5. DISCIPLINA AUGUSTA (6)
In primavera, la salute di Lucio cominciò a ispirarmi timori abbastanza seri. Una mattina, a Tivoli, dopo il bagno scendemmo nella palestra dove Celere s'esercitava in compagnia di altri giovani; uno d'essi propose una di quelle gare nelle quali ogni partecipante corre armato d'uno scudo e d'un'asta; Lucio si schermì, com'era solito e, alla fine, cedette ai nostri amichevoli motteggi; nell'armarsi, si lamentò del peso dello scudo bronzeo: a confronto con la schietta bellezza di Celere, quel corpo esile sembrava fragile. Compiuti pochi passi di corsa, si fermò trafelato e cadde di schianto, in uno sbocco di sangue. L'incidente non ebbe seguito; Lucio si riprese facilmente. Ma io m'ero spaventato; e avrei dovuto aspettare a rassicurarmi.
Opposi ai primi sintomi della malattia di Lucio la fiducia ottusa d'un uomo che è stato robusto tanto tempo, la sua fede implicita nelle riserve inesauribili della giovinezza, nel buon funzionamento degli organismi. E' vero che s'ingannava anche lui: una fiamma leggera lo sosteneva; la sua vivacità illudeva lui stesso quanto noi. I miei anni più belli erano trascorsi in viaggio o negli accampamenti o agli avamposti; avevo apprezzato le virtù d'una vita rude, l'effetto salutare delle regioni secche o ghiacciate. Stabilii di nominare Lucio governatore di quella stessa Pannonia dove avevo fatto le mie prime esperienze di capo. Su quella frontiera, la situazione era meno critica d'allora; il compito di Lucio si sarebbe limitato ai tranquilli lavori dell'amministratore civile o a ispezioni militari scevre di pericolo. Quel paese aspro lo avrebbe disabituato dalla mollezza romana: avrebbe imparato a conoscere meglio quel mondo immenso che l'Urbe governa e dal quale dipende. Egli temeva quei climi barbari; non comprendeva che si potesse godere la vita in altri luoghi che a Roma. Tuttavia, accettò con la compiacenza che aveva quando voleva piacermi.
Lessi attentamente tutta l'estate i suoi rapporti ufficiali, e quelli, più segreti, di Domizio Rogato, un mio uomo di fiducia che gli avevo messo al fianco in qualità di segretario, con l'incarico di sorvegliarlo. Quei rapporti mi soddisfecero: in Pannonia, Lucio seppe dare prova di quella serietà che esigevo da lui, e della quale, forse, si sarebbe liberato dopo la mia morte. Anzi, ebbe una serie di scontri di cavalleria agli avamposti e ne uscì con onore. In provincia, come altrove, riusciva a incantare tutti; le sue maniere asciutte e un poco perentorie non lo danneggiavano: almeno, non sarebbe stato uno di quei principi bonari governati da una combriccola. Ma, sin dagli inizi dell'autunno, lo colse il freddo. Lo si credette presto guarito, ma si ripresentò la tosse; la febbre persistette e non lo lasciò più. Un miglioramento passeggero fu seguito da una ricaduta grave, nella primavera successiva. I bollettini dei medici mi costernarono; la posta pubblica che avevo istituito di recente, e comportava cambio di cavalli e di vetture su territori immensi, pareva funzionare soltanto per recarmi ogni mattina più prontamente notizie del malato. Non mi perdonavo d'essere stato inumano con lui per timore d'essere o di sembrare fiacco. Non appena si fu ripreso abbastanza da poter affrontare il viaggio, lo feci ricondurre in Italia.
Andai di persona, accompagnato dal vecchio Rufo di Efeso, specialista in etisia, a incontrare il mio gracile Elio Cesare al porto di Baia. Il clima di Tivoli, benché migliore di quello di Roma, non è tuttavia abbastanza mite per i polmoni lesi; avevo stabilito di fargli trascorrere lo scorcio dell'anno in quel clima più sicuro. La nave gettò l'ancora in pieno golfo; una piccola imbarcazione portò a terra il malato e il suo medico. Il volto sparuto di Lucio appariva ancor più scarno sotto la folta barba di cui s'era fatto coprire le gote, per rassomigliarmi. Ma gli occhi avevano serbato quella fiamma fredda da pietra preziosa. Le sue prime parole furono per ricordarmi che tornava solo per ordine mio; la sua amministrazione era stata impeccabile; m'aveva obbedito in tutto. Si comportava come uno scolaretto che giustifica l'impiego delle ore. Lo feci alloggiare in quella villa di Cicerone dove un tempo aveva trascorso con me una stagione, a diciotto anni. Ebbe l'eleganza di non parlar mai di quell'epoca. I primi giorni parvero una vittoria sul male: quel ritorno in Italia era già di per se stesso un rimedio: in quel tempo, quel paese era di porpora e rosa. Ma cominciarono le piogge; dal mare grigio, soffiava un vento umido; la vecchia casa, costruita ai tempi della Repubblica, mancava delle comodità più moderne della villa di Tivoli; guardavo Lucio riscaldarsi malinconicamente davanti al braciere le lunghe dita cariche di anelli. Ermogene era appena tornato dall'Oriente, dove l'avevo mandato per rinnovare e completare la sua provvista di medicamenti; tentò su Lucio gli effetti d'un fango impregnato di sali minerali potenti; si credeva che quelle applicazioni potessero guarire ogni male. Ma non giovarono né ai suoi polmoni né alle mie arterie.
La malattia metteva a nudo gli aspetti peggiori di quel carattere arido e leggero; la moglie gli fece visita, e, come sempre, l'incontro si concluse con parole amare. Ella non tornò più. Gli portarono il figlio, un bel bambino di sette anni, sdentato e ridente; lo guardò con indifferenza. S'informava con avidità delle notizie di Roma; vi s'interessava da giocatore, non da statista. Ma la sua frivolezza restava una forma di coraggio; si destava dopo lunghi pomeriggi di sofferenze o di torpore per impegnarsi in una di quelle conversazioni scintillanti d'altri tempi; quel viso madido di sudore sapeva ancora sorridere, quel corpo scarnito si levava con grazia per accogliere il medico. Sarebbe restato fino all'ultimo istante il principe d'avorio e d'oro.
La sera, incapace di prender sonno, mi recavo nella camera del malato; Celere, che non era tenero con Lucio, ma troppo fedele per non servire con sollecitudine quelli che mi son cari, accettava di vegliarlo al mio fianco; dalle coperte saliva un rantolo. Mi sentivo invadere da un'amarezza profonda come il mare: non mi aveva amato mai; i nostri rapporti erano diventati ben presto quelli del figlio prodigo e del padre indulgente; la sua vita s'era svolta scevra di progetti ambiziosi, di pensieri gravi, di passioni ardenti; aveva dilapidato gli anni come un prodigo dispensa monete d'oro. Mi ero appoggiato a un muro crollante; pensavo stizzito alle somme enormi dilapidate per la sua adozione, ai trecento milioni di sesterzi distribuiti alle truppe. In un certo senso, ero perseguitato dalla mala sorte: avevo appagato il mio antico desiderio di dare a Lucio tutto quel che si può dare; ma lo Stato non ne avrebbe sofferto; non avrei rischiato d'essere disonorato da quella scelta. Nel fondo dell'animo, finivo col temere che migliorasse; se per caso si fosse trascinato ancora qualche anno, non potevo lasciare l'impero a quella larva. Senza mai farmi domande, pareva che penetrasse il mio pensiero su questo punto; i suoi occhi seguivano ansiosi ogni mio gesto, anche insignificante; l'avevo nominato console per la seconda volta; si preoccupava di non poterne adempiere le funzioni; l'angoscia di dispiacermi lo fece peggiorare. «Tu Marcellus eris...» Mi ripetevo i versi di Virgilio consacrati al nipote di Augusto, destinato all'impero anche lui, e che la morte aveva fermato sul suo cammino. «Manibus date lilia plenis... Purpureos spargam flores...» Quell'innamorato dei fiori non avrebbe ricevuto da me che vane corone funebri.
Credette di star meglio, volle far ritorno a Roma. I medici ormai non discutevano più tra loro se non del tempo che gli restava da vivere; mi consigliarono di contentarlo; a piccole tappe, lo ricondussi alla Villa. La sua presentazione al Senato in qualità di erede dell'impero doveva aver luogo durante la prima seduta dell'anno nuovo; l'uso voleva che in quella occasione egli mi rivolgesse un discorso di ringraziamento: quel brano d'eloquenza lo preoccupava da mesi; ne limavamo insieme i passaggi più ardui. Vi lavorava una mattina delle calende di gennaio, quando fu colto da un'emorragia improvvisa; ebbe una vertigine; si appoggiò allo schienale della sedia e chiuse gli occhi. La morte non fu che uno stordimento, per quell'essere leggero. Era il giorno di Capodanno; per non interrompere le celebrazioni pubbliche e le festività private, proibii che si diffondesse subito la notizia della sua morte; fu annunciata ufficialmente solo il giorno dopo. Fu sotterrato con semplicità nei giardini della sua famiglia. Alla vigilia di quella cerimonia, il Senato m'inviò una delegazione incaricata di porgermi le condoglianze e di offrire a Lucio gli onori divini, ai quali aveva diritto, in quanto figlio adottivo dell'imperatore. Rifiutai: tutta quella faccenda era già costata troppo allo Stato. Mi limitai a fargli costruire qualche cappella funeraria, a fargli erigere qua e là qualche statua, nei diversi luoghi dov'era vissuto: quel povero Lucio non era un dio.
Questa volta, ogni minuto diventava urgente. Ma avevo avuto tutto il tempo di riflettere, al capezzale del malato; avevo fatto i miei piani. Avevo notato in Senato un certo Antonino, un uomo sulla cinquantina, di famiglia provinciale, imparentata alla lontana con quella di Plotina. M'aveva colpito per le cure tenere e deferenti di cui circondava il suocero, un vegliardo ormai inetto che gli sedeva accanto; rilessi il suo stato di servizio; in tutti i posti che aveva occupato, quell'uomo s'era mostrato un funzionario irreprensibile. La mia scelta si fissò su di lui. Più frequento Antonino, più la stima che ho per lui tende a mutarsi in rispetto. Quest'uomo semplice possiede una virtù alla quale avevo pensato ben poco fino a oggi, persino quando m'è accaduto di praticarla: la bontà. Non va immune dai modesti difetti del saggio: la sua intelligenza, applicata all'adempimento meticoloso dei compiti quotidiani, mira al presente più che all'avvenire; la sua esperienza del mondo è limitata dalle sue stesse virtù; i suoi viaggi si limitano a poche missioni ufficiali, del resto adempiute molto bene. S'intende pochissimo d'arte; è restio alle innovazioni. Le province, ad esempio, per lui non rappresenteranno mai quelle possibilità immense di sviluppo che non hanno cessato di essere per me; continuerà l'opera mia, più che ampliarla; ma la continuerà bene; lo Stato avrà in lui un servitore onesto e un buon padrone.
Ma lo spazio d'una generazione mi sembrava poca cosa, quando si tratta d'assicurare la sicurezza al mondo; tenevo, se era possibile, a estendere oltre nel tempo la prudente discendenza adottiva, a preparare all'impero un ulteriore cambio della guardia lungo la strada del tempo. A ogni mio ritorno a Roma, non avevo mancato mai di andare a salutare i miei vecchi amici, i Veri, spagnoli come me, appartenenti a una delle famiglie più liberali dell'alta magistratura. Ti ho conosciuto in culla, piccolo Annio Vero, che oggi, per mio volere, ti chiami Marc'Aurelio. In uno degli anni più belli della mia vita, nell'epoca che segna l'erezione del Pantheon, per affetto verso i tuoi t'avevo fatto eleggere membro del santo collegio dei Fratelli Arvali, al quale presiede l'imperatore medesimo, e che perpetua piamente i più antichi costumi religiosi di Roma; durante il sacrificio, che quell'anno ebbe luogo in riva al Tevere, ti ho tenuto per mano; ho guardato con divertita tenerezza il tuo contegno di bimbetto di cinque anni, spaventato dalle strida del porcellino immolato, ma pure pronto a far del suo meglio per imitare il contegno grave dei grandi. Mi interessai dell'educazione di quel fanciullino troppo serio; aiutai tuo padre a sceglierti i maestri migliori. Vero, il Verissimo: scherzavo con il tuo nome: tu sei forse il solo essere che non mi abbia mentito mai. T'ho visto leggere con passione gli scritti dei filosofi, vestirti di lana ruvida, dormire sulla nuda terra, costringere il tuo corpo gracile a tutte le mortificazioni degli stoici: atteggiamenti che non mancano di eccesso; ma, a diciassette anni, l'eccesso è una virtù. A volte, mi chiedo contro quale scoglio farà naufragio tutto ciò, poiché si fa sempre naufragio: sarà una sposa, un figlio troppo amato, uno di quei tranelli legittimi nei quali restano impigliati i cuori più timorati e puri; o sarà più semplicemente l'età, la malattia, la stanchezza, il disinganno che ci avverte che, se tutto è vano, lo è anche la virtù? Immagino, al posto del tuo volto candido di adolescente, il tuo viso stanco di vecchio. Sento quanta dolcezza, quanta debolezza forse, si celi dietro la fermezza che hai imparata tanto bene, indovino in te la presenza d'un genio che non è necessariamente quello dell'uomo di Stato; il mondo sarà migliorato indubbiamente per sempre per averlo visto associato una volta al potere supremo. Ho fatto il necessario affinché tu fossi adottato da Antonino; con questo nome nuovo, che porterai un giorno nella lista degli imperatori, ormai tu sei mio nipote. Credo d'offrire agli uomini l'unica occasione che avranno mai di realizzare il sogno di Platone, di veder regnare su di loro un filosofo dal cuore puro. Hai accettato gli onori con ripugnanza; il tuo rango ti costringe a vivere a palazzo; Tivoli, questo luogo dove io raduno sino all'ultimo tutte le dolcezze che la vita offre, ti preoccupa per la tua giovane virtù; ti vedo aggirarti serio in volto sotto queste pergole fiorite di rose, ti guardo, con un sorriso, attratto dalle belle creature di carne poste sul tuo passaggio, esitare teneramente tra Veronica e Teodoro, e rinunciare subito a entrambi, in favore dell'austerità, mero fantasma. Non m'hai nascosto il tuo disdegno malinconico per questi effimeri splendori, per questa corte che si disperderà alla mia morte. Tu non mi ami molto; il tuo affetto filiale va piuttosto ad Antonino. Tu fiuti in me una saggezza opposta a quella che t'insegnano i tuoi maestri, e, nel mio abbandono ai sensi, un metodo di vita in antitesi alla severità del tuo, e che pur tuttavia gli è parallelo. Non importa: non è necessario che tu mi comprenda. Vi è più d'una saggezza, e sono tutte necessarie al mondo: non è male che esse si alternino.
Otto giorni dopo la morte di Lucio, mi feci portare in Senato in lettiga; chiesi il permesso di entrare così nella sala delle deliberazioni, e di pronunciare la mia allocuzione stando disteso, sostenuto da un mucchio di guanciali. Parlare mi stanca: pregai i senatori di stringersi in cerchio intorno a me, per non esser costretto ad alzare la voce. Feci l'elogio di Lucio; le mie poche frasi sostituirono nel programma della seduta il discorso che avrebbe dovuto pronunciar lui quello stesso giorno. Poi, annunciai la mia nuova decisione; nominai Antonino; pronunciai il tuo nome. Avevo fatto assegnamento sull'adesione unanime: l'ottenni. Espressi un'ultima volontà, che fu accettata come le altre: chiesi che Antonino adottasse pure il figlio di Lucio, che così avrà Marc'Aurelio per fratello; governerete insieme; conto su di te affinché tu abbia premure da fratello maggiore per lui. Ci tengo che lo Stato conservi qualche cosa di Lucio.
Tornando a casa, per la prima volta dopo lunghi giorni, ebbi la tentazione di sorridere. Avevo giocato con abilità. I seguaci di Serviano, i conservatori ostili all'opera mia non avevano capitolato: tutte le cortesie da me usate a quell'augusto e antico corpo senatoriale, ormai sorpassato, non compensavano per loro i due o tre colpi che gli avevo inferto. Senza dubbio, essi profitteranno della mia morte per tentar d'annullare i miei atti. Ma i miei nemici più feroci non oseranno respingere il più integro tra i loro rappresentanti e il figlio d'uno dei loro membri più rispettati. La mia opera pubblica era compiuta: ormai, potevo far ritorno a Tivoli, rientrare in quel ritiro che la malattia rappresenta, compiere esperimenti con le mie sofferenze, abbandonarmi ai piaceri che mi restavano, riprendere in pace il mio dialogo interrotto con un fantasma. Il mio retaggio imperiale è al sicuro, tra le mani del pio Antonino e dell'austero Marc'Aurelio; e Lucio sopravvivrà anch'egli in suo figlio. Non avevo disposto male le cose.