stesso avevano messo nell'olio bollente dei pezzi di ferro e poi li avevano buttati nell'acqua fredda, per vedere che figure venivano fuori, e da due o tre giorni non si sentiva altro in casa che i colpi dati sul pavimento per formare dei cerchi intorno alla fatturata che non faceva che raccomandarsi e far la lagna.

- M'avessero dato armeno un pezzetto de pane, manco quello, sti disgrazziati, - diceva il Begalone, premendosi la bocca dello stomaco. -Qua semo uno più morto de fame dell'artro, - fece ridendo Alduccio, con la sua bella faccia sformata da un ghigno di ironia rassegnata. Cacciarono le mani in tasca e si fecero a piedi il pezzo fino al Monte del Pecoraro.

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VII. DENTRO ROMA (1) VII. INSIDE ROME (1) VII. DENTRO DE ROMA (1)

Davanti al Monte del Pecoraro c'era un gran piazzale e vicino al cartello con la scritta «Fine zona - Inizio zona», poco prima di dove cominciava la gran distesa dei campi fino all'Aniene, s'alzava la vecchia pensilina del 309 che a quel punto svoltava, lasciando la via Tiburtina, e puntando tra i lotti della Borgata verso la Madonna del Soccorso. Alduccio abitava, come il Begalone, al IV Lotto, in fondo alla via centrale della borgata, poco dopo lo spiazzo del mercato, con la fila dei lampioni che accendendosi all'imbrunire, lungo i lotti non più alti di due piani, davano l'impressione di trovarsi nel rione povero di qualche stazione balneare, con la strada che dietro la breve scesa pareva si sperdesse contro il cielo sfuocato, coi rumori della gente che tra le pareti sonore, nei cortili, stava cenando o si preparava alle ore della notte. A quell'ora c'era un gran passaggio di ragazzi e giovinottelli; ma i veri uomini di vita se ne stavano ancora in disparte, dentro i caffè o nei crocicchi, aspettando che venisse notte, non per andarsene al cinema o a Villa Borghese, ma per riunirsi in qualche bisca a giocare a zecchinetta fino a mattina. E mentre che qualche giovanotto qua e là, nei cortili, pizzicava una ghitarra, c'erano ancora le donne a lavare i piatti o a scopare, coi ragazzini che facevano la lagna, e gli autobus arrivavano ancora carichi di gente che tornava dal lavoro. - Te saluto, a Bègalo, - disse Alduccio quando furono avanti casa. - Te saluto, - disse Begalone, - se vedemo. - T'aspetto a 'e nove, - disse Alduccio, -me fai un fischio, eh! - Va bbe, ma tu èssi pronto, - fece il Begalone, andando su per la scala scrostata, tutta piena di ragazzini. Alduccio abitava tre o quattro porte più avanti, al pianterreno. Davanti alla porta c'era una specie di loggia, come in tutti i lotti, con le colonnine e le pareti acciaccate e cadenti. Seduta sullo scalino stava sua sorella. - Mbè, che stai a ffà, -fece Alduccio. Lei non gli rispose niente, guardando in strada. - Va a morì ammazzata, - disse lui, e entrò in cucina, dove sua madre stava cucinando al fornello. - Che vvòi? - fece senza voltarsi. - Come che vojo, - disse Alduccio. Lei si voltò di brutto, tutta scapigliata: - Chi nun lavora nun magna, sa', - disse. Era una donna alta e grossa, quasi ignuda sotto la vestaglia di tela tutta zozza, con i capelli che le stavano incollati di sudore sulla fronte, e la crocchia tutta in disordine, sfilacciata sopra il collo e l'orlo della vestaglia. - Ah va bbè! disse Alduccio facendo il calmo, - nun me voi dà da magnà? e chi se ne frega!

Se ne andò di là, nell'unica camera dove dormiva tutta la sua famiglia, mentre nell'altra dormiva quella del Riccetto, e cominciò a spogliarsi, fischiettando per far vedere a sua madre che non gliene fregava niente. -Fatte n'altro fischio, - gridava lei dalla cucina, - a disgrazziato, che te possino ammazzatte te e quer imbriacone zozzo de tu' padre! - Sì, e quella chiavicona de mi madre, - ciancicò Alduccio tra i denti, mentre nudo sul letto s'infilava i mocassini. - Si c'hai li nervi pe corpa de que'a disgrazziata de tu fija, vattela a pija in saccoccia, che, co' me te vieni a sfogà? Nun me vòi dà da cena? E nun me dà da cena! Che me frega a mme! Basta che te stai zitta! - Ma quale zitta quale zitta, - gridò la madre, - s'ha da vede un fijo che tiè quasi vent'anni e mo va sordato, che nun porta a casa manco na lira, nun porta, st'infame. - Uffa che pippa che sei! - gridò Alduccio mentre si acchittava. Ma da fuori in strada si sentivano degli strilli, delle voci di donna che baccajavano. La madre d'Alduccio stette un po' zitta, con le orecchie tese, a sentire, mentre in camera dove stava Alduccio le parole arrivavano confuse. - A deficiente fraccica! - gridò, parlando da sola, la madre davanti al fornello. Fece cadere qualche cosa nella prescia d'uscire, e andò alla porta. Là rimase ancora un po' zitta ad ascoltare e poi uscì del tutto e si sentì pure la sua voce che urlava insieme alle altre. - An senti! ma perché nun se ne vanno a fà la grattachecca all'orso! - fece tra sé Alduccio. Dopo quasi dieci minuti di battibecchi e di baccajamento, sulla strada o forse sui pianerottoli delle scale, si sentì la porta che si riapriva sbattendo, ma non che si richiudeva, perché la madre d'Alduccio si era fermata, forse perché aveva ancora qualcosa da dire. Anzi tornò un po' indietro, sul pianerottolo: - A zozzona, - si mise a gridare verso fuori, -ch'ai fatto 'a puttana insin'adesso, e mo je venghi a dì mignotta a mi fija! -Si sentì una voce che le rispondeva dall'alto, che non si capiva bene. - Me puzzano proprio de morì ammazzate! - fece amaro Alduccio. - Meno malle! - gridò mettendosi una mano sul fianco la madre, rispondendo a quel macello di parole che non s'erano sentite. - Senti chi parla! E te che te facevi dà li sordi da l'amico pe mannà ar cinema li fiji e sta sola con lui! -La voce dal cortile o dal pianerottolo salì furiosamente di due tre toni, e cominciò su quel tono altissimo a rivomitare un campionario d'ingiurie di tutte le sorti: quando ch'ebbe finito, ritoccò un'altra volta alla madre d'Alduccio: - Nun te la ricordi, - gridò con voce acutissima, che non l'avrebbe fatta star zitta nemmeno Gesù Cristo, - a zozza, quanno che tu marito è venuto a casa e t'ha trovato co l'amico, dentro il letto davanti a li du fiji piccoli? - Sbatté la porta e rientrò in cucina, e lì continuò da sola, con la voce che vibrava nel gargarozzo, tagliente come un coltello: - E poi falla finita, a disgrazziata, che domani quanno te incontro in piazza te strappo tutti li capelli che c'hai in testa, che te possino ammazzatte! - Dopo un po' la porta si riaprì e entrò il padre d'Alduccio. Come tutte le sere era ubbriaco. S'avvicinò alla moglie, e fece per menarla. Ma quella gli appoggiò una mano sul petto e lo spinse indietro: lui fece un giro completo, e cadde seduto su una sedia. Ma si rialzò subito e ostinatamente cercò di menarla un'altra volta. Dalla camera di là, dove abitava la famiglia del Riccetto, venne fuori la sorella del Riccetto per vedere se succedeva qualcosa di preoccupante: arrivò giusto a vedere lo zio che ricadeva sulla sedia una seconda volta. - Ma che vvòi te qqua, - le fece, voltandosi inviperita la madre, - ma che vvòi! - La ragazzina, con un altro Riccetto piccolo in braccio, voltò sui tacchi e se ne ritornò diretta nella sua stanza. -Disgrazziata te e tutta la tu famija de magna a ufo e de morti de fame, - le gridò dietro la madre, - so quattr'anni che so' qqua e mai che t'avessero detto na vorta tiè, pija ste mille lire, paga 'a bolletta della luce! - Il padre, dopo qualche minuto di raccoglimento, riuscì a articolare un po' la voce e, in seguito a due o tre tentativi, riuscì a dire qualcosa come: - Sta sempre a baccajà, sta disgrazziata! - Si alzò all'impiedi, e ondeggiando indietro e avanti, fece una specie di ragionamento tutto coi gesti, portò due tre volte la mano dall'altezza del petto all'altezza del naso, poi fece con le dita una piroetta come per indicare un'idea tutta sua che gli passava per la capa: infine, correndo per non cadere, andò nella camera dove Alduccio si stava vestendo, e si buttò vestito sul letto alla supina. Il vino che aveva bevuto per l'intero dopopranzo l'aveva fatto diventare bianco come un lenzuolo e gli aveva come intostato le tre dita di pellaccia rasposa di barba intorno alle froce del naso e agli angoli della bocca, scura umida e rugosa come quella dei cani. Era tutto spiovente; spioventi le braccia distese sul copriletto, spiovente la bocca semiaperta, spioventi le ganasce e le fessure degli occhi, spioventi i capelli ancora neri e lucidi di sudore che pareva di brillantina. La lampada accesa che pendeva sopra il letto gli illuminava a una a una sulla faccia le macchiette color cacao della vecchia zella miste con le recenti crostine di polvere e di sudore sotto la fronte; mentre la ragnatela delle rughe gli si spostava su e giù per conto suo sopra la pelle, tirata e imbolsita dal vino, gialla per chissà quali vecchie malattie di quel fegataccio insaccato dentro le sue quattr'ossa coperte di panni vecchi. E qua e là si vedevano le ombre delle ammaccature, color marrone nel centro e con intorno una coroncina di lenticchie, ch'erano botte prese forse quand'era ragazzino, o in gioventù, quando faceva il soldato o il manovale, cent'anni prima. E tutto come fuso dal grigiore del digiuno e del vino, più quello dei ciuffi della barba di quattro giorni.

Alduccio era ormai pronto, coi calzoni a tubbo e la maglietta a righine col collo aperto e le falde fuori dai calzoni. Ancora si doveva pettinare. Andò davanti allo specchietto in cucina, e, col pettine bagnato al rubinetto, cominciò a aggiustarsi i capelli, stando con le gambe larghe, perché lo specchio era troppo basso per lui. - Sto magnaccia bòno a niente, -ricominciò, ritrovandoselo tra i piedi la madre, grigia di rabbia. - Mo basta a ma', - scattò Alduccio, - già m'hai stufato, ce lo sai sì! - Tu, m'hai stufata, - ribatté la madre, più forte. Alduccio si mise a cantare, chino sullo specchio. - Lavorà nun lavora, aiutà in casa nun aiuta... - A ma', - la interruppe Alduccio, - già m'hai stufato te sto a ddì, ma te la vòj piantà-a?

- Nun la pianto manco per niente, - gridò lei, - si me va de baccajà baccajo quanto me pare, ha' ccapito sì, sor paino de li me cojoni! -Fàmmene annà, va, - disse infuriato Alduccio, e se ne uscì, tutto ben pettinato, sbattendo la porta scassata. Neanche guardò la sorella, che se ne stava accoccolata sullo scalino con le sottane tirate giù fino ai talloni. Era verde, tanto era pallida e i labbri dipinti parevano un taglio. I capelli le cadevano sul collo lisci e secchi, con qualche spunzone davanti all'occhi. «Sta svergognata!» pensò solo Alduccio, andandosene. Da quando s'era inguaiata col figlio della sor'Anita, la fruttarola che abitava all'angolo, non c'era stato più un momento di pace in casa d'Alduccio. Adesso doveva sposare, ma il figlio della fruttarola ormai non la poteva più vedere. La notte ch'era stata cacciata via di casa, le aveva tenuto compagnia, dormendo con lei alla chiarina, sugli scalini davanti a casa sua al III lotto: ma solo per farsi vedere dalla gente. Dopo che lei aveva capito ch'era incinta, s'erano fidanzati, con tutto che, prima, sia i genitori di lui che quelli di lei non avessero voluto. Lei, per l'umiliazione, s'era tagliata le vene dei polsi con un pezzo di vetro, e era stata per morire; e difatti c'aveva ancora ai polsi due belle cicatrici fresche.

Aspettando il Begalone, Alduccio s'andò a fare due passi per la borgata. Il temporale s'era dissolto, e l'aria era tiepida, quasi di primavera. Pure il Begalone s'era cambiato; s'era messo intorno al collo un fazzoletto annodato alla malandrina, e s'era pettinato i capelli color stoppa lisci lisci, come una crosta, con la scrima da una parte e lunghi sul collo. - A Bègalo! - chiamò Alduccio. - Tu quanto tenghi? - gli chiese subito il Begalone. -Trenta lire, - fece Alduccio. - Giusto pe l'autobus, - disse il Begalone, -pure io! - Come, e quell'artri? - chiese insospettito Alduccio. - Stanno qqua, stanno qqua! - disse il Begalone, battendo con la mano sulla saccoccia di dietro dove teneva piegata la piotta e mezza fregata al Caciotta. - Ce scappeno pure du nazzionali, - fece Alduccio passando davanti al bare. - Tiette, a Ardù! - rispose il Begalone. - Addio! fece poi all'autobus che passava. - Mo ce ne sta n'antro, - fece Alduccio stirandosi allegramente.

Pure il Begalone stava a digiuno. E sotto i capelli gialli la sua faccia era gialla d'un bel giallo che dava sul verde su cui risaltavano bene i cigolini rossicci. Era così debole che nemmeno la febbre riusciva a dargli un po' di colorito: e sì che ce ne aveva almeno sei sette linee, come tutte le sere, da quando era stato rilasciato dal Forlanini; era tubercoloso da due o tre anni, e ormai non c'era più niente da fare, gli restava sì e no ancora un anno di vita...

Camminando con Aldo si passava i palmi delle mani sullo stomaco vuoto, piegandosi in avanti e dicendo i morti ai suoi fratelli, a suo padre e più di tutti a quella poveraccia di sua madre, che una notte - ch'era stata la prima d'una fila di notti disgraziate - s'era buttata giù dal letto strillando come una scema che aveva visto il diavolo. Diceva che un serpente era venuto dentro nella camera e s'era intorcinato ai piedi del letto e la guardava fisso costringendola a spogliarsi nuda; e allora lei aveva cominciato a gridare. Poi per l'intera giornata, tutt'a un botto, ricominciava con gli strilli, e guaendo come una cagna con un mal di testa che si sturbava, s'attaccava alle figlie o a chi aveva appresso perchè la proteggessero contro quella cosa che capiva soltanto lei. La notte dopo si svegliò un'altra volta urlando: ma questa volta non era più il diavolo. Difatti s'era spostata più in là sul letto sfatto, per lasciare un po' di posto a qualcuno, benchè il suo corpo secco come un'alice non ne occupasse molto. Sulle lenzuola grigie s'era messa seduta accanto a lei - come dopo lei raccontò - una ragazza morta: morta almeno a considerare com'era vestita, con la veste buona, le calze di lana bianche e la corona di fiori d'arancio, perchè pochi giorni dopo avrebbe dovuto sposare. Aveva incominciato a lamentarsi con la mamma del Begalone dicendo che le avevano messo una sottoveste troppo corta, che la corona di fiori che le avevano messo in testa era troppo stretta e le faceva male alle tempie, e poi a lamentarsi che dicevano per lei poche messe, che il Pisciasotto, un suo cugino piccoletto, non la veniva mai a trovare in cimitero, e avanti di questo passo. La mamma del Begalone non aveva mai conosciuto questa ragazza, ma il giorno dopo, il vicinato, commentando quegli strilli che in piena notte uscivano dalle finestre scassate dell'appartamento del Begalone e echeggiavano per i cortili dei lotti, appurò che quella ragazza morta era una parente di certe persone che abitavano poche porte più in là nello stesso lotto: tutti i connotati corrispondevano alla perfezione, compreso il cuginetto Pisciasotto, che esisteva difatti vivo e felice al Borghetto Prenestino. Poi ricominciò a apparire il diavolo, sotto varie forme: una volta un serpente, un'altra un orso, un'altra ancora una vicina di casa a cui erano cresciuti i denti come zanne, e che entravano e uscivano dentro la casa del Bègalo come fosse casa loro a tormentare la madre. Allora la famiglia aveva deciso di fare qualcosa, e aveva fatto venire da Napoli un vecchio parente ch'era pratico di quei fatti. Per prima cosa, questo parente fece bollire tutti gli oggetti che appartenevano alla mamma del Begalone: 20 chilovatt di gas se n'andarono in pochi giorni per quelle bolliture, e alla cena nessuno ci pensava. I tre fratelli, le quattro sorelle e tutte le vicine erano occupati a mandar via la fattura. Avevano trovato nel cuscino della mamma del Bègalo delle piume intorcinate in forma di colombe, croci, corone, e le avevano fatte subito bollire: nel tempo stesso avevano messo nell'olio bollente dei pezzi di ferro e poi li avevano buttati nell'acqua fredda, per vedere che figure venivano fuori, e da due o tre giorni non si sentiva altro in casa che i colpi dati sul pavimento per formare dei cerchi intorno alla fatturata che non faceva che raccomandarsi e far la lagna.

- M'avessero dato armeno un pezzetto de pane, manco quello, sti disgrazziati, - diceva il Begalone, premendosi la bocca dello stomaco. -Qua semo uno più morto de fame dell'artro, - fece ridendo Alduccio, con la sua bella faccia sformata da un ghigno di ironia rassegnata. Cacciarono le mani in tasca e si fecero a piedi il pezzo fino al Monte del Pecoraro.